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Chi può dirsi suo discepolo?



Alessandro Lanni



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Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset, del gennaio-febbraio 2001

“Su di lui hanno spesso scritto meglio i filosofi (da Feyerabend a Habermas, da Sellars a Rorty) che gli esegeti e gli storici della filosofia”. Con queste parole, più di dieci anni fa Diego Marconi - tra i primi in Italia a leggere senza occhiali ideologici le opere di uno dei filosofi più celebrati del XX secolo - descriveva la curiosa condizione nella quale si trovava allora, e continua a trovarsi oggi nel cinquantenario della morte, Wittgenstein. Centinaia di interpretazioni disparate, quasi che il pensiero dell’autore del Tractatus fosse talmente sfuggente da essere spesso frainteso.

Negli anni è stato definito un empirista e un trascendentalista, un nominalista, un relativista e altro ancora. E, malgrado sia un tratto comune ai grandi la ricchezza di chiavi interpretative, il caso di Wittgenstein sembra essere diverso, se non altro per il fatto che lui, il nemico delle oscurità del linguaggio e della terminologia metafisica tradizionale, abbia trovato così tante difficoltà a mettere d’accordo i suoi lettori.


Se nel Novecento sono esistite scuole vere e proprie, dai neokantiani di Marburgo ai neopositivisti americani di seconda e terza generazione, dalla fenomenologia post-husserliana all’heideggerismo trionfante, chi invece può sentirsi con pieno diritto oggi, se non proprio figlio, almeno nipote del pensiero di Ludwig Wittgenstein? E, stando alla domanda sollevata da Gianni Vattimo in conclusione del suo articolo, qual è l’attualità di Wittgenstein nel dibattito filosofico odierno?
Gli interventi che presentiamo in questo numero di Reset possono, ognuno a suo modo, gettare luce su queste domande e fornire alcuni spunti per comprendere meglio la singolare figura di un filosofo tra i più citati degli ultimi decenni. A proposito o a sproposito.


Sia Rorty che Perissinotto si concentrano sulla complessa vicenda della ricezione di Wittgenstein nella storia e nella cronaca filosofica del Novecento, la vicenda di un filosofo che in vita non ha voluto fondare una scuola e che dopo essere morto non ha avuto veri e propri seguaci. E che, malgrado ciò, è uno dei pensatori contemporanei che più ha influenzato la riflessione filosofica.

In periodi distinti le due correnti dominanti la filosofia della seconda metà del secolo, l’analitica e la continentale, hanno raccolto e poi abbandonato la fiaccola wittgensteiniana. In Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti - vale a dire in quelle nazioni dove la filosofia analitica era ed è dominante - Wittgenstein è decisamente in ribasso negli ultimi tempi. Un tempo schiere di studenti venivano cresciute a pane e Tractatus e sulle pagine delle Ricerche filosofiche. Al contrario, oggi, la figura del geniale viennese ha perso appeal, spesso sostituita dai maîtres à penser francesi Derrida e Foucault e dal grande vecchio dell’ermeneutica, Gadamer. In questi ultimi anni, i filosofi analitici anglosassoni hanno disconosciuto alcune conquiste wittgensteiniane, ripiegando su uno stile e su assunti lontani e in contrasto con quelli in voga qualche decennio fa.

Nel Vecchio Continente la fama di Wittgenstein ha seguito un percorso inverso. Dopo la stagione del neopositivismo, presto emigrata oltre oceano, la filosofia europea negli anni Sessanta ha diffidato e recepito negativamente la lezione wittgensteiniana. Esemplari a questo proposito sono stati i giudizi tranchants dei fondatori della Scuola di Francoforte. Herbert Marcuse vedeva nel pensiero di Wittgenstein il “trionfo del pensiero positivo” che si adeguava sull’esistente, conservatore e incapace sollevare una critica effettiva sul reale. Reazioni analoghe le manifestò Adorno nei confronti del Tractatus e lo stesso Gadamer malgrado riconosca a Wittgenstein qualche merito, soprattutto nella de-trascendentalizzazione del linguaggio operata nelle Ricerche, lo considera ancora molto lontano dai risultati della fenomenologia.


In Francia, con più garbo, Wittgenstein fu completamente ignorato. Né il “santone” Sartre né, in seguito, Derrida e Foucault dedicarono particolare attenzione al filosofo viennese. Malgrado ciò, il rapporto tra Wittgenstein e la filosofia continentale era destinato a modificarsi a partire dagli anni Settanta. Come ricorda Perissinotto nel suo intervento, i “francofortesi” della seconda generazione hanno riabilitato quanto scritto nel Tractatus e soprattuto nei testi dell’ultimo periodo come le Ricerche filosofiche: Jürgen Habermas ha ben presente la nozione wittgensteiniana di “gioco linguistico” nella monumentale Teoria dell’agire comunicativo, e Karl Otto Apel è uno dei primi a far dialogare proficuamente Wittgenstein e Heidegger (un incontro che anche Vattimo suggerisce nell’articolo che presentiamo in questo numero).

Anche in Francia alla voce autorevole ma isolata di Bouveresse si sono aggiunti altri contributi notevoli. E in Italia già nel 1976, Massimo Cacciari dava un’interpretazione originale e molto poco “analitica” del pensiero wittgensteiniano, seguita nel decennio successivo da interpretazioni teoreticamente rilevanti come quelle di Gargani e Sini, che hanno dato il là ad una vera e propria moda negli anni Novanta. Ma allora, perché tutti questi filosofi non possono essere considerati allievi di Wittgenstein?

Siano quali siano le ragioni di questo pendolo nella valutazione dei filosofi - alcune le suggerisce ancora Rorty nel suo articolo - Wittgenstein è rimbalzato in questi decenni da una parte all’altra degli schieramenti filosofici contemporanei, senza però trovare una casa dove mettere radici. È su questo tema che si sofferma l’articolo di Marilena Andronico, che considera questa assenza di discepoli non un semplice accidente o incapacità personale, quanto piuttosto elemento necessario nella pratica e nella concezione della filosofia perseguite da Wittgenstein. Non ci sono “filosofi wittgensteiniani” e non può darsi una scuola wittgensteiniana semplicemente perché non esiste “una filosofia wittgensteiniana”, intesa nel senso di un corpus sistematico di dottrine e di conoscenze.

La filosofia è un’attività, Wittgenstein non si stanca di dirlo dall’inizio alla fine, è un “abito” e non un “sapere”, potremmo dire noi. Ha a che fare con la volontà del singolo di intervenire “sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose”, secondo le parole del filosofo. È allora, forse, alla luce di quest’idea di filosofia come “abito” (in una direzione analoga, ci sembra, Perissinotto parla del “ fondamentale movimento etico del filosofare”) che si spiega meglio perché siano stati i filosofi di professione piuttosto che i filologi a interpretare meglio lo “spirito” - non la “lettera” - della filosofia wittgensteiniana. È nella condizione di singolo, di individuo isolato dalla comunità delle scuole e delle correnti che il filosofo frequenta uno stile wittgensteiniano di pensiero.

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