Gli usi di un filosofo, come e
perché
Luigi Perissinotto
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Gli usi di un filosofo,
come e perché
Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset, del
gennaio-febbraio 2001
La presenza della figura e del pensiero di Wittgenstein nella
filosofia ma, più in generale, nella cultura contemporanea è un dato
che difficilmente può essere contestato. La stanno a testimoniare, da
una parte, il numero impressionante di libri e articoli che continuano
a essere dedicati alla ricostruzione, analisi e valutazione della sua
filosofia, numero che sicuramente colloca la bibliografia
wittgensteiniana ai primi posti tra le bibliografie filosofiche di
ogni tempo, alla pari con le bibliografie dedicate ai grandi classici
del pensiero e che fa tremare le vene e i polsi a chiunque, studente o
studioso, si accinga a indagarne il pensiero magari con la pretesa di
aggiungere un altro titolo ai molti esistenti e, perché no, di dire
qualcosa di nuovo o di diverso. Ma la presenza di Wittgenstein è
anche testimoniata dall’insistenza con cui nella letteratura
filosofica ci si richiama al suo pensiero, citandolo a piene mani o
impiegando, talora disinvoltamente, alcuni delle formule e dei termini
più caratteristici della sua filosofia: gioco linguistico, in primis,
ma anche (e sempre più) forma di vita, e poi: uso, somiglianze di
famiglia, eccetera.

Appare tuttavia difficile decifrare il significato di questa presenza,
intendere come essa si sia dispiegata e, soprattutto, in quale senso
continui (se davvero continua) effettivamente ad agire. Il fatto è
che, da una parte, non è ancora per nulla chiaro che tipo di filosofo
sia Wittgenstein e che cosa possa mai significare, sempre che qualcosa
significhi, cercare di filosofare sulle sue orme e secondo il suo
spirito; e che, dall’altra, appare sempre più difficile situare
Wittgenstein nell’ambito degli orientamenti di pensiero che si
contendono l’attuale scena filosofica. Da tempo, infatti, l’immagine
di un Wittgenstein analitico si è sbiadita o quasi del tutto
dissolta; e se i filosofi analitici continuano con orgoglio (e per
certi lati del tutto legittimamente) ad annoverarlo, con Frege,
Russell, Moore, Austin, e qualche altro, tra i propri padri fondatori,
occorre anche riconoscere che tra molti analitici degli ultimi decenni
la tentazione del parricidio nei riguardi di Wittgenstein si è fatta
sempre più forte e diffusa.

Molti degli orientamenti che attualmente dominano la
filosofia analitica portano infatti a sospettare proprio di quegli
aspetti su cui Wittgenstein ha con più veemenza insistito. Per fare
alcuni esempi: la ripetuta dichiarazione dell’estraneità della
scienza al lavoro filosofico; il rifiuto in filosofia della teoria e
della spiegazione a vantaggio degli esempi determinati e della
descrizione; la critica impietosa all’antipsicologismo, ripreso da
Frege con una radicalità che forse nemmeno Frege immaginava; il
privilegio attribuito al linguistico rispetto al mentale; l’idea che
la filosofia abbia più a che fare con il vedere che con l’argomentare;
l’insistenza sul significato etico più che conoscitivo del lavoro
filosofico. Sono questi tutti tratti del pensiero di Wittgenstein in
cui pochi filosofi analitici oggi si riconoscono e di cui addirittura
si servono per caratterizzare il proprio orientamento filosofico
negativo (basti solamente pensare all’insistenza di molti odierni
analitici sulla stretta contiguità tra scienza e filosofia e allo
psicologismo che ormai domina ampi settori della filosofia analitica).
Ma se appare sempre più difficile attribuire a Wittgenstein l’etichetta
di analitico, risulta altrettanto difficile includerlo in quella che
per comodità possiamo chiamare, come è ormai d’uso nel mondo di
lingua inglese, “filosofia continentale”. Ovviamente non sono
mancati i tentativi, alcuni di notevole interesse, altri più
pretestuosi, di accostare Wittgenstein a Husserl, a Heidegger, a
Gadamer, a Merleau-Ponty, a Derrida, a Habermas, a Apel. A loro volta
alcuni dei più noti filosofi continentali si sono richiamati alla
filosofia di Wittgenstein. Gadamer, per esempio, che ha spesso
sottolineato alcune profonde affinità tra la sua concezione del
linguaggio e quella che si esprime nell’idea wittgensteiniana di
gioco linguistico. Lyotard, che nei suoi testi più noti, da La
condizione postmoderna a Il dissidio, ha impiegato in maniera non
sporadica o marginale temi e movenze wittgensteiniane. Apel, che ha
sempre fatto di Wittgenstein uno dei punti di riferimento, in positivo
e in negativo, del suo filosofare. Nonostante tutto questo, occorre
però riconoscere che Wittgenstein non è ancora (e chissà se mai lo
sarà) un filosofo capace di dissipare le antiche e radicate
diffidenze dei filosofi continentali, dai quali è perlopiù avvertito
come il più continentale dei filosofi analitici e come
particolarmente sensibile ad alcune questioni che impegnano e
inquietano i filosofi continentali (in primis, la questione che cosa
significa “filosofia”) e che lasciano indifferenti o sospettosi i
filosofi analitici.
Di fronte a questa situazione, è comprensibile come possa nascere
tra, diciamo così, i “wittgensteiniani” la tentazione di
considerare Wittgenstein come un filosofo totalmente eccentrico non
solo rispetto alla storia della filosofia, ma anche nei confronti
delle complicate e contorte vicende della filosofia contemporanea. Un
rappresentante di questa tendenza è Jean-Pierre Cometti, il quale
guarda con profonda diffidenza a ogni tentativo di accostare e
collegare la filosofia di Wittgenstein e il suo modo di intendere lo
stile e la pratica filosofica a qualcuno dei filosofi e degli
orientamenti che si spartiscono la scena filosofica novecentesca o
addirittura la scena filosofica tout court. Ovviamente, l’eccentricità
di Wittgenstein è assunta da Cometti come un valore sulla base della
convinzione che ogni accostamento sarebbe una contaminazione indebita
che potrebbe solo distorcere e banalizzare la singolarità di un
filosofare letteralmente senza precedenti. Occorre riconoscere che
questa interpretazione non è affatto estranea alla maniera in cui
Wittgenstein tendeva e amava presentare il suo filosofare. Mi
riferisco non solo al passo risalente agli anni del Tractatus
logico-philosophicus in cui si dichiara indifferente a quello che
altri hanno pensato prima di lui, ma soprattutto a quei passi raccolti
nei Pensieri diversi in cui afferma la sua estraneità allo spirito
costruttivo (tecnico-scientifico) dell’Occidente e sostiene di
scrivere per pochi amici dispersi ai quattro angoli della terra.
Tuttavia credo che si faccia torto al filosofare wittgensteiniano non
solamente quando si cerca semplicemente di ricondurlo a esperienze
filosofiche già note e consolidate, elaborando, per esempio, l’immagine
di un Wittgenstein fenomenologo o ermeneutico, ma anche allorché si
insiste sulla sua incommensurabile singolarità. La fecondità e la
forza di una filosofia, infatti, sta anche nella sua capacità di
raccogliere in sé istanze, tensioni e interrogativi presenti in altre
esperienze filosofiche e di misurarvisi non solamente in termini di
negazione e di rifiuto.
Quanto finora osservato non voleva solamente avvalorare e precisare la
considerazione iniziale sulle difficoltà di valutare il ruolo di
Wittgenstein nel contesto del pensiero novecentesco, ma anche aprire
qualche interrogativo sul senso di una filosofia che, se da alcuni (Apel
ne è l’esempio più evidente) è stata considerata come espressiva
di un secolo filosofico sempre più indifeso nei confronti del
relativismo, da altri è stata dichiarata così estranea agli attuali
orientamenti filosofici da rappresentare una nuova e ancora
inesplorata possibilità per il pensiero. è mia convinzione che nel
secondo atteggiamento vi sia della verità, anche se non possiamo
certo escludere che Wittgenstein resti più un filosofo da onorare e
citare che, per usare una formula cara a Cometti, un filosofo con cui
filosofare. Perché questo non accada occorre però che sia preso
davvero sul serio e valutato nelle sue conseguenze la maniera in cui
Wittgenstein ha inteso e praticato la filosofia. Mi riferisco
anzitutto all’idea, su cui Wittgenstein non ha mai avuto incertezze,
secondo cui la filosofia è di principio diversa dalla scienza: in
essa non si propongono tesi, non si formulano teorie, non si cercano
spiegazioni, non si perseguono scoperte; essa è invece una attività
che, si osserva nel Tractatus logico-philosophicus, ha come scopo la
chiarificazione dei pensieri. Come ho già ricordato, si tratta di una
idea su cui ben pochi filosofi analitici oggi concordano e che segna
forse la frattura più netta tra l’odierna filosofia analitica e
Wittgenstein. In ogni caso non si tratta di un punto secondario che
possa essere liquidato o con qualche giochetto formale (del tipo: che
in filosofia non vi siano tesi, non è a sua volta una tesi
filosofica?) o separandolo, come segno di una fissazione storicamente
datata, dal resto della sua filosofia. A esso si collega infatti
quello che ritengo un altro dei tratti più caratteristici e
ineliminabili della filosofia di Wittgenstein, ossia, per dirla con un
passo famoso dei Pensieri diversi, che il lavoro filosofico è
fondamentalmente un lavoro su se stessi, su come si vedono le cose e
su cosa si pretende da esse. Sta qui quella che potremmo chiamare la
“sostanza etica” del filosofare wittgensteiniano, la quale lo
porta (a) a considerare le difficoltà filosofiche come difficoltà
non dell’intelletto (dunque non come difficoltà risolvibili dalla
scienza o da una presunta scienza filosofica), bensì della volontà;
e (b) a vedere nel dogmatismo, ossia nella pretesa di far coincidere
il nostro modo di vedere con l’essenza della realtà, il pericolo e
la tentazione che con più forza minacciano il filosofo. In questa
sottolineatura del fondamentale movimento etico del filosofare, che in
qualche maniera recupera quel nesso tra filosofia e vita negato o
avvertito come inessenziale da molta filosofia contemporanea, sta,
direi, l’eredità di Wittgenstein, che può certo rimanere
infruttuosa ma che può anche, chissà come e chissà quando, dare
frutti nuovi e inaspettati.
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