Rai Educational/Democrazia ed
educazione
Emilio Lledo’ con Renato Parascandolo
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Rai Educational/Democrazia ed
educazione
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
La polis greca, intesa come relazione fondamentale fra gli uomini
che vivono in comunità, al di là della famiglia e dei legami della
vita contadina, non ha forse favorito la nascita di una terminologia
politica in uso ancora oggi?
La polis ha certamente avuto una storia determinata, condizionata
dall'evoluzione stessa della società greca; non è un caso che la
struttura della polis, quale organismo al cui interno gli uomini
potessero convivere, è qualcosa di molto diverso dalle strutture
collettive all'interno delle quali altre culture, altre civiltà,
hanno vissuto. I Greci, poi, hanno creato il vocabolario politico.
Infatti, sia nella Repubblica di Platone, sia nella Politica di
Aristotele, si parla sia di regimi politici, sia del modo in cui,
dentro la polis, era possibile raggiungere la felicità e il bene
dell'uomo. Per questo i Greci hanno espresso in termini specifici le
forme di organizzazione della vita all'interno della polis, creando
parole come aristocrazia, democrazia, oligarchia, timocrazia,
tirannia. Questi termini, corrispondevano a modelli secondo i quali si
viveva e si organizzava la città, della quale entravano a far parte
classi diverse, interessi diversi, tensioni diverse, ricchezze
diverse, livelli di cultura diversi.
È molto interessante, poi, che queste parole costituiscono il
vocabolario più vivo e più reale della cultura politica
contemporanea. Aristocrazia, oligarchia, tirannia non sono termini
pertinenti esclusivamente all'archeologia della storia greca. Oggi
infatti esistono tirannie, oligarchie, aristocrazie, democrazie,
demagogie, anche se non certo uguali a quelle dei Greci.
Tuttavia attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la
finzione, la menzogna, col non ricercare la verità, è possibile
creare false democrazie, false aristocrazie, false oligarchie e false
tirannie. Infatti, una delle cose più interessanti della cultura
greca, e che dai Greci abbiamo avuto in eredità, è l'idea di «bene
apparente», che Aristotele analizza concretamente nell'Etica
Nicomachea e in altre sue pagine. Si tratta della scoperta che,
insieme al perseguimento del bene in quanto tale, è possibile
perseguire un bene apparente, un bene che può non essere altro che
una proiezione dei nostri desideri, dei nostri interessi.
Naturalmente l'idea di «bene apparente» - phainomenon agathon, il
bene fenomenico- aveva un ulteriore aspetto filosofico che concerneva
quello spazio esistente fra l'idea del bene, e la soggettività e il
mondo storico nel quale questo bene apparente si situava.
Nel mondo contadino arcaico la tribù, la famiglia, era la
struttura fondamentale della società. In questa dimensione era
difficile che si sviluppasse un concetto di individualità, che l'uomo
si sentisse diverso dagli altri e, contemporaneamente, insieme agli
altri. Non è dunque con la polis che si creano le premesse per lo
sviluppi dell'io, dell'individualità?
Per i Greci, come probabilmente per molte altre culture, il clan
familiare, il vincolo di sangue, è stato il primo fattore di legame;
in altre parole, gli uomini si sono sentiti parte di uno spazio
collettivo a partire dal clan familiare. A questo proposito è
interessante rilevare che le parole greche philos e philia - amico e
amicizia - in origine erano legate alla consanguineità. La parola
philia nei primi testi dove appare, indicava infatti il vincolo che
univa coloro che avevano lo stesso sangue, che avevano gli stessi
progenitori, e che, dunque, appartenevano allo stesso clan familiare.
Successivamente la parola philia si è evoluta e ha cominciato a
indicare un vincolo che univa persone che non avevano niente in comune
dal punto di vista della consanguineità. Questa evoluzione è
collegata con lo sviluppo della democrazia che si verificò in Grecia
nel V secolo a.C.. Con l'avvento della democrazia, del demos, del
popolo, con l'avvento della coscienza che la verità non era più
appannaggio esclusivo di una dominante classe superiore; con l'avvento
della coscienza che il linguaggio non era solo linguaggio del potere,
e che le parole si potevano discutere e analizzare, si verificò un
mutamento nel concetto di individuo e di individualità.
Ciò avvenne anche grazie all'impulso dato dai sofisti, che
indubbiamente furono dei rivoluzionari nel senso più creativo della
parola. I sofisti infatti spezzarono lo schema autoritario della
parola del potere, che l'uomo greco ascoltava e assumeva passivamente.
Dal momento, quindi, in cui la verità, la aletheia, si poté
discutere, dal momento in cui non fu più necessario accettare il
discorso del potere e accettare la parola dell'altro perché
gerarchicamente posto al di sopra; dal momento in cui, con i sofisti e
con la discussione nell'agorà, nella società greca si compì questa
rottura, l'uomo non solo scoprì un nuovo concetto di verità, ma, nel
contempo, scoprì la sua intimità, scoprì se stesso, e comprese che
il suo io poteva chiedere al linguaggio che cosa è la virtù.
Il fatto che Platone scrivesse dialoghi, non potrebbe essere un
sintomo della scoperta delle diverse soggettività?
Nei suoi primi dialoghi, Platone, dando spazio ai problemi della
sofistica, fece in modo che la gente parlasse, dialogasse così che la
sua opera filosofica è un'opera dialogica. In realtà, i dialoghi di
Platone sono stati il primo grande blocco della cultura filosofica.
Prima di lui, infatti, ci sono stati i filosofi presocratici, le cui
opere, i cui ipotetici scritti, non sono giunti fino a noi, se non in
frammenti. Pertanto il primo grande blocco di opere filosofiche, la
prima grande voce che, quantitativamente, si è espressa con
abbondanza, è la voce platonica.
Tuttavia la voce platonica è una voce spezzata, incrinata da quella
di centinaia di interlocutori dei dialoghi, che propongono la loro
verità, che manifestano le loro idee, le loro prospettive, i loro
punti di vista rispetto alla realtà. Platone dunque scrivendo
dialoghi, espose un logos spezzato, e, in fondo, questo rappresentava
anche la scoperta della soggettività, la scoperta
dell'individualità.
Mai la filosofia è tornata a esprimersi in questo modo. È ben vero
che Galileo ha scritto dei dialoghi, e che gli empiristi inglesi hanno
espresso le loro idee in forma di dialogo, ma si tratta di un altro
tipo di dialogo, dove l'interlocutore si produce in un lungo, immenso
monologo. I dialoghi di Platone invece, soprattutto quelli della prima
fase e della maturità, hanno altre caratteristiche: i personaggi che
parlano sono individui, non meri nomi, etichette, che sciorinano un
discorso tecnico, scientifico o ideologico, interessante ma monologico.
I protagonisti dei dialoghi platonici, invece, in un incrociarsi di
sistemi, o meglio di prospettive, di passioni, di interessi, esprimono
la loro concreta e singolare individualità.
Ciò costituisce qualcosa di molto importante, soprattutto se si pensa
al mondo contemporaneo. Infatti riflettendo sui dialoghi platonici -
su quel dialogo continuo, quella ripartizione dei concetti a varie
voci - si scopre la necessità di non assumere ciò che proviene
dall'esterno passivamente, ma di rimetterlo in questione, discuterlo e
offrirlo all'altro affinché manifesti il suo assenso o il suo
dissenso, attraverso un logos che è vita, un logos che è
«dia-logo», un logos che circola, che non ristagna negli angusti
spazi del potere, dei mezzi che controllano, distribuiscono e
amministrano il linguaggio.
Qual è l'origine e il significato della parola filosofia?
L'uomo è un animale che parla, che si esprime, che ha bisogno di
pronunciare la sua lezione, di cantare la sua canzone, o, in altre
parole, è un animale che ha bisogno di manifestare il suo essere
all'altro. Ma oltre al legame fra gli uomini rappresentato dal logos,
esiste una forma di legame non ascrivibile al mondo astratto dei
significati, e che si riferisce invece all'affettività. L'uomo è un
essere che si apre agli altri, che ama, secondo una necessità
naturale. Tale necessità è riscontrabile già nel rapporto
madre-figlio, dove la madre ama il figlio, si dedica a lui, e il
figlio, per ragioni magari diverse, è aperto nei confronti della
madre.
Questa apertura verso gli altri, questo uscire da sé, i Greci lo
definirono con il termine philia. L'uomo, infatti, non può stare
rinchiuso in se stesso, non è assolutamente un monticolo di
solitudine, in quanto è un essere naturalmente aperto. E il vincolo
corrispondente a questa natura aperta è un vincolo affettivo, un
vincolo di amore per l'altro, che porta a voler realizzare il proprio
essere riconoscendosi nell'altro e volendo che l'altro ci riconosca.
Ma, indipendentemente da queste, che potrebbero sembrare elucubrazioni
psicologiche o metafisiche, in effetti, è singolare che la parola
filosofia sia composta da due termini: philia, e sophia. Ma non è del
tutto esatto tradurre sophia con la parola sapienza, tradurre philia
con la parola amore, e quindi il termine filosofia come «amore per la
sapienza». Questo perché philia non significa soltanto amore, né
sophia soltanto sapienza. Philia significa tendenza, proiezione,
relazione, e anche possibilità che gli altri, che sono oggetto della
nostra ricerca, rispondano agli interrogativi che poniamo loro. E
sophia significa per i Greci il saper fare qualcosa, avere contatto
con il mondo.
Il sophos era colui che sapeva fare qualcosa: una nave, una lira,
un'anfora. La sapienza non è infatti nata come speculazione astratta:
all'inizio i sapienti non erano soltanto coloro che sapevano
pronunciare un discorso sulla vita e che potevano orientare l'uomo in
essa. I sapienti, «oi sophoi», erano in primo luogo «coloro che
sapevano», i tecnici: quelli che sapevano fare qualcosa con le mani.
E come avrebbe potuto fin dal principio la parola sapienza significare
una cosa astratta? La prima cosa che gli uomini fecero fu manipolare
il mondo, toccarlo con le mani, trasformarlo. E dunque, prima del
sophos inteso come colui che ha la sapienza, c'era il sapiente inteso
come colui che sapeva modificare il mondo.
Di conseguenza nella parola filosofia è senza dubbio presente
l'aspirazione a un sapere che interpreti il reale. Ma tale termine -
che appare per la prima volta in un famoso frammento di Eraclito, dove
si dice che gli uomini filosofi è opportuno sappiano molte cose, che
siano al corrente di molte cose, che siano istores -, all'inizio,
indicava il rapporto di conoscenza, di interpretazione e di
valutazione dell'uomo nei confronti delle cose. Vale a dire,
l'apertura dell'uomo verso le cose per utilizzarle e in qualche modo
dominarle. Naturalmente la parola filosofia ha avuto una sua
evoluzione, ma, a mio parere, ciò che la caratterizza è legato a
questo significato primario di tendenza e di apertura verso la
conoscenza, di ricerca della conoscenza.
Qual è il contributo fondamentale che la sofistica apportò alla
cultura greca?
La ridicolizzazione dei sofisti da parte di Platone, il quale,
nonostante il rispetto comunque presente nei suoi dialoghi, come nel
Protagora e nel Gorgia, presenta la sofistica come una forma di
pensiero ingannatoria, che ribalta le cose mettendo sopra quel che sta
sotto, è una presentazione parziale, una deformazione. Tuttavia si
tratta di una deformazione interessante, perché consente di vedere la
sofistica a partire dalla prospettiva platonica, ovvero, da una
prospettiva aristocratica. Ma, per quel che si può capirne leggendo
Senofonte e Platone, i quali offrono versioni non del tutto
coincidenti sulla sofistica, i sofisti non furono solo dei tecnici,
anche se si racconta che alcuni di loro si fabbricavano le scarpe o i
vestiti.
A ogni modo c'è invece un punto sul quale Senofonte e Platone
concordano, ed è quello che riguarda la critica del linguaggio
realizzata dai sofisti, il suo ripensamento costante, la revisione di
concetti già in parte anchilosati, disseccati. Perciò i sofisti sono
stati, nell'ambito della comunicazione intellettuale, dei
rivoluzionari.
Certamente il verbo da cui proviene la parola sofista significa
all'incirca «rigirare eccessivamente le cose», e certamente i
sofisti hanno talvolta passato la misura, soprattutto quelli
appartenenti alla seconda sofistica. Ma, ciononostante, mi pare che la
critica di Platone ai sofisti sia, in un certo senso, esagerata, e
oserei dire anche in qualche modo ingiusta. Perché pur con tutte le
esagerazioni che si possono attribuire ai sofisti, pur col cattivo uso
che possono aver fatto della revisione dei concetti, a loro dovremo
sempre l'aver dinamizzato i concetti, l'averli fatti fluire, o, come
direbbe il poeta Alberti, l'aver «reso l'anima navigabile», resi
navigabili i concetti.
C'è poi un'altra parola-chiave della cultura greca, paideia o
educazione, che i sofisti rimisero sul tappeto, riportarono in piena
luce, e sulla quale insistettero. L'uomo è oggetto di educazione:
l'animale che parla, attraverso il linguaggio può arricchirsi,
svilupparsi, crearsi. Ed è chiaro che questa creazione, questo
sviluppo, questo arricchimento, sono connessi al rapporto con gli
altri individui che costituiscono una comunità. Va rilevato che la
democrazia funziona o può funzionare perfettamente, con la massima
perfezione possibile, solo quando esiste educazione, quando esiste
paideia. È interessante constatare che il popolo greco, che ha
inventato la democrazia, definì la paideia, l'educazione, come quel
fenomeno parallelo che consente alla democrazia di consolidarsi e di
crescere.
Ritengo che il rapporto fra democrazia e educazione sia uno dei
problemi della società contemporanea. E, pur non volendo fare il
profeta, credo che la democrazia sia condannata al fallimento se non
verrà fecondata con l'educazione, con la paideia. Una democrazia con
una cattiva educazione, una democrazia «deformante», una democrazia
dove si coltivi la menzogna, è una democrazia condannata, senza
futuro, nata morta, senza possibilità di crescita.
In Italia il ministero che presiede alla scuola si chiama Ministero
della Pubblica Istruzione. La parola educazione è stata eliminata,
anche formalmente, dal rapporto con la scuola, e quindi con la
formazione sociale e culturale del cittadino. Non ritiene che sia
pericoloso per la democrazia quando che l'educazione venga ridotta al
semplice rango di istruzione e di informazione?
Io credo che nel mondo dell'informazione, nel mondo dell'informatica
che oggi ci domina, sussista il pericolo di trasformare il sapere, la
conoscenza, in mera informazione. Eppure, ciò che caratterizza l'uomo
non è tanto il sapere, la quantità di informazioni di cui può
disporre - a questo scopo esistono già, appunto, i cervelli
elettronici, i computer - quanto la capacità di pensare, di rinnovare
il suo sapere, di rivederlo, di ricrearlo. E in una cultura come la
nostra, trasformare l'educazione in istruzione significa trasformare
gli individui in monticoli, in piccoli nuclei di piccoli saperi
assolutamente parziali, senza collegamento con gli altri saperi, con i
saperi della realtà totale.
Se continuiamo così, temo che la parola educazione si cristallizzi,
si solidifichi e diventi priva di ogni significato. Perciò credo sia
importante coltivare il pensiero. E nell'educazione oggi, nel rapporto
fra i professori e gli studenti, nell'organizzazione della scuola, e
anche nel mondo dell'informatica e in quello dell'informazione, va
stimolato come non mai, guardando al futuro, il pensiero: il pensiero
libero, il pensiero che crea, il rinnovamento intellettuale.
Altrimenti credo che saremo condannati a un inaridimento, a un
esaurimento del nostro orizzonte di possibilità.
Per questo oggi la filosofia, nonostante i molti problemi che il
pensiero filosofico soffre nel mondo contemporaneo, deve porsi questi
problemi e definire un orizzonte verso il quale proiettarli:
l'orizzonte «umanista». Non mi vergogno a usare questa parola tanto
deteriorata, in quanto è una parola che discende dalla miglior
tradizione filosofica greca, da quella tradizione che faceva dire ad
Aristotele che non gli interessava tanto sapere che cos'è la bontà,
ma gli interessava che gli uomini fossero buoni, ossia che si
creassero delle istituzioni, degli spazi pubblici dove la bontà, lo
sviluppo dell'individuo, fossero possibili e realizzabili.
Vi è un termine greco che ha una relazione con il termine
educazione (paideia): è la parola areté, che noi traduciamo con
«virtù». Forse la traduzione è impropria, poiché la parola virtù
ha un'origine cristiana. Che cos'è dunque l'areté per i Greci?
Anche in spagnolo areté si traduce «virtud», virtù. È stato il
latino virtus a orientarci verso questo tipo di interpretazione, e
certo nella parola virtù risuona una storia religiosa, escatologica,
cristiana. Ma per i Greci, all'inizio, areté significava eccellenza
umana, capacità di autocrearsi o di essere qualcosa di superiore, di
ulteriore rispetto alla pura animalità. Significava, in altre parole,
saper creare una figura umana superiore, eccellente. È questo il
concetto, esposto con semplicità, che ritroviamo nella radice stessa
della parola areté. Il verbo aretao significa infatti crescere,
svilupparsi. Di conseguenza areté sta ad indicare la possibilità
dell'essere umano di svilupparsi in modo eccellente, in senso
positivo.
È certo molto importante anche in una prospettiva pedagogica che
l'uomo, l'individuo, il bambino possa svilupparsi verso il positivo.
Infatti, solo l'educazione, con i suoi sistemi, istituzioni, spazi,
può far sì che il bambino sia virtuoso nel senso greco; in altre
parole, solo l'educazione può consentirgli di sviluppare le sue
capacità, il suo essere, ciò che gli è proprio e che porta dentro
di sé. Tuttavia l'aggettivo virtuoso non indica soltanto l'uomo
buono, che ha virtù. Esiste infatti anche il pianista virtuoso. Nella
parola virtuoso si ha dunque una eco della parola greca areté, intesa
come l'essere eccellenti in qualcosa.
È interessante considerare poi la prima definizione della parola
areté, data da Aristotele nell'Etica Nicomachea: exis proairetiké,
secondo la quale la virtù è un abito che si sceglie, una capacità.
La parola exis infatti è un sostantivo derivante dal verbo echo che
significa avere, come in latino habitus deriva da habeo. Perciò, si
va costruendo nella propria persona un habitus, a forza di azioni e di
abitudini, come una seconda natura, che agevola nello stesso modo in
cui agevola il virtuoso nel suonare il pianoforte. Il pianista
virtuoso infatti trasforma in abitudine l'arte pianistica, attraverso
la ripetizione. Proairetike, poi, vuol dire elettivo, selettivo, e
dunque rimanda alla capacità di scegliere. Per colui che costruisce
la virtù, il mondo non si presenta come un binario o una strada
uniforme, ma come una possibilità, come un oggetto di scelta, come
proairetiké appunto. Tanto più che nella definizione di virtù data
da Aristotele c'è anche il phronimos, c'è la mente assennata che
sceglie senza danneggiare se stessa, ma anche senza danneggiare gli
altri.
Questa riflessione sulla parola areté, così come l'ha interpretata
Aristotele, conduce a una riflessione sul sistema pedagogico del
nostro tempo, sulla possibilità che l'individuo cresca e diventi una
persona sana e non un moncherino deforme di possibilità. E per questo
credo sia altrettanto importante pensare alla responsabilità che
hanno i mezzi di comunicazione di massa nello sviluppo
dell'educazione, nella coltivazione della areté. Infatti, nonostante
gli educatori, i professori, credano che l'educazione sia nelle loro
mani, e credano di poter essere importanti nella creazione della
areté, io ritengo che nella vita di oggi ci siano altri spazi, altre
istituzioni, o meglio, altri poteri che influenzano l'educazione: si
tratta dei mezzi di comunicazione di massa, che possono essere, se mal
utilizzati, i cattivi educatori della società contemporanea. Io non
conosco le percentuali precise, ma credo che probabilmente oggi gli
educatori professionali, non incidano per più del dieci per cento
sull'educazione. Il restante novanta per cento dell'educazione è
nelle mani dei mezzi di comunicazione di massa, ed è rimessa ai
valori che questi mezzi spacciano, vendono e diffondono. Io ritengo
che si debba pensare molto seriamente a questo problema, e che si
debba anche avere il coraggio di dire che un certo uso dei mezzi di
informazione per quella che io chiamerei, anziché informatica, «deformatica»,
è davvero deplorevole.
(traduzione: Giuliano Roberto Rossi Mesa)
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