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Rai Educational/Democrazia ed educazione



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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it 


La polis greca, intesa come relazione fondamentale fra gli uomini che vivono in comunità, al di là della famiglia e dei legami della vita contadina, non ha forse favorito la nascita di una terminologia politica in uso ancora oggi?

La polis ha certamente avuto una storia determinata, condizionata dall'evoluzione stessa della società greca; non è un caso che la struttura della polis, quale organismo al cui interno gli uomini potessero convivere, è qualcosa di molto diverso dalle strutture collettive all'interno delle quali altre culture, altre civiltà, hanno vissuto. I Greci, poi, hanno creato il vocabolario politico. Infatti, sia nella Repubblica di Platone, sia nella Politica di Aristotele, si parla sia di regimi politici, sia del modo in cui, dentro la polis, era possibile raggiungere la felicità e il bene dell'uomo. Per questo i Greci hanno espresso in termini specifici le forme di organizzazione della vita all'interno della polis, creando parole come aristocrazia, democrazia, oligarchia, timocrazia, tirannia. Questi termini, corrispondevano a modelli secondo i quali si viveva e si organizzava la città, della quale entravano a far parte classi diverse, interessi diversi, tensioni diverse, ricchezze diverse, livelli di cultura diversi.

È molto interessante, poi, che queste parole costituiscono il vocabolario più vivo e più reale della cultura politica contemporanea. Aristocrazia, oligarchia, tirannia non sono termini pertinenti esclusivamente all'archeologia della storia greca. Oggi infatti esistono tirannie, oligarchie, aristocrazie, democrazie, demagogie, anche se non certo uguali a quelle dei Greci.

Tuttavia attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la finzione, la menzogna, col non ricercare la verità, è possibile creare false democrazie, false aristocrazie, false oligarchie e false tirannie. Infatti, una delle cose più interessanti della cultura greca, e che dai Greci abbiamo avuto in eredità, è l'idea di «bene apparente», che Aristotele analizza concretamente nell'Etica Nicomachea e in altre sue pagine. Si tratta della scoperta che, insieme al perseguimento del bene in quanto tale, è possibile perseguire un bene apparente, un bene che può non essere altro che una proiezione dei nostri desideri, dei nostri interessi.

Naturalmente l'idea di «bene apparente» - phainomenon agathon, il bene fenomenico- aveva un ulteriore aspetto filosofico che concerneva quello spazio esistente fra l'idea del bene, e la soggettività e il mondo storico nel quale questo bene apparente si situava.

Nel mondo contadino arcaico la tribù, la famiglia, era la struttura fondamentale della società. In questa dimensione era difficile che si sviluppasse un concetto di individualità, che l'uomo si sentisse diverso dagli altri e, contemporaneamente, insieme agli altri. Non è dunque con la polis che si creano le premesse per lo sviluppi dell'io, dell'individualità?

Per i Greci, come probabilmente per molte altre culture, il clan familiare, il vincolo di sangue, è stato il primo fattore di legame; in altre parole, gli uomini si sono sentiti parte di uno spazio collettivo a partire dal clan familiare. A questo proposito è interessante rilevare che le parole greche philos e philia - amico e amicizia - in origine erano legate alla consanguineità. La parola philia nei primi testi dove appare, indicava infatti il vincolo che univa coloro che avevano lo stesso sangue, che avevano gli stessi progenitori, e che, dunque, appartenevano allo stesso clan familiare.

Successivamente la parola philia si è evoluta e ha cominciato a indicare un vincolo che univa persone che non avevano niente in comune dal punto di vista della consanguineità. Questa evoluzione è collegata con lo sviluppo della democrazia che si verificò in Grecia nel V secolo a.C.. Con l'avvento della democrazia, del demos, del popolo, con l'avvento della coscienza che la verità non era più appannaggio esclusivo di una dominante classe superiore; con l'avvento della coscienza che il linguaggio non era solo linguaggio del potere, e che le parole si potevano discutere e analizzare, si verificò un mutamento nel concetto di individuo e di individualità.

Ciò avvenne anche grazie all'impulso dato dai sofisti, che indubbiamente furono dei rivoluzionari nel senso più creativo della parola. I sofisti infatti spezzarono lo schema autoritario della parola del potere, che l'uomo greco ascoltava e assumeva passivamente. Dal momento, quindi, in cui la verità, la aletheia, si poté discutere, dal momento in cui non fu più necessario accettare il discorso del potere e accettare la parola dell'altro perché gerarchicamente posto al di sopra; dal momento in cui, con i sofisti e con la discussione nell'agorà, nella società greca si compì questa rottura, l'uomo non solo scoprì un nuovo concetto di verità, ma, nel contempo, scoprì la sua intimità, scoprì se stesso, e comprese che il suo io poteva chiedere al linguaggio che cosa è la virtù.

Il fatto che Platone scrivesse dialoghi, non potrebbe essere un sintomo della scoperta delle diverse soggettività?

Nei suoi primi dialoghi, Platone, dando spazio ai problemi della sofistica, fece in modo che la gente parlasse, dialogasse così che la sua opera filosofica è un'opera dialogica. In realtà, i dialoghi di Platone sono stati il primo grande blocco della cultura filosofica. Prima di lui, infatti, ci sono stati i filosofi presocratici, le cui opere, i cui ipotetici scritti, non sono giunti fino a noi, se non in frammenti. Pertanto il primo grande blocco di opere filosofiche, la prima grande voce che, quantitativamente, si è espressa con abbondanza, è la voce platonica.

Tuttavia la voce platonica è una voce spezzata, incrinata da quella di centinaia di interlocutori dei dialoghi, che propongono la loro verità, che manifestano le loro idee, le loro prospettive, i loro punti di vista rispetto alla realtà. Platone dunque scrivendo dialoghi, espose un logos spezzato, e, in fondo, questo rappresentava anche la scoperta della soggettività, la scoperta dell'individualità.

Mai la filosofia è tornata a esprimersi in questo modo. È ben vero che Galileo ha scritto dei dialoghi, e che gli empiristi inglesi hanno espresso le loro idee in forma di dialogo, ma si tratta di un altro tipo di dialogo, dove l'interlocutore si produce in un lungo, immenso monologo. I dialoghi di Platone invece, soprattutto quelli della prima fase e della maturità, hanno altre caratteristiche: i personaggi che parlano sono individui, non meri nomi, etichette, che sciorinano un discorso tecnico, scientifico o ideologico, interessante ma monologico. I protagonisti dei dialoghi platonici, invece, in un incrociarsi di sistemi, o meglio di prospettive, di passioni, di interessi, esprimono la loro concreta e singolare individualità.

Ciò costituisce qualcosa di molto importante, soprattutto se si pensa al mondo contemporaneo. Infatti riflettendo sui dialoghi platonici - su quel dialogo continuo, quella ripartizione dei concetti a varie voci - si scopre la necessità di non assumere ciò che proviene dall'esterno passivamente, ma di rimetterlo in questione, discuterlo e offrirlo all'altro affinché manifesti il suo assenso o il suo dissenso, attraverso un logos che è vita, un logos che è «dia-logo», un logos che circola, che non ristagna negli angusti spazi del potere, dei mezzi che controllano, distribuiscono e amministrano il linguaggio.

Qual è l'origine e il significato della parola filosofia?

L'uomo è un animale che parla, che si esprime, che ha bisogno di pronunciare la sua lezione, di cantare la sua canzone, o, in altre parole, è un animale che ha bisogno di manifestare il suo essere all'altro. Ma oltre al legame fra gli uomini rappresentato dal logos, esiste una forma di legame non ascrivibile al mondo astratto dei significati, e che si riferisce invece all'affettività. L'uomo è un essere che si apre agli altri, che ama, secondo una necessità naturale. Tale necessità è riscontrabile già nel rapporto madre-figlio, dove la madre ama il figlio, si dedica a lui, e il figlio, per ragioni magari diverse, è aperto nei confronti della madre.

Questa apertura verso gli altri, questo uscire da sé, i Greci lo definirono con il termine philia. L'uomo, infatti, non può stare rinchiuso in se stesso, non è assolutamente un monticolo di solitudine, in quanto è un essere naturalmente aperto. E il vincolo corrispondente a questa natura aperta è un vincolo affettivo, un vincolo di amore per l'altro, che porta a voler realizzare il proprio essere riconoscendosi nell'altro e volendo che l'altro ci riconosca.

Ma, indipendentemente da queste, che potrebbero sembrare elucubrazioni psicologiche o metafisiche, in effetti, è singolare che la parola filosofia sia composta da due termini: philia, e sophia. Ma non è del tutto esatto tradurre sophia con la parola sapienza, tradurre philia con la parola amore, e quindi il termine filosofia come «amore per la sapienza». Questo perché philia non significa soltanto amore, né sophia soltanto sapienza. Philia significa tendenza, proiezione, relazione, e anche possibilità che gli altri, che sono oggetto della nostra ricerca, rispondano agli interrogativi che poniamo loro. E sophia significa per i Greci il saper fare qualcosa, avere contatto con il mondo.

Il sophos era colui che sapeva fare qualcosa: una nave, una lira, un'anfora. La sapienza non è infatti nata come speculazione astratta: all'inizio i sapienti non erano soltanto coloro che sapevano pronunciare un discorso sulla vita e che potevano orientare l'uomo in essa. I sapienti, «oi sophoi», erano in primo luogo «coloro che sapevano», i tecnici: quelli che sapevano fare qualcosa con le mani. E come avrebbe potuto fin dal principio la parola sapienza significare una cosa astratta? La prima cosa che gli uomini fecero fu manipolare il mondo, toccarlo con le mani, trasformarlo. E dunque, prima del sophos inteso come colui che ha la sapienza, c'era il sapiente inteso come colui che sapeva modificare il mondo.

Di conseguenza nella parola filosofia è senza dubbio presente l'aspirazione a un sapere che interpreti il reale. Ma tale termine - che appare per la prima volta in un famoso frammento di Eraclito, dove si dice che gli uomini filosofi è opportuno sappiano molte cose, che siano al corrente di molte cose, che siano istores -, all'inizio, indicava il rapporto di conoscenza, di interpretazione e di valutazione dell'uomo nei confronti delle cose. Vale a dire, l'apertura dell'uomo verso le cose per utilizzarle e in qualche modo dominarle. Naturalmente la parola filosofia ha avuto una sua evoluzione, ma, a mio parere, ciò che la caratterizza è legato a questo significato primario di tendenza e di apertura verso la conoscenza, di ricerca della conoscenza.

Qual è il contributo fondamentale che la sofistica apportò alla cultura greca?

La ridicolizzazione dei sofisti da parte di Platone, il quale, nonostante il rispetto comunque presente nei suoi dialoghi, come nel Protagora e nel Gorgia, presenta la sofistica come una forma di pensiero ingannatoria, che ribalta le cose mettendo sopra quel che sta sotto, è una presentazione parziale, una deformazione. Tuttavia si tratta di una deformazione interessante, perché consente di vedere la sofistica a partire dalla prospettiva platonica, ovvero, da una prospettiva aristocratica. Ma, per quel che si può capirne leggendo Senofonte e Platone, i quali offrono versioni non del tutto coincidenti sulla sofistica, i sofisti non furono solo dei tecnici, anche se si racconta che alcuni di loro si fabbricavano le scarpe o i vestiti.

A ogni modo c'è invece un punto sul quale Senofonte e Platone concordano, ed è quello che riguarda la critica del linguaggio realizzata dai sofisti, il suo ripensamento costante, la revisione di concetti già in parte anchilosati, disseccati. Perciò i sofisti sono stati, nell'ambito della comunicazione intellettuale, dei rivoluzionari.

Certamente il verbo da cui proviene la parola sofista significa all'incirca «rigirare eccessivamente le cose», e certamente i sofisti hanno talvolta passato la misura, soprattutto quelli appartenenti alla seconda sofistica. Ma, ciononostante, mi pare che la critica di Platone ai sofisti sia, in un certo senso, esagerata, e oserei dire anche in qualche modo ingiusta. Perché pur con tutte le esagerazioni che si possono attribuire ai sofisti, pur col cattivo uso che possono aver fatto della revisione dei concetti, a loro dovremo sempre l'aver dinamizzato i concetti, l'averli fatti fluire, o, come direbbe il poeta Alberti, l'aver «reso l'anima navigabile», resi navigabili i concetti.

C'è poi un'altra parola-chiave della cultura greca, paideia o educazione, che i sofisti rimisero sul tappeto, riportarono in piena luce, e sulla quale insistettero. L'uomo è oggetto di educazione: l'animale che parla, attraverso il linguaggio può arricchirsi, svilupparsi, crearsi. Ed è chiaro che questa creazione, questo sviluppo, questo arricchimento, sono connessi al rapporto con gli altri individui che costituiscono una comunità. Va rilevato che la democrazia funziona o può funzionare perfettamente, con la massima perfezione possibile, solo quando esiste educazione, quando esiste paideia. È interessante constatare che il popolo greco, che ha inventato la democrazia, definì la paideia, l'educazione, come quel fenomeno parallelo che consente alla democrazia di consolidarsi e di crescere.
Ritengo che il rapporto fra democrazia e educazione sia uno dei problemi della società contemporanea. E, pur non volendo fare il profeta, credo che la democrazia sia condannata al fallimento se non verrà fecondata con l'educazione, con la paideia. Una democrazia con una cattiva educazione, una democrazia «deformante», una democrazia dove si coltivi la menzogna, è una democrazia condannata, senza futuro, nata morta, senza possibilità di crescita.

In Italia il ministero che presiede alla scuola si chiama Ministero della Pubblica Istruzione. La parola educazione è stata eliminata, anche formalmente, dal rapporto con la scuola, e quindi con la formazione sociale e culturale del cittadino. Non ritiene che sia pericoloso per la democrazia quando che l'educazione venga ridotta al semplice rango di istruzione e di informazione?

Io credo che nel mondo dell'informazione, nel mondo dell'informatica che oggi ci domina, sussista il pericolo di trasformare il sapere, la conoscenza, in mera informazione. Eppure, ciò che caratterizza l'uomo non è tanto il sapere, la quantità di informazioni di cui può disporre - a questo scopo esistono già, appunto, i cervelli elettronici, i computer - quanto la capacità di pensare, di rinnovare il suo sapere, di rivederlo, di ricrearlo. E in una cultura come la nostra, trasformare l'educazione in istruzione significa trasformare gli individui in monticoli, in piccoli nuclei di piccoli saperi assolutamente parziali, senza collegamento con gli altri saperi, con i saperi della realtà totale.

Se continuiamo così, temo che la parola educazione si cristallizzi, si solidifichi e diventi priva di ogni significato. Perciò credo sia importante coltivare il pensiero. E nell'educazione oggi, nel rapporto fra i professori e gli studenti, nell'organizzazione della scuola, e anche nel mondo dell'informatica e in quello dell'informazione, va stimolato come non mai, guardando al futuro, il pensiero: il pensiero libero, il pensiero che crea, il rinnovamento intellettuale. Altrimenti credo che saremo condannati a un inaridimento, a un esaurimento del nostro orizzonte di possibilità.

Per questo oggi la filosofia, nonostante i molti problemi che il pensiero filosofico soffre nel mondo contemporaneo, deve porsi questi problemi e definire un orizzonte verso il quale proiettarli: l'orizzonte «umanista». Non mi vergogno a usare questa parola tanto deteriorata, in quanto è una parola che discende dalla miglior tradizione filosofica greca, da quella tradizione che faceva dire ad Aristotele che non gli interessava tanto sapere che cos'è la bontà, ma gli interessava che gli uomini fossero buoni, ossia che si creassero delle istituzioni, degli spazi pubblici dove la bontà, lo sviluppo dell'individuo, fossero possibili e realizzabili.

Vi è un termine greco che ha una relazione con il termine educazione (paideia): è la parola areté, che noi traduciamo con «virtù». Forse la traduzione è impropria, poiché la parola virtù ha un'origine cristiana. Che cos'è dunque l'areté per i Greci?

Anche in spagnolo areté si traduce «virtud», virtù. È stato il latino virtus a orientarci verso questo tipo di interpretazione, e certo nella parola virtù risuona una storia religiosa, escatologica, cristiana. Ma per i Greci, all'inizio, areté significava eccellenza umana, capacità di autocrearsi o di essere qualcosa di superiore, di ulteriore rispetto alla pura animalità. Significava, in altre parole, saper creare una figura umana superiore, eccellente. È questo il concetto, esposto con semplicità, che ritroviamo nella radice stessa della parola areté. Il verbo aretao significa infatti crescere, svilupparsi. Di conseguenza areté sta ad indicare la possibilità dell'essere umano di svilupparsi in modo eccellente, in senso positivo.

È certo molto importante anche in una prospettiva pedagogica che l'uomo, l'individuo, il bambino possa svilupparsi verso il positivo. Infatti, solo l'educazione, con i suoi sistemi, istituzioni, spazi, può far sì che il bambino sia virtuoso nel senso greco; in altre parole, solo l'educazione può consentirgli di sviluppare le sue capacità, il suo essere, ciò che gli è proprio e che porta dentro di sé. Tuttavia l'aggettivo virtuoso non indica soltanto l'uomo buono, che ha virtù. Esiste infatti anche il pianista virtuoso. Nella parola virtuoso si ha dunque una eco della parola greca areté, intesa come l'essere eccellenti in qualcosa.

È interessante considerare poi la prima definizione della parola areté, data da Aristotele nell'Etica Nicomachea: exis proairetiké, secondo la quale la virtù è un abito che si sceglie, una capacità. La parola exis infatti è un sostantivo derivante dal verbo echo che significa avere, come in latino habitus deriva da habeo. Perciò, si va costruendo nella propria persona un habitus, a forza di azioni e di abitudini, come una seconda natura, che agevola nello stesso modo in cui agevola il virtuoso nel suonare il pianoforte. Il pianista virtuoso infatti trasforma in abitudine l'arte pianistica, attraverso la ripetizione. Proairetike, poi, vuol dire elettivo, selettivo, e dunque rimanda alla capacità di scegliere. Per colui che costruisce la virtù, il mondo non si presenta come un binario o una strada uniforme, ma come una possibilità, come un oggetto di scelta, come proairetiké appunto. Tanto più che nella definizione di virtù data da Aristotele c'è anche il phronimos, c'è la mente assennata che sceglie senza danneggiare se stessa, ma anche senza danneggiare gli altri.

Questa riflessione sulla parola areté, così come l'ha interpretata Aristotele, conduce a una riflessione sul sistema pedagogico del nostro tempo, sulla possibilità che l'individuo cresca e diventi una persona sana e non un moncherino deforme di possibilità. E per questo credo sia altrettanto importante pensare alla responsabilità che hanno i mezzi di comunicazione di massa nello sviluppo dell'educazione, nella coltivazione della areté. Infatti, nonostante gli educatori, i professori, credano che l'educazione sia nelle loro mani, e credano di poter essere importanti nella creazione della areté, io ritengo che nella vita di oggi ci siano altri spazi, altre istituzioni, o meglio, altri poteri che influenzano l'educazione: si tratta dei mezzi di comunicazione di massa, che possono essere, se mal utilizzati, i cattivi educatori della società contemporanea. Io non conosco le percentuali precise, ma credo che probabilmente oggi gli educatori professionali, non incidano per più del dieci per cento sull'educazione. Il restante novanta per cento dell'educazione è nelle mani dei mezzi di comunicazione di massa, ed è rimessa ai valori che questi mezzi spacciano, vendono e diffondono. Io ritengo che si debba pensare molto seriamente a questo problema, e che si debba anche avere il coraggio di dire che un certo uso dei mezzi di informazione per quella che io chiamerei, anziché informatica, «deformatica», è davvero deplorevole.

(traduzione: Giuliano Roberto Rossi Mesa)


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