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Ma la ruspa unisce fascismo e antifascismo



Vittorio Gregotti con Oreste Pivetta



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Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset (gennaio-febbraio)

Una recente mostra ha radunato in catalogo le scritte fasciste sui muri: l’aratro traccia il solco, la spada lo difende; se avanzo, seguitemi; o Roma o morte; eccetera eccetera... Qualcuna resiste ancora. L’abbiamo letta scolorita, ma tracciata evidentemente in inchiostri tali da preservarla dalla pioggia e dagli agenti atmosferici corrosivi, sui muri di qualche casa di campagna, in alto, ben alla vista.

Miracolo di longevità, oppure metafora di un fiume sotterraneo o di un rigagnolo che nessuna siccità riesce a prosciugare. Miracolo ovviamente, spiega Vittorio Gregotti, uno dei più noti architetti italiani (noto e attivo all’Italia e all’estero, ora sta lavorando a Parigi, sta progettando il nuovo museo Guggenheim alla Punta della Dogana a Venezia, mentre fra un anno si inaugurerà il suo Teatro degli Arcimboldi, a Milano, alla Bicocca), legato alla natura compromissoria del fascismo e alla cultura di un’Italia egoista, accomodante, senza princìpi, di un’Italia che possiede nel suo dna le voci della continuità e della adattabilità, del trasformismo e dell’opportunismo.


Come sarebbe stata l’Italia se il fascismo non fosse stato sconfitto? “Domanda apparentemente oziosa: il fascismo è stato sconfitto. E una storia virtuale dovrebbe tener conto di cambiamenti imprevedibili nell’Italia solo di pochi decenni fa. Però non tutto il fascismo, come si diceva, è uscito di scena e sicuramente non tutto di quanto del fascismo è stato alimento profondo, radicato, si è cancellato nel tempo. Poi c’è sempre chi si è provato a distinguere tra gli uomini diversi del fascismo, tra i fascismi, chi si è provato a separare il ‘regime’ dalla ‘sciagurata guerra’ che lo travolse, secondo uno degli slogan più comuni, a volte sussurrato, a volte gridato, buono per tutte le stagioni: ‘si stava meglio quando si stava peggio’.

“Con un’attenzione particolare alle grandi opere pubbliche, perché ‘allora si costruiva molto di più e molto meglio di oggi’, secondo un’idea di efficienza che ben si coniuga alla concretezza del mattone, confrontando le lentezze, i ritardi, le ruberie di questo mezzo secolo con i successi di allora: l’architettura magniloquente e imponente più che grande, i monumenti del fascismo, palazzi e stazioni, appunto, come le città sorte dalla palude bonificata, Sabaudia, Littoria, Pontinia, Aprilia, Pomezia, i quartieri periferici di edilizia popolare, autentici ghetti per lo più, secondo una ferrea logica di discriminazione, fraintesi come la via maestra alla soluzione della ’questione delle abitazioni’.

“Il tempo smorza le tensioni critiche, così che persino il Palazzo di Giustizia di Milano e il Palazzo del Lavoro all’Eur si guadagnano poco alla volta un aspetto accettabile, nel segno di una obiettività del giudizio che riscatta, recupera, premia. Meglio - è la conclusione - il tronfio neoclassicismo degli architetti di regime delle lisce banalità dell’international style.

“Il revisionismo ha dunque un’altra freccia nell’arco: la presunta qualità di un’architettura, che però, romana, retorica, oppressiva, malgrado tutti gli sforzi e tutte le nostalgie, per la verità, nella generalità dei casi una schifezza era e una schifezza rimane. Costò moltissimo e sicuramente poco diede, anche in termini funzionali, al rinnovamento delle nostre città”.

Gregotti aggira intanto la domanda, perché “passata la guerra, tornata la pace, sarebbe cambiato il fascismo. In modo lento, progressivo, la sua struttura avrebbe ceduto alle pressioni interne e al confronto con i mondi esterni”.

“E poi - continua - se per un gioco si vuole immaginare un paesaggio italiano contemporaneo, un paesaggio materiale post fascista con il fascismo in corso, non trascuriamo che la vicenda dell’architettura italiana si distinse assai da quella dell’architettura tedesca con il sopraggiungere del nazismo. In Germania si assistette a una cesura autentica e gli oppositori all’architettura ufficiale, che presto venne imposta, a partire dagli anni Trenta con l’attacco al Bauhaus, i maestri del razionalismo cioè, non ebbero l’opportunità di difendersi, furono costretti all’esilio”.

Bruno Zevi scrive, nella sua celeberrima Storia dell’architettura moderna, che “dal 1933 la storia dell’architettura tedesca si svolge fuori dalla Germania, nell’azione culturale e artistica dei profughi in Gran Bretagna, in Palestina, negli Stati Uniti...”.

I profughi erano Gropius e Mendelsohnn, Mies van der Rohe, Bruno Taut, Marcel Breuer, Laszlo Moholy-Nagy. Le Corbusier veniva definito il Lenin dell’architettura. Alexander von Senger farneticava incurante che “nelle teorie, nei metodi pubblicitari, negli obiettivi come nelle ripercussioni, l’architettura nuova altro non è che una faccenda bolscevica”.

In Italia si può dire che nessuno fu costretto alla fuga, che le strade percorribili, al’inizio, furono più d’una e che solo alla fine qualcuna si chiuse in tragedia: quella scelta da Giuseppe Pagano, che aveva progettato la sede dell’Università Bocconi a Milano e che pure aveva collaborato a Roma con Piacentini per il piano regolatore dell’Esposizione universale, ad esempio, che da fascista divenne antifascista, fu arrestato e rinchiuso a Mauthausen dove morì, come Gian Luigi Banfi (che con Belgioioso, Peressuti e Rogers aveva dato vita al BBPR); quella intrapresa da Terragni, un altro fascista convinto, il più puro e originale interprete italiano del razionalismo, che lo condurrà, dopo la guerra di Russia, ad una profonda crisi morale e alla morte, forse un suicidio.


“Ma ci furono altri - ricorda Gregotti - come il cattolico Giovanni Muzio, che riuscirono ad allontanare dalla propria attività l’ostacolo di una scelta ideologica, restando ancorati da una parte al mestiere dall’altra al bastone della religione, in un paese, come il nostro, fascista, ma pur sempre cattolico. Molti altri continuarono ad operare, con insofferenza nei confronti dell’accademia, difendendo la loro coerenza. E fu possibile, almeno fino agli anni della guerra”.

“Il fascismo peraltro dopo aver vissuto l’esperienza dell’architettura moderna come espressione della propria ipotetica rivoluzione, anche grazie alla presenza di uomini più sensibili e attratti dai caratteri europei di questa ricerca, come Bottai, non la negò mai del tutto, diversamente dal nazismo. Anche il fascismo, come tutti i regimi totalitari aveva bisogno dell’architettura per autorappresentarsi, ne aveva compreso il valore pubblico, ma in fondo non seppe bene che cosa volere, non seppe darsi subito uno stile proprio, restò a lungo prigioniero dell’indecisione, segnato dall’ambiguità. E l’ambiguità concesse ai giovani uno spazio di azione: ai giovani del “Gruppo 7” e a quelli del Miar, il Movimento italiano per l’architettura razionale, a Terragni, Figini, Pollini, Libera, Piccinato, Ridolfi...”.

La presenza di personaggi come Marcello Piacentini o come Gustavo Giovannoni non fu poi così decisiva e oppressiva, allora? Ancora Zevi scriveva di un’autorità assoluta e intollerabile...

“Piacentini però era fascista quanto Terragni. Si deve credere che il fascismo, per un lungo tratto della sua vicenda, qualche dubbio lo nutrisse, non comprendesse bene l’utilità o la necessità di una scelta ufficiale. Persino Mussolini fu tentato dal modernismo e si espose a sostegno dei giovani architetti. Non fu il nazismo, ma non fu neppure il falangismo di Franco, che spazzò via dalla Spagna qualsiasi emblema dell’architettura moderna.


“Verrebbe da aggiungere, contro alcuni luoghi comuni revisionisti, un confronto tra il fascismo e lo stalinismo, che visse le sue ambiguità. Il suo internazionalismo era uno slogan troppo forte perché potesse venire azzerato, internazionalismo che era poi europeismo, l’America era lontana. Persino il grattacielo dell’Università di Mosca poteva racchiudere uno spirito che rimandava al razionalismo moderno, non solo alla rappresentazione retorica della rivoluzione. Quando da destra si citava l’internazionalismo in architettura, non si smise mai di aggiungere bolscevico”.

Insomma siamo all’idea di un fascismo meno cattivo e meno radicale del nazismo, di un fascismo che però non ci risparmiò i suoi delitti...
“In questo senso, la politica urbanistica d’allora sarebbe tragicamente eloquente anche in rapporto a un fascismo d’oggi ... Gli obbrobri del ventennio sono molti, forse insuperabili, visto il contesto: basterebbe ricordare l’effetto di via della Conciliazione”.

Citiamo ancora Zevi: il regime mussoliniano, almeno fino al 1937, non si oppose recisamente, sul piano ideologico, alla nuova architettura. Preferì corromperla con due strategie complementari: classicizzandola con simmetrie, assialità, proporzioni auliche, ed asservendola a simbolizzare la potenza imperiale. Torniamo così, con questa premessa, alla domanda d’inizio..

“L’urbanistica del fascismo fu l’urbanistica degli sventramenti, dei centri storici demoliti, a Brescia, Milano, Napoli, Bari, Palermo... dell’azzeramento di interi quartieri antichi. Un disastro che non s’interruppe però con la Liberazione. La cultura della ruspa non morì con il fascismo perché altri interessi premevano, molto più concreti dell’ideologia. Ecco che torna la continuità, il fiume carsico della speculazione che lega il prima e il dopo...”.

Vuol dire che sopravvive il compromesso al di là ed oltre i meccanismi del consenso... Un conto è realizzare un’architettura romana, neoclassica, imperiale e verticale che schiaccia l’uomo di fronte ai simboli del potere, un conto è combinare affari. E davanti agli affari sono tutti uguali: il vizio antico di un’Italia amorale, clientelare, paludosa.

Non vale allora neppure il drastico giudizio di Zevi che allinea la storia dell’architettura alla storia civile e politica del paese, scoprendo rari spiriti eletti, resistenti, una minoranza disperatamente eroica, citando Terragni, Persico e Pagano? “Nonostante le profonde vicissitudini dei tre, è difficili ascriverli ad una sorta di categoria resistenziale degli architetti, che non vi fu un po’ appunto per il carattere ambiguo del fascismo, al quale si è accennato, un po’ in fondo per la vocazione degli architetti ad essere preferibilmente maggioranza, piuttosto che minoranza: magari critica, ma pur sempre maggioranza. Ieri come oggi. Difficile immaginare una resistenza attraverso la professione...”.

Compromessi e conniventi quindi, il vizio degli intellettuali...“Ieri come oggi. Si assiste al quotidiano tentativo degli architetti di diventare maggioranza. Male comune inasprito dalle necessità di un mestiere che deve sempre sposare un committente. Un matrimonio d’interesse inevitabile... E in un matrimonio la parte debole alla fine si piega...”.


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