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Una giornata nell'università del Reich



Stefano Petrucciani



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Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset (gennaio-febbraio)

Imboccando il grande viale che portava verso la Facoltà di Filosofia della capitale dell’Impero, alla cui estremità troneggiavano le statue colossali di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, il giovane laureato Adolf K. pensava, fumando nervosamente una sigaretta, all’esame che di lì a poco avrebbe dovuto sostenere.

Nei viali dell’Università, ampi stradoni lastricati di marmo lungo i quali sorgevano alti palazzi in vetro e acciaio, vi era una insolita animazione. Quel giorno, infatti, cadeva il cinquantesimo anniversario della vittoria delle potenze dell’Asse sulla nefasta alleanza capitalistico-bolscevica, che, ove fosse prevalsa, avrebbe precipitato l’Europa e il mondo in una barbarie inaudita. Era forse di buon auspicio, pensava Adolf K., che il suo esame per diventare camerata-assistente di filosofia dovesse svolgersi proprio oggi, in una giornata così importante per tutti i sudditi dell’Impero Millenario.


L’ascensore che lo portò al ventiduesimo piano del palazzo centrale dell’Università Imperiale, dove era stato convocato per il colloquio, si fermò in un ampio atrio luminoso; vi si affacciavano varie porte e, davanti a queste, sedeva a una scrivania, in funzioni di sorvegliante, un sotto-uomo di pelle scura (se ne importavano molti, in quel periodo, dalle regioni più periferiche dell’Impero).

Il colloquio era fissato per le dieci e trenta e, solo due o tre minuti dopo, il videocitofono istallato sulla scrivania del sorvegliante si mise a ronzare. “Padrone camerata Adolf K.”, disse il pellescura, “si accomodi nella stanza 12, la commissione l’attende per il suo esame”.

Sotto i busti dei fondatori dell’Impero, allineati in ampie nicchie nella parete, sedevano, a un lungo tavolo di legno scuro, i cinque componenti della Commissione esaminatrice, in divisa da Comandanti dei Dipartimenti universitari. “Camerata Adolf K. - disse il più anziano che, seduto al centro, doveva essere probabilmente il Duce della Commissione - per cominciare, ci parli di uno dei problemi che più hanno interessato la nostra storiografia filosofica negli ultimi tempi, e cioè dell’inquinamento giudaico subìto dalla filosofia nei primi decenni del Novecento”.

Cercando di vincere ogni incertezza e di controllare un certo tremito che, in simili occasioni, rischiava di impadronirsi di lui, il giovane Adolf K. si schiarì due volte la voce e, finalmente, riuscì a iniziare il suo discorso con un tono sufficientemente sicuro e imperioso.

“Per affrontare questo problema in modo corretto, e senza nulla concedere a pericolose deviazioni, è bene innanzitutto partire da un detto fondamentale di colui che è stato, insieme con Carl Schmitt, Martin Heidegger, e Giovanni Gentile, uno dei massimi pensatori del Novecento, Ernst Jünger.

“L’ebreo - ha insegnato Ernst Jünger - non può giocare nessun ruolo creativo, per ciò che attiene alla vita tedesca, né nel bene né nel male”. Mi pare che questa affermazione si dimostri particolarmente giusta se la applichiamo al campo della filosofia. Da una matrice razziale intrinsecamente corrotta e inferiore come quella giudaica non potevano scaturire in nessun caso grandi pensieri. Cionondimeno, nei primi decenni del Novecento, il diffuso inquinamento giudaico della cultura mondiale ha prodotto una serie di filosofie minori, di impronta fondamentalmente distruttiva e sofistica, cui ora le storie del pensiero dedicano solo poche righe. Pensiamo a personaggi minori o infimi come Husserl, Wittgenstein, Simmel, Cassirer e altri ancora meno importanti che non vale neppure la pena di menzionare”.

“Lei ha ricordato un certo Husserl” - intervenne uno dei commissari - “Ma è vero che il suo insegnamento, come da parte di alcuni si sostiene, avrebbe addirittura influenzato la formazione intellettuale del nostro supremo pensatore, il Maestro Heidegger?”

Il giovane Adolf K. non tradì il minimo imbarazzo per la domanda un po’ spinosa che gli era stata rivolta; per sua curiosità gli era capitato infatti di appronfondire in modo non comune questo argomento, ed era certo pertanto di poter fare una buona figura.

Rispose dunque di filato e senza impacci, guardando bene in faccia, dritto davanti a sé, i suoi interlocutori: “La tesi di una qualche influenza di Husserl su Heidegger - esordì - che godeva di una qualche fortuna nella storiografia di molti decenni addietro, è stata negli studi più recenti confutata senza possibilità di repliche. Ciò è stato possibile perché si è riusciti a dimostrare, grazie agli esami più scrupolosi compiuti nel laboratorio di bibliologia dell’Impero, che la prima edizione di Essere e Tempo, recante appunto la famigerata dedica a Husserl, non era altro che un falso costruito da abili calunniatori, probabilmente giudei rifugiatisi di là dell’Oceano”.

“Bene, bene giovanotto”, lo interruppe il Duce della commissione, “vedo che effettivamente lei ha una preparazione solida e ben documentata. Passiamo allora ad un altro argomento: cosa mi dice della ridefinizione del concetto di Medioevo che la migliore storiografia filosofica ha intrapreso da tempo?”

“In effetti, su questo punto, è stato difficile scrollarsi di dosso i pregiudizi che erano stati accumulati da una lunga tradizione di storiografia giudaico-bolscevica. Con gli studi più recenti, però, la questione si è definitivamente chiarita. I secoli bui del pensiero filosofico, quelli che segnano davvero l’oscuramento di ogni comprensione originaria e la diffusione delle più incredibili assurdità, sono da collocarsi non già in quello che si era soliti chiamare il Medioevo, ma tra Sette e Ottocento, nell’epoca di quello che una volta veniva definito l’Illuminismo, e delle sue conseguenze: è proprio in quel periodo, infatti, che ha rischiato di affermarsi, con le sue nefaste conseguenze per l’Occidente, la delirante superstizione della eguaglianza tra gli uomini, o addirittura il culto di feticci primitivi che venivano chiamati con termini privi di significato come ‘ragione’ e ‘umanità’. È stato necessario davvero un faticoso risveglio per riportare alla coscienza della razza eletta d’Occidente (è questo è il merito imperituro del nostro grande Nietzsche) che qualcosa come una comune ‘umanità’ non esiste e non è mai esistito, è solo un inganno di cui si servono razze e stirpi inferiori per mascherare la loro abietta natura. Ciò che realmente esiste, sono diverse comunità di razza, di stirpe e di sangue, che lottano tra loro per il predominio e di cui solo le più forti e le più selezionate sopravvivono, e hanno quindi il diritto di sopravvivere”.


“Può spiegare meglio questo accenno al ‘diritto’, per favore?”.
“Ma certo. Tra le superstizioni del cosiddetto Illuminismo cui prima accennavo, una delle più caratteristiche, ma anche delle più perniciose, era proprio quella che si potesse distinguere il diritto dal fatto - anche questo, in fondo, non era altro che un pregiudizio radicato nella cinica distruttività propria della mentalità giudaica. Oggi invece sappiamo che il diritto non è altro che un diverso nome con cui si designa il fatto del dominio, e che tanto più vi è diritto quanto più il dominio è totale, e quanto più potente, fino al vertice supremo, è la gerarchia che lo incarna”.

“Molto bene - interruppe il commissario più anziano - mi sembra che il ragazzo abbia idee chiare e solide cognizioni. Mi pare che il colloquio confermi la buona opinione che ci eravamo fatta di lui. Penso quindi che gli possiamo conferire la nomina di camerata-assistente nella facoltà di Filosofia dell’Impero. Complimenti - proseguì rivolto al giovane -, vada subito a richiedere i suoi documenti al centro elettronico e torni domani, con il certificato di Diploma e con quello di Sana e Pura Discendenza, per assumere il suo incarico”.

Alla sera, nel suo piccolo e ordinato alloggio di studente, Adolf K., eccitato al pensiero della nuova vita che gli si apriva davanti, non aveva molta voglia di andare a dormire. Affacciato alla finestra che dava sulla sterminata distesa di grattacieli della Capitale, fumò diverse sigarette, e solo verso le due cominciò a prendere sonno. Era ancora buio quando, saranno state le cinque e mezza, suonarono alla porta. Adolf K. capì subito di che si trattava. Da quando le banche dati dei centri per la certificazione della discendenza erano state potenziate, e messe in condizione di scovare anche le più piccole e remote impurità razziali, nessun suddito dell’Impero poteva mai sentirsi interamente al sicuro.


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