Forum/Il nostro "posto al
sole" sotto Hitler
Colarizi, De Luna, Sabbatucci, Tranfaglia
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sole" sotto Hitler
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regime
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antifascismo
Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset
(gennaio-febbraio)
Chi sono i partecipanti:
Simona Colarizi: professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università
di Roma “La Sapienza”. Tra le sue pubblicazioni: L’Italia
antifascista dal 1922 al 1940, Laterza,1976; Dopoguerra e fascismo in
Puglia 1919-1926, Laterza,1977; Storia dei partiti nell’Italia
repubblicana, Laterza, 1988; Biografia della prima repubblica, 1998; L’opinione
degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Laterza, 2000 e Storia del
Novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza,
Rizzoli 2000.
Giovanni De Luna: insegna storia contemporanea all Università di
Torino. Ha pubblicato: L’occhio e l’orecchio della storico. le
fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, La
Nuova Italia, 1993; Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993,
La Nuova Italia 1994; Donne in oggetto. L’antifascismo nella
società italiana (1922-1939), Bollati Boringhieri, 1995; con Marco
Revelli, Fascismo e antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova
Italia, 1995; con Adolfo Mignemi, Storia fotografica della Repubblica
Sociale Italiana, Bollati Boringhieri 1997; Storia del Partito d’Azione
(1942-1947), Editori Riuniti, 1997. Ha diretto con Diego Mormorio la
Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti. è autore
con altri di un manuale di storia per le scuole superiori, Codice
Storia, Paravia, 2000, e di un programma radiofonico, Diario italiano,
attualmente in onda su Radiotre.
Giovanni Sabbatucci: professore ordinario di storia contemporanea alla
Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma. è
autore di volumi e saggi sulla storia d’Italia dell’Otto-Novecento:
fra gli altri, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza 1974; La
crisi italiana del primo dopoguerra, Laterza 1976; Il riformismo
impossibile, Laterza 1991; Le riforme elettorali nella storia d’Italia,
Unicopli 1995; e, con Giovanni Belardelli, Ernesto Galli della Loggia
e Luciano Cafagna, Miti e storia dell’Italia unita, Il Mulino 1999.
In collaborazione con Andrea Giardina e Vittorio Vidotto, ha scritto
un Manuale di storia per le scuole medie superiori, uscito per la
prima volta nell’88. Ha curato una Storia del socialismo italiano
(Il Poligono 1980-81) e, assieme a Vittorio Vidotto, una Storia d’Italia
in sei volumi per l’editore Laterza (1994-99). Ha collaborato a “L’Espresso”,
a “Liberal” e alle pagine culturali del “Corriere della sera”.
Dal 1994 è editorialista del “Messaggero”.
Nicola Tranfaglia: professore ordinario di Storia dell’Europa e
preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Torino. è autore di diversi volumi pubblicati da Laterza: La mafia
come metodo nell’Italia contemporanea ,1991, Mafia politica e
affari.1943-1991, 1992; Cirillo, Ligato e Lima. Tre storie di mafia e
politica, 1994; 1946. La nascita della Repubblica, con M. Ridolfi,
1996; Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo (1999); ha curato la
Storia della stampa italiana con Valerio Castronovo, 7 voll.,
1976-1997 e il Dizionario storico dell’Italia unita, con B.
Bongiovanni, 1996. Con B. Bongiovanni dirige la sezione di Storia
moderna della collana “Biblioteca Essenziale Laterza”.
Reset: Il tema che vogliamo sottoporvi non è il revisionismo,
di cui tanto si è parlato in diverse occasioni, ma una questione più
specifica, sollevata anche da Giorgio Bocca e Norberto Bobbio in
recenti articoli e ripresa da Adriano Sofri. Coloro che contestano la
cosiddetta vulgata resistenziale sostengono che la storiografia
sugli eventi del periodo 1943-45 è dominata, nei libri di scuola e
altrove, da un’interpretazione corrente faziosa, schierata in favore
della tradizione antifascista. E, in polemica con questa versione dei
fatti, richiamano l’attenzione sul valore dell’impegno delle
persone che si schierarono attivamente dalla parte del fascismo di
Salò. Ad esempio lo storico Roberto Vivarelli, nel libro di memorie
in cui ricorda la sua esperienza di giovanissimo militante della
Repubblica sociale italiana, sostiene che il vero spartiacque morale
non è tra partigiani e fascisti, ma tra coraggiosi e vili, tra chi
prese le armi per combattere, da una parte o dall’altra, e chi
preferì acquattarsi, in attesa che passasse la bufera.
Di fronte a questa argomentazione, Reset condivide le reazioni
di quanti invitano a considerare come le scelte della Resistenza e di
Salò portassero a conseguenze ben diverse. Dal punto di vista
weberiano dell’etica della responsabilità, aderire alla Rsi
significava infatti, tra le altre cose, battersi per la vittoria della
Germania di Adolf Hitler. E quindi è giusto domandarsi quale sorte
avrebbero avuto l’Italia, l’Europa e il mondo in una simile
eventualità. È un ragionamento che vogliamo fare con voi,
invitandovi a entrare nel campo della controfattualità. Che cosa
sarebbe successo se avessero vinto coloro che hanno perso. Ci siamo
rivolti a voi, come studiosi di storia contemporanea, che sappiamo
addestrati a un uso “professionale” della controfattualità.

Colarizi: Vorrei fare una premessa. Io condivido il discorso di
Adriano Sofri secondo cui l’impegno di schierarsi da una parte o
dall’altra è sempre qualcosa di rispettabile. Negli anni dal 1943
al 1945 ci furono delle persone che, di fronte al mare dell’attendismo
e della cosiddetta “zona grigia”, decisero di battersi per le loro
idee. è un dato abbastanza rilevante nella storia degli italiani che
avevano un pesante deficit di impegno civile.
Altra cosa ovviamente sono i valori per cui i combattenti della
Resistenza e della Rsi scelsero di prendere le armi. Rispetto ai
principi democratici nei quali noi ci riconosciamo, sulla base dei
quali è stata costruita l’Italia repubblicana, lo scenario che si
sarebbe determinato con la vittoria di Salò va in direzione
diametralmente opposta.
Anche qui però bisogna chiarire un punto. A vincere non sarebbero
stati i “repubblichini” in quanto tali, ma il Terzo Reich nazista,
di cui la Rsi era nei fatti un governo fantoccio. Salò non aveva
nemmeno quel limitato margine di autonomia del quale godeva in Francia
il regime collaborazionista di Vichy. Dobbiamo quindi prendere in
considerazione l’ipotetica vittoria nazista e quindi del progetto
del nuovo ordine mondiale hitleriano, nel quale l’Italia aveva un
ruolo molto preciso e assolutamente subordinato.
De Luna: Fin dalla seconda metà degli anni Ottanta il
dibattito storiografico ha concentrato la sua attenzione sulla
differenza tra la “zona grigia” e l’area dell’impegno. Quando
Claudio Pavone avanzò per la prima volta la sua interpretazione della
Resistenza come guerra civile, nel 1985, a un convegno della
Fondazione Micheletti di Brescia, quel discorso costrinse tutti a
occuparsi non soltanto della dimensione ideologica e politica della
lotta partigiana, ma anche della dimensione esistenziale e soggettiva
delle scelte compiute in un campo e nell’altro.
Pochi anni dopo Mario Isnenghi, uno storico non certo sospetto di
revisionismo, richiamò l’attenzione su un dato specifico
riguardante il periodo 1943-45: mai nella storia d’Italia era
accaduto che un così grande torrente di energie giovanili
volontaristiche, non mobilitate e inquadrate dalle istituzioni, ma
spinte da un moto spontaneo, affollassero i percorsi dell’impegno e
della lotta armata, nella Resistenza come nella Rsi.
Rispetto alla “zona grigia”, affollata di “tengo famiglia” e
“mi faccio i fatti miei”, si era dunque verificata una rottura
molto significativa. Insomma, le osservazioni che sono state fatte in
questi giorni da Sofri e da altri hanno alle spalle una robusta
attenzione da parte della storiografia. Ovviamente poi, una volta
distinti i due universi quello della scelta attivistica e quello dell’attendismo,
dentro l’area del volontarismo bisogna ulteriormente distinguere tra
i valori in nome dei quali si schierarono rispettivamente i partigiani
e i fascisti.
Come dice Kim nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno di
Italo Calvino, bastava un nonnulla per trovarsi da una parte o dall’altra,
però poi quel nonnulla scavava un abisso. Riflettendo sulla
provocazione insita nel tema della storia controfattuale ho cercato di
immaginare uno scenario ipotetico diverso da quello di una vittoria
nazista, più plausibile e meno distante da quanto realmente avvenne.
La mia attenzione si è quindi concentrata non sui venti mesi della
repubblica di Salò, ma su quello stranissimo interludio che fu il
periodo della “non belligeranza”, dal settembre del 1939 al 10
giugno 1940, giorno dell’entrata in guerra di Mussolini. Secondo me,
in definitiva, è più interessante chiederci che cosa poteva
succedere non se la Rsi avesse vinto, ma se l’Italia fosse rimasta
fuori dal secondo conflitto mondiale.
Sabbatucci: Nel nostro dibattito sono già emersi numerosi
problemi. Il primo è di natura teorica: riguarda l’opportunità, o
addirittura la liceità, della storia controfattuale. Credo che entro
certi limiti queste operazioni siano più che lecite e anche utili.
Ovviamente se noi facciamo della fantastoria, se cerchiamo di
immaginare che cosa sarebbe accaduto in Europa nei successivi cinquant’anni
dopo un’ipotetica vittoria nazista, si tratta soltanto di un gioco,
certamente lecito ma estraneo alla storiografia.
Invece un certo grado d’interrogazione sulle alternative presenti in
un dato momento storico, secondo me, non solo è utile, ma doveroso.
Dico questo perché, quando ci occupiamo di storia, non ci limitiamo a
raccontare quello che è successo, ma diamo anche dei giudizi. E il
giudizio ha senso se immaginiamo un’alternativa agli eventi
realmente accaduti.
Quindi abbozzare degli scenari controfattuali ci serve innanzitutto a
formulare delle valutazioni sui comportamenti dei protagonisti: se le
azioni di un certo soggetto non avevano alternative, non è possibile
giudicarle. In una logica storicista portata all’esasperazione,
bisogna solo prendere atto degli avvenimenti, perché tutto quello che
è accaduto doveva accadere. Noi però sappiamo che non è così e
sulla base delle alternative possibili siamo in grado di esprimere
giudizi. In secondo luogo questa prospettiva ci aiuta a tenere
presente in ogni momento qual è il margine, sempre molto ampio, della
casualità, qual è l’impatto di avvenimenti minimi su vicende
enormi.
Faccio un esempio tipico. Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore
di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco
Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse
fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del
mondo sarebbe cambiata. Esercizi del genere ci proteggono dalle
tentazioni del determinismo e del fatalismo, della storia già scritta
nel destino. E poi ci permettono di apprezzare il peso della
casualità in tutto ciò che succede, nei grandi come nei piccoli e
piccolissimi avvenimenti.
Per quanto riguarda il problema specifico da cui siamo partiti, sono d’accordo
che è sbagliata la prospettiva di chi guarda alla storia
semplicemente valutando il grado di buona fede o di coraggio degli
attori in campo, perché si tratta di qualità importanti nella vita
personale, ma assai meno significative ai fini di un giudizio
storiografico.
Quando sono stato interpellato sul libro di Vivarelli, ho risposto
che, valutando gli eventi, dobbiamo tenere presente l’etica della
responsabilità e chiederci che cosa sarebbe successo se, per esempio,
la Germania avesse vinto la guerra. Io credo che avremmo avuto non l’ordine
mondiale, ma certamente l’ordine europeo nazista. Ci sarebbero stati
due blocchi, ma diversi da quelli che abbiamo conosciuto. A un’alleanza
angloamericana occidentale, di matrice democratica, si sarebbe opposto
un blocco continentale dominato dal Terzo Reich. Dio sa, poi, che cosa
sarebbe accaduto nel resto del mondo. La democrazia non sarebbe
scomparsa dalla faccia della terra, ma certamente non avrebbe avuto
spazio nell’Europa continentale.
Per ultima cosa vorrei dire che, se è giusto fare questo tipo di
considerazioni a proposito della Resistenza e della contrapposizione
tra partigiani e fascisti della Rsi, lo stesso vale per ogni altro
soggetto che agisca nella storia, in qualsiasi momento. Vorrei quindi
che questo criterio, a mio avviso corretto, si applicasse per esempio
ai comunisti italiani. Si dice che il Pci non avrebbe mai potuto
mettere in discussione la nostra democrazia, perché lo impediva la
logica di Yalta. Si tratta però di vedere, applicando sempre l’etica
della responsabilità, quale tipo di ordinamento pensavano di
costruire i comunisti italiani, che cosa sarebbe accaduto se le cose
fossero andate come loro speravano.
Tranfaglia: Sono convinto del fatto che, quando noi analizziamo
i comportamenti individuali, non possiamo dimenticare né le
alternative di azione che esistevano, né le conseguenze che l’una o
l’altra scelta potevano comportare, sia pure in misura molto
limitata, per gli avvenimenti storici.
Nel caso specifico della Repubblica sociale, effettivamente il secondo
conflitto mondiale la vede come un attore minore, rispetto al grande
scontro in corso tra la Germania nazionalsocialista da una parte, le
democrazie occidentali e l’Urss dall’altra. Ma se il Terzo Reich
avesse vinto, le conseguenze sarebbero state molto gravi per tutta l’Europa
e quindi anche per il destino del nostro Paese.
De Luna si è riferito al momento di apparente incertezza dell’Italia
fascista rispetto all’opportunità d’intervenire al fianco di
Hitler, tra la fine del 1939 e la metà del 1940. Pensando a quel
momento, viene da chiedersi se senza la guerra, e quindi senza gli
avvenimenti militari e politici dell’estate 1943, ci sarebbe stata
la caduta di Mussolini.
Per chi si occupa della storia d’Italia nel XX secolo è un
interrogativo abbastanza interessante, perché il regime fascista è
crollato nel momento in cui l’andamento della guerra ne ha
determinato il collasso. E poi la Resistenza è nata come reazione all’occupazione
tedesca, mentre le sorti del conflitto volgevano abbastanza
chiaramente in favore degli alleati.
Lo storico dunque è portato a riflettere su che cosa sarebbe successo
se effettivamente l’Italia fosse rimasta fuori dalla guerra e la
dittatura non avesse messo a repentaglio la sua sorte.
De Luna: La controfattualità, dal punto di vista dello
storico, è una dimensione apparentemente bizzarra. Voi ricorderete
gli studi econometrici compiuti sul presupposto che non fosse stata
abolita la schiavitù, o che non fosse stata inventata la navigazione
a vapore. Questi esercizi della New economic history, in realtà, come
ha notato Sabbatucci, non sono poi così oziosi.
Tuttavia, per essere produttiva, la controfattualità dovrebbe a mio
avviso costeggiare al massimo la realtà storica. Per questo motivo,
mentre ritengo del tutto fantastica l’ipotesi che Salò potesse
uscire vittoriosa dalla guerra, perché nel 1943-44 le sorti dello
scontro erano segnate, considero invece fattualmente molto più
probabile il percorso cui faceva riferimento Tranfaglia.
In effetti, se guardiamo all’Italia del dopoguerra, ci accorgiamo
che la continuità prevale di molto sul cambiamento. La rottura della
guerra civile era stata lancinante, in particolare per i lutti che
aveva provocato, ma non era riuscita a incidere in profondità
rispetto agli apparati e alle istituzioni consolidate, nello Stato e
nella società.
L’Italia a cavallo tra gli anni quaranta e l’inizio degli anni
cinquanta é segnata dal clericalismo, da un ritorno reazionario, da
una continuità che si annidava anche nelle coscienze degli uomini,
negli stereotipi culturali di riferimento, nelle canzoni e nei film.
Era un Paese ancora condizionato dal ventennio fascista, un’Italia
senza Mussolini, ma con profondi contenuti ideologici, culturali e
sociali che venivano direttamente dai quadri mentali del passato
regime. Si potrebbe anche immaginare, quindi, un’evoluzione “franchista”,
sul modello spagnolo, di un’Italia fascista che non fosse entrata in
guerra.
Ma un regime del genere sarebbe crollato, o comunque sicuramente si
sarebbe afflosciato, in una fase successiva, per effetto del boom
economico. Sarebbe stato il mercato, con lo sprigionamento delle forze
produttive, a sgretolare quell’impasto ideologico, quella dimensione
sociale, quegli apparati di potere. In definitiva, si potrebbe
proporre una lettura dei fatti che facesse della guerra una semplice
parentesi e immaginare un percorso che, togliendo di mezzo il
conflitto a partire dal presupposto di una neutralità italiana, non
sarebbe cambiato un granché, dal punto di vista della struttura
profonda del Paese, fino al miracolo economico, che avrebbe poi minato
dall’interno l’impalcatura fascista. Uno Stato di quel genere,
infatti, non avrebbe certo potuto reggere a un rigoglioso sviluppo
come quello conosciuto dall’Italia negli anni Sessanta.
Reset: Forse è interessante anche ampliare questa prospettiva
a livello continentale. Se avesse vinto la Germania, che tipo di
Europa avremmo avuto? Sabbatucci ha ipotizzato la nascita di un grande
blocco dominato dal Terzo Reich. Ma sarebbe stato un impero
paragonabile alla zona d’influenza sovietica creata all’Est nel
dopoguerra, oppure qualcosa di peggio? E’ ipotizzabile un blocco
dominato da un’ideologia razzista? Come sarebbe stato trattato dal
regime vincente il tema dell’Olocausto? Sarebbe stato possibile
occultare lo sterminio degli ebrei, oppure i nazisti l’avrebbero
apertamente rivendicato? E che rapporti ci sarebbero stati tra il
Reich e gli Stati satelliti? Noi sappiamo che cos’è un blocco
comunista, con i suoi regimi polizieschi, ma si fatica a immaginare l’equivalente
sotto il segno della svastica.

De Luna: Non è difficile immaginarlo, a mio parere, perché in
realtà i nazisti non avevano mai nascosto le loro intenzioni. Il “nuovo
ordine europeo” aveva al vertice il Grande Reich tedesco, poi una
serie di satelliti intermedi e nel punto più basso le immense
moltitudini dei popoli slavi, ridotti in una condizione di schiavitù.
Era un progetto organico, teorizzato esplicitamente e strutturato
secondo una scala gerarchica di carattere razziale: una piramide in
fondo alla quale sarebbero stati relegati i “non uomini”. Lo
sterminio degli ebrei non sarebbe stato tematizzato, ma semplicemente
praticato e portato a termine in modo sistematico, una volta superate
le difficoltà derivanti dalle esigenze belliche. Mentre il destino
degli slavi sarebbe stato il lavoro forzato.
Reset: Invece Robert Harris, in un libro di fiction, Fatherland,
che sviluppa questo scenario, immagina una situazione in cui l’occultamento
dell’Olocausto è la grande menzogna su cui si regge il regime
nazista uscito vittorioso dalla guerra. Infatti salterà quando
qualcuno andrà a scovare i documenti che provano i crimini di massa
compiuti dai detentori del potere.
Colarizi: Ora però stiamo sconfinando nella fantapolitica. Io
sono abbastanza d’accordo con quanto diceva Sabbatucci. In sé la
storia controfattuale è un esercizio molto importante, proprio per
affrontare i temi posti dal revisionismo. Avanzare ipotesi alternative
rispetto a quanto è realmente accaduto ci fa capire perché le
interpretazioni rigide non funzionano: un “se” collocato al posto
giusto, con motivazioni forti, può essere molto utile per
approfondire la conoscenza di certi meccanismi del processo storico.
Tuttavia immaginare un ordine mondiale nazista consolidato è davvero
fantastoria.
Io propenderei comunque per l’ipotesi di Harris rispetto a quella di
De Luna. Mi convince l’idea della grande menzogna sull’Olocausto.
Vorrei aggiungere che la conoscenza delle dittature instaurate nei
paesi comunisti, a mio parere, non ci aiuta minimamente a capire che
cosa sarebbe stata un’eventuale Europa sotto l’egida del Terzo
Reich. Il blocco sovietico ha incluso alcuni paesi dell’Est, quasi
tutti di piccole dimensioni, ma non ha raggiunto le grandi nazioni
occidentali, che sono il cuore del continente. L’ipotesi di un
trionfo di Hitler pone ben altri problemi. In primo luogo, che cosa
sarebbe stato della Gran Bretagna?
Sabbatucci: Secondo me, sarebbe comunque rimasta fuori dal blocco
nazista.
Colarizi: Ammettiamolo pure. Ma anche la nazificazione degli
altri paesi dell’Europa occidentale avrebbe comportato problemi
enormi. Partendo da presupposti del genere, un’ipotesi può valere l’altra.
Ritengo più utile tornare a scenari meno fantasiosi. De Luna ha
cercato di immaginare quanto sarebbe accaduto se l’Italia non fosse
entrata in guerra. Questo è un “se” molto percorso, che parecchi
studiosi hanno posto alla nostra attenzione. C’è un vero dibattito
storiografico nel quale ci si chiede se fosse possibile per Mussolini
rimanere fuori dal conflitto, tanto più che c’è inizialmente una
scelta di “non belligeranza” nel settembre del ‘39, una scelta
che si perpetua fino al giugno del 1940 e che cambia solo quando
Hitler è diventato padrone di tutto il continente e la Francia sta
ormai firmando la resa.
Solitamente si paragona l’ipotetico percorso di un’Italia rimasta
neutrale a quello effettivamente seguito dalla Spagna franchista.
Proprio uno scenario di questo genere riporta all’utilità dell’esercizio
della storia controfattuale in rapporto al revisionismo: e mi
riferisco in particolare all’acceso dibattito sul consenso al
fascismo degli anni passati: se l’Italia fascista avesse avuto lo
stesso destino della Spagna di Franco, allora si deve presumere che il
fascismo disponesse di un forte radicamento tra le masse italiane, che
l’antifascismo invece avesse una presa marginale e che dunque la
guerra e soprattutto la guerra perduta abbiano avuto un peso
determinante nel distacco degli italiani dal regime.
Resto comunque del parere che le ipotesi di un’altra storia sono
utili solo se sviluppate nel breve periodo, perché spingendosi troppo
avanti nel tempo le variabili in gioco diventano innumerevoli.
Restando nell’ambito dei “se” più plausibili, ce ne sono anche
altri da non trascurare. Se, per esempio, nel famoso incontro di
Feltre tra Hitler e Mussolini, il 19 luglio 1943, il duce avesse
deciso di sganciarsi dai tedeschi. Oppure se Vittorio Emanuele III,
dopo il 25 luglio, avesse accettato il piano proposto da Dino Grandi,
che prevedeva una dichiarazione di guerra alla Germania, contestuale
all’abbattimento del regime.
Per capire meglio l’Italia postbellica, possiamo invece domandarci
che cosa sarebbe avvenuto se il Fronte popolare avesse vinto le
elezioni del 1948. Tutti questi interrogativi sono legittimi, ma
tenderei a proiettarne le conseguenze solo in un arco di tempo
limitato, perché poi le ulteriori domande si moltiplicano all’infinito.
Se rimaniamo ancorati all’ipotesi di una vittoria di Hitler,
dobbiamo chiederci in quali condizioni sarebbero usciti dalla guerra
(ammesso che vi fossero entrati) gli Stati Uniti, che cosa avrebbe
fatto il Giappone e così via. I protagonisti diventano troppi e si
finisce inevitabilmente per disegnare scenari puramente virtuali.
Sabbatucci: Sono d’accordo sul fatto che queste simulazioni
sono tanto più plausibili e attinenti alla storia (non è detto che
debbano esserlo per forza, ma in tal caso diventano giochi), quanto
più si riferiscono al breve periodo, a un’alternativa misurata su
un lasso di tempo limitato, e si avvicinano a quelle che all’epoca
erano considerate strade effettivamente percorribili.
Possiamo chiederci che cosa sarebbe successo se Mussolini avesse rotto
l’alleanza con Hitler nel 1941, ma una simile ipotesi non è mai
stata nell’ordine delle cose possibili. Un po’ diverso è il
problema di come valutare i diversi scenari ai fini di un giudizio,
soprattutto se il giudizio stesso ha un carattere morale. Quando ci
chiediamo per quali obiettivi si battevano i giovani di Salò, non
facciamo un’operazione di storia controfattuale, perché non stiamo
considerando un’ipotesi plausibile.
Diciamo la verità: almeno dal 1944, dallo sbarco in Normandia in poi
(se lo sbarco fosse fallito forse le cose potevano cambiare), una
vittoria delle forze dell’Asse diventa una prospettiva molto remota.
Tuttavia il discorso sulle motivazioni degli aderenti alla Rsi resta
utile, perché ci serve allo scopo di esprimere un giudizio su quella
esperienza.
Torniamo così ai lineamenti del “nuovo ordine europeo” progettato
da Hitler. De Luna ha ragione quando osserva che in materia ne
sappiamo parecchio, perché quel piano venne non solo teorizzato, ma
anche praticato. Però bisogna distinguere: una cosa è la sua
applicazione nell’Europa orientale, che i nazisti consideravano una
zona di colonizzazione e sfruttamento economico; un’altra cosa è la
politica del Terzo Reich nel resto del continente.
Se avesse vinto la Germania, certamente la democrazia sarebbe
scomparsa e gli ebrei se la sarebbero vista brutta ovunque e comunque,
ma le forme del dominio sarebbero state sicuramente diverse a seconda
delle situazioni specifiche, non avrebbero assunto in ogni luogo le
modalità della guerra condotta a Oriente.
Anche durante il conflitto, per esempio, i tedeschi trovarono un modus
vivendi con i paesi scandinavi: occuparono Danimarca e Norvegia,
ma non la Svezia. Probabilmente, anche in caso di vittoria nazista, un
certo margine per regimi non del tutto omologati al Terzo Reich in
Europa sarebbe rimasto. Quanto all’Olocausto, penso senz’altro che
sarebbe stato nascosto, così come è avvenuto per il Gulag in Unione
Sovietica.
Semmai si può discutere sulle possibilità di riuscita dell’operazione
di occultamento. In casi del genere, il grado di silenzio su
determinati crimini non dipende tanto dall’atteggiamento di chi li
ha perpetrati, ma dalle scelte dei suoi avversari. Bisogna vedere in
che misura gli altri attori presenti sulla scena internazionale
avrebbero avuto la possibilità e l’interesse di rinfacciare al
Reich i suoi delitti. Avrebbero anche potuto trovare più conveniente
tacere. E in quel caso lo sterminio sarebbe stato, se non
completamente occultato, di certo marginalizzato e minimizzato.
Potremmo a questo punto chiederci fino a quando sarebbe stato
possibile mantenere il segreto sulla Shoah, ma qui ci troviamo già
nella fantastoria spinta e preferisco fermarmi.
Tranfaglia: Il discorso si è molto allargato. Anch’io penso
che non sia facile omologare oggi tutte le forme della dominazione
nazista, perché studiando l’Europa di quegli anni si vede con
chiarezza che la Germania si comportava diversamente, a seconda della
Resistenza che trovava e delle caratteristiche che avevano le diverse
società.
Nel complesso i margini di irrazionalità della strategia di Hitler
non erano poi così ampi come vengono descritti in certe
rappresentazioni schematiche. Non c’è dubbio però che l’attuazione
del massacro degli ebrei da una parte e degli slavi dall’altra era
tra i punti fondamentali del programma nazista. Sulla base di ciò che
possiamo sapere riferendoci a quanto è avvenuto, se ci fosse stata
una vittoria, lo sterminio sarebbe andato avanti a ritmo ancora più
intenso, anche dopo la fine della guerra.
È più difficile invece valutare quali sarebbero state le forme di
riorganizzazione del potere nelle zone periferiche rispetto al centro
dell’impero. L’Italia, che si trovava in una situazione di
vicinanza e di connessione con il Terzo Reich, avrebbe risentito più
di altri della sua influenza diretta.
Un altro punto, che la nostra discussione finora non ha messo in luce,
si riferisce allo scenario ipotizzato da De Luna: quali sarebbero
state le reazioni della Germania nazista di fronte a un eventuale
mancato ingresso dell’Italia in guerra? Noi sappiamo che Mussolini
avrebbe potuto porre condizioni tali da non precipitarsi a
intervenire, come viceversa fece nel giugno del 1940, però non è
facile immaginare quale sarebbe stata la reazione della Germania, in
un’Europa coinvolta interamente nel conflitto, di fronte alla
neutralità dell’Italia. Qui non si tratta di entrare nella storia
controfattuale, ma di valutare alternative piuttosto concrete.
Torniamo alle conseguenze di una possibile vittoria nazista, ipotesi
di cui peraltro i contemporanei parlarono a lungo, anche quando le
sorti della lotta apparivano ormai decise, per via della leggenda, che
poi non era solo tale, delle formidabili “armi segrete” tenute in
serbo da Hitler.
Mi sembra che una simile eventualità debba essere considerata anche
per valutare come si sarebbero comportate le classi dirigenti dei
paesi europei finiti nella sfera d’influenza tedesca. In fondo la
nascita e lo sviluppo di governi collaborazionisti, negli anni della
guerra, avrebbe potuto avere un seguito anche molto più largo qualora
la Germania fosse riuscita a prevalere. Noi storici abbiamo il
vantaggio di occuparci del passato, che ha il grande pregio di essere
già avvenuto e di non riservare più troppe sorprese.
Il futuro invece ha al suo interno una serie immensa di possibili
variabili, le cui conseguenze sono ben difficili da calcolare. La
cosiddetta storia controfattuale finisce per interessare, prima o poi,
tutti gli studiosi, proprio perché ciascuno di noi, come persona, si
trova sempre sospeso tra il presente, il passato e l’avvenire,
malgrado il suo mestiere lo conduca ad analizzare eventi già
accaduti.
Reset: Proviamo a concentrarci sull’Italia, a chiederci che
fine avrebbe fatto il nostro Paese, subordinato ai nazisti vincitori,
sia nel caso in cui avesse contribuito pienamente al successo di
Hitler, sia nel caso in cui avesse tentato di sganciarsi dall’alleanza
con la Germania. Un’Italia nella sfera d’influenza del Terzo Reich
come sarebbe stata?
De Luna: Non dimentichiamo un elemento cruciale. L’ordine
europeo conseguente a una vittoria della Germania avrebbe avuto un
fondamento razziale, non certo ideologico come quello del blocco
comunista creato da Stalin nel dopoguerra. Le gerarchie sarebbero
state segnate da questo connotato specifico. Il problema di quale
futuro ci sarebbe stato non si pone quindi per gli ebrei, per gli
zingari, per la manodopera schiavizzata, per tutti coloro che
sarebbero stati cancellati dalla storia in quanto non riconosciuti
neppure come esseri umani a pieno titolo.
La questione riguarda invece l’Europa “bianca” latino-germanica,
nella quale le teorie razziali consentivano una certa dialettica nel
trattamento dei diversi popoli. Anche in questo caso la
controfattualità non si distacca poi molto dagli eventi della storia,
perchè vi furono perfino settori della classe dirigente britannica
che accarezzarono l’idea di assecondare il progetto hitleriano. Lo
stesso vale per tutti i paesi dell’Europa occidentale occupati dai
tedeschi, dove si trovarono gruppi disponibili a partecipare alla
costruzione del “nuovo ordine europeo”.
In queste realtà si può immaginare che la frattura tra
collaborazionisti e resistenti si sarebbe riprodotta nel dopoguerra,
con i primi al potere e i secondi all’opposizione. In Italia ci
sarebbe stato un nutrito gruppo della nostra classe dirigente che
avrebbe partecipato alla leadership mondiale esercitata dai nazisti,
condividendo la gestione del potere negli spazi consentiti da Hitler,
in una condizione certamente subordinata, ma non di sottomissione
totale.
Reset: Insomma, schiavi sarebbero stati i polacchi, mentre gli
italiani avrebbero avuto un rango più elevato.
De Luna: Direi che soprattutto gli inglesi, considerati più
vicini alla razza germanica, avrebbero occupato un posto abbastanza
elevato. Poi sarebbero venuti gli scandinavi di cui parlava Sabbatucci
prima. Ripeto: avremmo avuto a che fare con una gerarchia razziale.
Per questo non credo che l’Olocausto sarebbe stato negato, perché
la “soluzione finale” avrebbe avuto una fortissima valenza
pedagogica. Pensiamo bene all”orrore di quello che sarebbe successo:
nel “nuovo ordine europeo”, basato su criteri razziali, lo
sterminio degli ebrei non sarebbe stato un’atrocità da nascondere,
ma un esempio da ostentare per rendere esplicite le finalità
collettive del sistema politico.
Reset: Prima Sabbatucci ha paragonato il Gulag allo sterminio
degli ebrei. ma come si fa a non vedere la differenza fra le due
ideologie? Il comunismo si diffuse su tutto il pianeta, anche in Asia,
nei paesi islamici, in America Latina, dovunque grazie alla sua forte
carica universalistica, superiore perfino a quella del cristianesimo.
Invece il nazismo, ideologia razzista, non avrebbe mai potuto
espandersi alla stessa maniera fuori dalle aree “elette”.
Sabbatucci: Avrebbe potuto benissimo espandersi con la
conquista militare. Anche il comunismo, nonostante la sua carica
universalistica, ha compiuto i suoi maggiori progressi grazie alla
forza delle armi. Aggiungo che il mondo arabo era pieno di
nazionalisti che simpatizzavano per Hitler. E in India c’era il
movimento di Chandra Bose su posizioni analoghe. Molti oppositori del
colonialismo avevano ottimi motivi per essere filo-tedeschi, perché
combattevano contro gli inglesi. Qualche possibilità di espansione
mondiale, a conti fatti, ce l’aveva anche il nazismo.
Ma noi stiamo discutendo su un’altro scenario, quello della “fortezza
Europa”. Per quanto riguarda l’Italia, sono state messe in campo
due ipotesi molto diverse. La prima riguarda la sorte che sarebbe
toccata all’Italia in un’Europa a dominanza nazista, nel caso in
cui Mussolini fosse rimasto fuori dal conflitto. In questo caso
abbiamo un modello cui guardare: gli esempi sono la Spagna di Franco e
il Portogallo di Salazar. Regimi autoritari che, mancando la rottura
della guerra perduta, si sono prolungati.
Anche il fascismo, senza la sconfitta, sarebbe durato di più,
assumendo chissà quali forme, forse di tipo clericale. Ovviamente
però, in caso di vittoria nazista, le componenti totalitarie e “rivoluzionarie”
del regime si sarebbero decisamente rafforzate. In fondo, l’ipotesi
che stiamo facendo non è altro che la traduzione in termini colti del
vecchio detto popolare: “Ah, se Mussolini non avesse fatto la
guerra...”. Ebbene, se il duce fosse rimasto fuori dal conflitto,
sarebbe molto probabilmente morto nel suo letto.
A mio parere in questo caso si può accettare la vulgata
popolare, visto che esempi analoghi come la Spagna e il Portogallo ci
danno una traccia da seguire. Si può pensare poi che l’Italia, se
non si fosse schierata al fianco del Terzo Reich, sarebbe stata
oggetto di qualche rappresaglia tedesca. Ma io su questo ho qualche
dubbio, perché bisogna considerare i guai che l’entrata in guerra
del nostro Paese procurò a Hitler: problemi seri, forse decisivi
addirittura, perché fecero ritardare l’attacco all’Unione
Sovietica.
In definitiva non credo che il Führer si sarebbe rammaricato oltre un
certo limite per la neutralità italiana, così come non fece una
tragedia quando Franco, malgrado le sue forti pressioni, rifiutò d’intervenire
in aiuto dell’Asse.
La seconda ipotesi si riferisce alla situazione del 1943. Ci chiediamo
che cosa sarebbe successo se la Germania avesse vinto la guerra dopo l’8
settembre, in alleanza, se così si può dire, con la repubblica di
Salò. In questo caso non dobbiamo dimenticare un dato: è vero che l’Italia
aveva un rango ben superiore alla Polonia nel “nuovo ordine”
hitleriano, ma dopo il 1943 era pur sempre considerata una nazione
traditrice, recuperata in extremis grazie al ritorno sulla
scena di Mussolini.
Insomma, l’Italia sarebbe stata trattata meglio dei paesi slavi, ma
avrebbe pagato un prezzo molto alto. In primo luogo avrebbe perso
vasti territori: potevamo scordarci non solo il Sud Tirolo, ma il
Trentino, Trieste e la Venezia Giulia, che il Reich aveva del resto
già annesso durante la guerra.
E’ possibile avanzare anche una terza ipotesi, immaginando Hitler e
Mussolini alleati e vittoriosi nel 1941. Che cosa sarebbe successo se
i tedeschi avessero preso Mosca e annientato l’Urss, se gli Stati
Uniti fossero rimasti neutrali e la Gran Bretagna avesse accettato una
pace di compromesso? In questo caso avremmo avuto uno scenario ancora
diverso e molto più favorevole all’Italia fascista.
Colarizi: Vorrei riprendere l’ipotesi di un blocco europeo
nazificato, per ribadire che, a mio giudizio, l’Olocausto non
sarebbe stato esibito. Del resto i nazisti occultarono lo sterminio
mentre lo realizzavano. C’è un problema evidente d’immagine che
un regime deve dare di sé. Per quanto il razzismo fosse professato
apertamente dall’ideologia del Terzo Reich, un immenso massacro di
persone inermi è sempre qualcosa di orribile, che nessun sistema
politico può permettersi di ostentare.
E’ molto meglio che la popolazione non sappia niente di un’operazione
così sporca. I tedeschi infatti, dopo la guerra, si sono giustificati
proprio in questo modo, dicendo che non sapevano e non potevano
immaginare una realtà tanto spaventosa. Per quanto negli anni
Quaranta l’antisemitismo fosse molto diffuso in tutta Europa,
vantarsi di crimini atroci è sempre sconveniente.
Inoltre ci sarebbe stato un problema di relazioni internazionali.
Anche pensando che nel mondo si sarebbero confrontati soltanto un
blocco anglosassone democratico e un blocco europeo continentale
dominato dai nazisti, quest’ultimo non avrebbe avuto alcun interesse
a presentarsi come responsabile di un genocidio.

Sono poi d’accordo con Sabbatucci che le conseguenze sull’Italia
di un’eventuale vittoria di Hitler vanno calibrate a seconda dell’anno
e della situazione in cui collochiamo il trionfo finale del Terzo
Reich. Se noi immaginiamo lo scenario meno probabile, una vittoria
tedesca che si realizza dopo il 1943, va considerato che Salò non era
nemmeno un vero e proprio Stato e aveva già subito mutilazioni
territoriali molto pesanti, come ricordava Sabbatucci.
Sicuramente l’Italia non avrebbe subito la sorte dei paesi slavi, ma
non sono molto convinta che avrebbe potuto strappare un trattamento di
favore. Non dimentichiamo che nel 1943 ormai i tedeschi ci
disprezzavano apertamente come popolo. I soldati arruolati dal
maresciallo Graziani nell’esercito della Rsi, inviati in Germania
per essere addestrati, erano trattati quasi come prigionieri.
E anche i lavoratori italiani residenti nel Reich, già molto prima
dell’8 settembre, subivano angherie d’ogni genere. Erano partiti
entusiasti di trovare un’occupazione in un Paese più ricco, ma
quando trascorrevano le ferie in Italia cercavano in tutti i modi di
non tornare in Germania, con grande stupore di Mussolini.
Reset: Torniamo alla scelta che si presentava agli italiani
dopo l’8 settembre. Da una parte c’era la coalizione nazifascista,
dall’altra l’alleanza tra gli angloamericani e l’Urss, che era
sostenuta da un arco di forze molto variegato, dai monarchici
badogliani fino ai comunisti.
Sabbatucci : Posso fare una piccola obiezione? Non è detto che
tutti coloro che avevano di fronte la scelta tra la Resistenza e Salò
se la ponessero in questi termini.
Per molti le cose erano molto diverse da come possiamo vederle noi
oggi. Parecchi giovani, come emerge anche dal tanto discusso libro di
Vivarelli, si ponevano questioni molto più elementari e minute. Stare
con il re, che aveva rotto con i tedeschi, o con Mussolini, che era
rimasto fedele all’alleanza. Essere fedeli a un giuramento o a un
altro. Dare prova di coerenza o ribellarsi all’occupazione nazista.
Siamo di fronte a una miriade di scelte individuali, spesso
condizionate pesantemente da fattori personali, per cui credo che solo
una minoranza si ponesse il problema nei termini di stare con l’alleanza
antifascista mondiale o con il Terzo Reich. Noi possiamo fare questo
ragionamento oggi, a mente fredda, ma loro, a parte i più
ideologizzati e motivati, secondo me agivano sotto la spinta d’impulsi
di altro genere.
Reset: Però non c’è dubbio che dalla parte degli alleati il
ventaglio delle forze in campo fosse molto più vasto e soprattutto
includesse la prospettiva della democrazia.
Tranfaglia: Questo è indubbio, mi pare.
Sabbatucci: Che il fronte antifascista fosse più ricco di
componenti è un fatto, ma bisogna vedere come appariva ai giovani
italiani dell’epoca.
Colarizi: Attenzione, dobbiamo chiederci quanto gli italiani
capissero di democrazia e se veramente la volessero. Anche questo è
un problema. C’era sempre stato nel nostro Paese un profondo deficit
di cultura democratica. A parte i ceti colti, le grandi masse non
conoscevano la democrazia né l’apprezzavano.
Certo, i vertici dei partiti antifascisti operavano per costruire un
sistema parlamentare, ma alla base i partigiani si mobilitavano
soprattutto sulla spinta di una prospettiva rivoluzionaria.
In Italia, prima del 1945, non c’era mai stata un’autentica
democrazia. Si era affermato uno Stato liberale, che con grande fatica
aveva tentato una transizione democratica, fallita però con l’avvento
del fascismo.
Teniamo conto poi che la grande maggioranza della popolazione non si
schiera e assume una posizione di attesa. Coloro che prendono
posizione, in gran parte, sono giovani. E ai ragazzi educati nelle
scuole fasciste la democrazia non appare particolarmente appetibile
né le potenze anglosassoni appaiono un faro. C’è inevitabilmente
da scontare l’educazione ricevuta, in Paese che storicamente ha un
grosso deficit di democrazia, di partecipazione politica, di vita
civile.
Ha ragione Sabbatucci , quando dice che i combattenti di solito
sceglievano sulla base di motivazioni molto più banali e povere di
significato. E poi di chi stiamo parlando? Una cosa sono i ragazzi
come Vivarelli, un’altra i partigiani che imbracciano le armi nell’Emilia
rossa, un’altra ancora gli intellettuali piemontesi del Partito d’Azione.
De Luna: A questo punto abbiamo abbandonato la storia
controfattuale e stiamo affrontando questioni terribilmente reali.
Parliamo allora di chi ha scelto, lasciando da parte l’area dell’attendismo,
che è importante, ma non riguarda il discorso di cui ci stiamo
occupando.
Le decisioni contrapposte dei partigiani e dei fascisti di Salò vanno
investigate in tutti i loro aspetti e le loro motivazioni. Le ultime
ricerche in proposito si basano anche su elementi molto particolari,
come le canzoni e le letture in voga. Indubbiamente alcuni quadri
mentali, concernenti per esempio il rapporto uomo-donna, si presentano
all’interno dei due fronti in maniera quasi identica, proprio
perché la cultura comune dei combattenti era quella che avevano
acquisito frequentando la scuola durante il ventennio.
Detto questo, se apriamo il ventaglio della ricerca a tutto campo,
investigando nel cuore e nella testa di coloro che si schierarono,
senza fermarci alla dimensione politico-ideologica, io ritengo che
alla fine del percorso la discriminante tra i due sistemi di valori
contrapposti appaia in maniera molto netta.
La sintesi finale degli ideali cui s’ispirava Salò era il binomio
costituito da onore militare e fedeltà al camerata tedesco. Tutta la
retorica della Rsi era basata su questo. Per quanto riguarda i
resistenti, il problema dei comunisti, che hanno una loro
caratterizzazione ideologica forte, si profila in maniera molto nitida
soprattutto a partire dall’insurrezione. Ma ciò che spinge il
singolo giovane a raggiungere una banda partigiana è
indiscutibilmente l’esigenza della libertà. Questo è il valore
fondante della scelta resistenziale.
Poi le singole formazioni organizzano una sorta di pedagogia politica
molto rozza, legata anche alle condizioni in cui si trovano a operare:
non dimentichiamo che gli stessi commissari politici delle Brigate
Garibaldi erano ragazzi di vent’anni. Nelle bande comuniste si parla
di rivoluzione, di dittatura del proletariato, ci si avvia sicuramente
su un percorso ideologico. Ma nella dimensione spontanea della scelta
partigiana, che non a caso il Pci ha sempre cercato di minimizzare, la
libertà costituisce l’elemento essenziale.
Tranfaglia: A proposito della scelta, anch’io ho la
sensazione, come De Luna, che negli aderenti alla Rsi le motivazioni
più forti fossero la reazione indignata al voltafaccia del re e di
Badoglio, ritenuto disonorevole, e la fedeltà all’alleanza con la
Germania.
Influirono fortemente, nello spingere quei giovani a Salò, le
incertezze, le esitazioni, l’insipienza, gli errori della classe
dirigente succeduta a Mussolini, e peraltro molto legata in passato
alla dittatura. Comunque nei combattenti della Rsi, molti
giovanissimi, altri meno, rimaneva viva la fede nel fascismo.
Mi sembra invece che unirsi alla Resistenza fosse soprattutto una
scelta di cambiamento, di opposizione ai valori dominanti inculcati
dal regime, anche se, come giustamente osservava la Colarizi, non c’era
nei partigiani l’abitudine alla democrazia né alla libertà, salvo
in quelli che avevano alle spalle una biografia politica già
sperimentata.
Ciò che noi vediamo nei resistenti, esaminando la documentazione
disponibile, è il crescere progressivo dell’idea di un’Italia
nuova e diversa, in cui l’elemento della libertà è molto
importante.
Reset: Prima di concludere, vale forse la pena d’inserire un
altro punto di vista. Anche gli Stati Uniti, come i giovani dell’Italia
centro-settentrionale, si trovarono di fronte a una scelta. Dovettero
decidere quale nemico affrontare per primo tra il comunismo e il
nazismo. E si allearono con Stalin per combattere Hitler. Anche qui si
può applicare un ragionamento ipotetico? In qualche momento gli Usa
avrebbero potuto compiere una scelta diversa? C’è stato un bivio
anche per loro?
De Luna: Si trattava di capire, tra il settembre 1943 e il
giugno 1944, quali delle forze politiche italiane potessero diventare
le interlocutrici privilegiate degli alleati. Su questo si giocò una
partita complessa fra britannici e americani.
In un primo tempo i rappresentanti degli Stati Uniti vedono con molto
più favore il modo di fare politica degli azionisti rispetto a quello
dei democristiani, scontando anche informazioni poco attendibili e una
scarsa conoscenza della situazione italiana. Più tardi, quando
osservano sul campo come si organizzano i partiti, cominciano a
modificare il loro atteggiamento. E dal giugno 1944 in poi, dopo la
liberazione di Roma, non hanno più dubbi. Scelgono la Dc perché
sanno che è una forza dotata di un robusto radicamento popolare, che
li garantisce dai rischi di avventure rivoluzionarie.
C’è stata all’inizio un’incertezza su quale modello di Stato
appoggiare: se accentuare la dimensione della rottura rispetto al
fascismo, quindi puntare per esempio su un sistema fortemente
decentrato verso il basso, che interiorizzasse un’ipotesi
democraticamente più avanzata, oppure assicurare la stabilità, senza
spingersi troppo oltre nell’invocare riforme di vario genere. Gli
alleati non vennero in Italia avendo già un piano definito e un
progetto da realizzare. Decisero il da farsi sul campo, sulla base di
un pragmatismo molto forte. Ad esempio dovevano proseguire le
operazioni belliche, quindi si preoccuparono che i governi italiani
cercassero di garantire tranquillità nelle retrovie.
Reset: D’accordo sull’incertezza riguardante gli
interlocutori italiani, ma c’è stato un momento in cui gli Stati
Uniti hanno preso in considerazione l’ipotesi di allearsi con Hitler
contro Stalin?
De Luna: No. Semmai è esistita la possibilità di un’alleanza
Hitler - Stalin.
Reset: Ma che cosa avrebbero pensato gli americani se l’alternativa
di allearsi con l’Urss o il Terzo Reich si fosse posta realmente?
Avrebbero mai ritenuto che forse era opportuno eliminare prima il
nemico comunista?
De Luna: Francamente è molto difficile immaginare uno scenario
del genere. Al di là di alcune tendenze isolazioniste vagamente
filofasciste, negli Stati Uniti non c’è mai stato un elemento cui
appigliarsi in questa direzione.
Anche l’isolazionismo non era affatto l’anticamera di un’alleanza
con la Germania. Può essere plausibile invece uno scenario che
vedesse Hitler e Stalin alleati contro le democrazie occidentali, ma
soltanto nel breve periodo. Ben presto l’intesa tattica sarebbe
finita e le due potenze avrebbero regolato i conti tra loro, perché i
rispettivi sistemi ideologici erano strutturalmente incompatibili e
destinati a scontrarsi.
Sabbatucci: Che la contrapposizione fondamentale fosse quella
tra la democrazia occidentale e il comunismo, è un fatto indubbio
subito dopo la prima guerra mondiale. Tra il 1918 e il 1920 Stati
Uniti e Gran Bretagna intervengono nella guerra civile russa contro i
bolscevichi. E questo conflitto torna poi a manifestarsi dopo il 1945,
con l’inizio della guerra fredda.
Si potrebbe dire che questo è stato lo scontro principale del secolo,
se non ci fosse stato un “accidente” di grande importanza come l’insorgere
del fascismo e del nazismo, che ha spostato i termini del problema. E
li ha cambiati non casualmente, né perché gli americani fossero più
ostili all’ideologia hitleriana che al comunismo.
Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che Washington venne trascinata
nel conflitto dall’attacco giapponese a Pearl Harbor e che furono
Germania e Italia a dichiarare guerra agli Usa, non viceversa. C’è
anche questo da considerare, benché forse sia solo un dettaglio.
Comunque l’atteggiamento degli Stati Uniti non fu dettato da
pregiudiziali ideologiche.
Il fatto è che la prospettiva di un’Europa nazificata riproduceva,
elevate al quadrato, le condizioni che avevano già spinto gli
americani a intervenire in guerra nel 1917 contro la Germania
imperiale. Il pericolo era che si formasse un blocco continentale
europeo molto chiuso alla penetrazione delle idee e dei commerci, che
sarebbe stato agli antipodi della visione dominante nella classe
politica degli Usa, soprattutto quella appartenente al Partito
democratico.
Anche il comunismo naturalmente rappresentava un nemico per questa
concezione politica, ma era una minaccia più lontana e periferica.
Nel caso del nazismo erano in gioco le parti dell’Europa con cui gli
Stati Uniti avevano tradizionalmente rapporti più stretti. Si può
fare un parallelo con il comportamento della Gran Bretagna dopo la
Rivoluzione francese. In quegli anni Londra non combatte per l’ancient
régime contro gli ideali repubblicani o napoleonici, ma si oppone
a una potenza che tende a diventare egemone in Europa e a emarginare l’influenza
britannica. Lo stesso fanno gli Stati Uniti un secolo e mezzo dopo.
Nel momento in cui si realizza il piano di espansione hitleriano, la
Germania nazista diventa il principale nemico di Washington.
Altra cosa, ovviamente, è l’ipotesi di un’alleanza tra i due
totalitarismi, che è stata effettivamente in atto per quasi due anni,
dopo il patto Molotov - Ribbentrop, e ha comportato anche progetti di
spartizione del mondo. Era un’intesa innaturale, quasi certamente a
termine, ma questo vale in molti altri casi nella storia. Non era
naturale neppure l’alleanza della Francia repubblicana con la Russia
zarista tra il 1891 e il 1917. Insomma, qui siamo un po’ meno
lontani dalla realtà, perché un accordo tra Hitler e Stalin in una
certa fase è stato concluso, mentre un’intesa Hitler - Roosevelt
non è mai stata all’ordine del giorno.
Colarizi: Vorrei aggiungere solo una considerazione al discorso
di Sabbatucci . Nello scenario del dopo ‘43, è stato molto
dibattuto il fatto che nelle intenzioni di Winston Churchill lo sbarco
in Normandia non si doveva fare, perché bisognava piuttosto portare l’attacco
decisivo al Terzo Reich dal Sud.
La preoccupazione del premier britannico riguardava la necessità di
bloccare l’avanzata sovietica verso il cuore dell’Europa,
impedendo a Stalin di occupare territori troppo vasti. Ma gli
americani, proprio per il loro pragmatismo, s’interessavano ben poco
delle prospettive concernenti il dopoguerra e fecero prevalere
considerazioni di natura strettamente militare: per loro l’Europa,
in quella fase, era prima di tutto una scacchiera di operazioni
belliche.
Quanto poi alla storia controfattuale, possiamo chiederci che cosa
sarebbe avvenuto se gli Stati Uniti non fossero entrati in guerra. Non
si tratta di un’ipotesi completamente campata per aria, perché nel
1940 la rielezione di Roosevelt, che significava intervento nel
conflitto in corso, fu duramente contrastata dagli isolazionisti.
Un’altra grande potenza, che si trova effettivamente nella
condizione di dover scegliere tra Hitler e Stalin, è la Chiesa
cattolica. Il punto è piuttosto interessante. Che cosa era peggio per
il Vaticano, il nazismo o il comunismo? Su questo, Mussolini si gioca
una partita importante, quando invia un’armata italiana in Russia,
perché spera di avere la Chiesa al suo fianco nella crociata contro
il bolscevismo ateo. Sul versante opposto ci sono le pressioni degli
Stati Uniti perché la Santa Sede si schieri dalla parte degli
alleati.
Tranfaglia: L’ultimo intervento ci porta a riflettere sul
peso che all’epoca ebbero altri attori, in primo luogo la Chiesa
cattolica. A giudicare dall’azione di Pio XI e Pio XII, pur con le
differenze esistenti tra i due, è interessante notare che dal punto
di vista del Vaticano il comunismo è senza dubbio il nemico
principale, molto più minaccioso dell’ideologia hitleriana.
Se si analizza l’opera di Pio XII durante il secondo conflitto
mondiale, come ha fatto in modo molto convincente Giovanni Miccoli in
un libro uscito da poco, si vede come il nazionalsocialismo appare
agli occhi del Papa una rivoluzione molto meno pericolosa del
comunismo. La Chiesa in quel periodo conclude con tutti i regimi
fascisti dei concordati, che invece non si potevano fare con l’Urss,
indisponibile a simili intese.
Sabbatucci: Questo mi sembra il punto. Fascisti e nazisti
offrivano alla Santa Sede dei concordati, mentre il regime sovietico
perseguiva lo sradicamento della religione in quanto tale. Non lo
possiamo certo ignorare.
Tranfaglia: Sono d’accordo. Studiare il confronto tra i
fascismi e il comunismo dal punto di vista della Chiesa ci permette di
analizzare con maggiore efficacia le vicende dell’Europa tra le due
guerre mondiali e di cogliere le somiglianze e le differenze tra
quelle che oggi secondo me possiamo considerare due diverse forme di
regimi totalitari.
L’atteggiamento della Santa Sede è un osservatorio molto
interessante. Sul piano dei “se”, sarebbe stimolante porsi il
problema di che cosa sarebbe successo dal punto di vista dei
comportamenti del Vaticano se la Germania avesse vinto la guerra. Io
credo che nella politica nazionalsocialista, come si vede da alcuni
segnali durante il conflitto, ci fosse una tolleranza molto relativa
nei confronti delle Chiese cristiane, anche di quelle che non si
opponevano al regime. Quindi il trionfo di Hitler avrebbe comportato
un panorama di ulteriore difficoltà per la Santa Sede.
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