Nel mondo di Fatherland
Giancarlo Bosetti
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Questo
editoriale è apparso sul numero 64 di Reset (gennaio-febbraio)
Vi proponiamo un viaggio, nel mondo di Fatherland, il romanzo,
diventato anche film, di Robert Harris in cui si racconta di un
commissario di polizia tedesco e di una giornalista americana che
mettono le mani sullo scoop degli scoop, i documenti segretissimi che
dimostrano lo sterminio degli ebrei ad opera del regime nazista. L’idea
che ha fatto del libro uno straordinario successo è che la storia è
ambientata in una Berlino del 1974, dove al potere c’è Hitler, dove
Albert Speer ha potuto portare a compimento tutti i suoi grandiosi
progetti urbanistici, dove la Gestapo controlla ogni dettaglio della
vita di tutti, in Germania e nel Reich, un Impero, che va da Lisbona
fino agli Urali e al Bosforo. Intanto a Washington c’è un
presidente, Joseph Kennedy, che per i nazisti ha una certa
inclinazione. E l’Olocausto è tenuto nascosto, il più terribile e
pericoloso dei segreti.

Questo viaggio lo abbiamo fatto per cercare di rispondere alla
domanda: come sarebbero andate le cose se avessero vinto loro? Abbiamo
per altro avuto una conferma che la celebre tesi di Benedetto Croce
secondo la quale “la storia non si fa con i ‘se’ ” è
tecnicamente sbagliata. La storia si fa con i “se”, e come! E gli
storici professionisti lo fanno anche più dei narratori, come
vedrete. Per varie ragioni: per rispettare il ruolo del caso, che è
enorme, negli eventi; per ricostruire le alternative che stavano
davanti agli individui dell’epoca; per valutare quali sono i fatti
importanti che indicano un bivio dove la storia gira in un senso
invece che in un altro. Lì in quel momento, durante la battaglia di
Stalingrado… nei laboratori che preparavano le armi atomiche…
quando Mussolini sta per decidere l’entrata in guerra… le cose
potevano davvero andare diversamente. E l’alternativa virtuale ci
consente di capire meglio quella reale.
Ci ha spinto a scavare un po’ nella “controfattualità”, o se
preferite nella “ucronia” (materie su cui vi diamo tutte le
informazioni bibliografiche del caso) la discussione degli ultimi mesi
su fascismo e antifascismo, sulla Resistenza e sulla Repubblica di
Salò. Ancora più che qualche specifica opera recente, come le
memorie di Roberto Vivarelli (La fine di una stagione, Il
Mulino) oppure La Resistenza in convento (Einaudi) di Enzo
Forcella, letture in ogni caso consigliabili, è la campagna
giornalistica e politica che colpisce. Si tratta di iniziative assai
diverse tra loro, e che non intendo affatto confondere.
C’è, in primo luogo, una destra “postfascista” - in questo caso
l’attributo è pertinente - che non è alle prese con una sofferta
riflessione sul proprio passato, come ragionevolmente ci si potrebbe
aspettare, ma va alla ricerca, se non di una riabilitazione (del
fascismo), di un riequilibrio del giudizio storico al quale si chiede
di essere meno severo e più comprensivo con Mussolini e con quanti lo
seguirono, e di mostrare meno simpatia per i partigiani. L’obiettivo
dell’iniziativa censoria, peraltro quasi unanimemente biasimata, del
presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, qual era? “Correggere”
la faziosità dei libri di testo, dove “fazioso” è considerato un
punto di vista antifascista e ottenere come risultato una “equivalenza
morale” tra gli uni e gli altri, tra fascisti e antifascisti,
giovani di Salò e partigiani.

Equivalenza morale fascismo antifascismo?
E ci sono, in secondo luogo, iniziative sofisticate e colte, come
quelle di un’area intellettuale e giornalistica che comprende Paolo
Mieli, Giuliano Ferrara, Pierluigi Battista, Luigi Belardelli, la
quale persegue alla sua maniera, certo molto diversa, un “riequilibrio”
del giudizio storico. Qui l’obbiettivo non è la riabilitazione
della parte fascista, ma la diminuzione della parte antifascista, in
altri termini la demolizione di quelle versioni della nostra storia,
la cosiddetta “vulgata” antifascista, che sarebbe parte
costitutiva e legittimante di un blocco politico, egemone durante la
prima repubblica. Si tratterebbe di una battaglia per una verità
problematica e smitizzata contro la grande architettura retorica che
avrebbe sostenuto la classe dirigente politica del dopoguerra, e che
sarebbe stata alimentata dalla prevalente e più agguerrita cultura
della sinistra, specie dell’azionismo.
C’è qui molta materia su cui lavorare per mettere a fuoco i termini
di una contesa a volte confusa, che sembra comunque avere una posta
assai alta: qualcosa di equivalente alle chiavi che aprono uno scrigno
magico, quello che contiene le formule segrete che dettano lo spirito
del tempo. Intanto però qualcosa si può già dire, almeno in via di
tentativo: l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, una volta
sfrondati tutti i contorni retorici, messe a nudo tutte le debolezze
umane degli uni e degli altri, smantellate tutte le vulgate del mondo,
è comunque una idiozia da tutti i punti di vista, perché con il
fascismo si è storicamente distrutta la democrazia, con l’antifascismo
la si è messa o rimessa in piedi. L’esame controfattuale delle
conseguenze di una vittoria dell’Asse (o di Hitler insieme a
Mussolini ed ai ragazzi di Salò con lui) ci aiuta a capire quale fine
avremmo fatto noi italiani.
Già Pavone, Bocca, Bobbio e Sofri, con i loro interventi sulla Stampa
e su la Repubblica, hanno ricondotto ai suoi limiti, e
contraddizioni, il punto di vista secondo il quale l’impegno sincero
e il coraggio dei giovani fascisti debba essere considerato moralmente
uguale a quello dei loro nemici. A meno di sposare una visione “arditista”
- ha già osservato Adriano Sofri - è difficile accettare la tesi di
Vivarelli, secondo la quale “in Italia la vera divisione, almeno sul
piano morale, non sia tanto tra chi ha combattuto in buona fede da una
parte della barricata, e chi dall’altra; bensì tra coloro i quali,
una minoranza (…) hanno comunque messo a repentaglio la loro vita, e
coloro i quali, invece, la maggioranza, hanno preferito stare alla
finestra e vedere come andava a finire”. È una semplificazione che
riflette l’ideologia militarista dell’onore e che trascura una
considerazione banale per la quale non occorre neppure scomodare Weber
e l’etica della responsabilità: del coraggio si devono valutare
anche le conseguenze.

Destra militante sinistra cogitabonda
Una seconda risposta che questa discussione storico-politica suscita
in chi vi scrive è che se questa querelle implica, come sembra, un
discrimine destra-sinistra ci troviamo di fronte al principio di un
rovesciamento delle parti di lungo periodo: abbiamo una destra sempre
più militante e una sinistra sempre più disincantata, una destra
sempre più schierata e una sinistra sempre più neutrale. Il
movimento dello spirito della nostra epoca sembra portarci, da destra,
un senso più forte di appartenenza, passioni di parte, desiderio di
battaglia, e da sinistra, una grande distanza critica verso la propria
storia, una attitudine riflessiva, pragmatica, cogitabonda. Spesso la
sinistra, con i suoi intellettuali, approda alla maturità del dubbio
e del “non so”, mentre la destra è percorsa dai fremiti giovanili
(vorrei dire infantili, ma mi trattengo) del “so tutto io”.
Leggetevi il bellissimo saggio Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza
di Karl Popper, pubblicato da Dario Antiseri per Il Mulino. La
dottrina della “verità manifesta” e quella della “ignoranza
come cospirazione” sono analizzate e criticate con maestria come il
prodotto di una visione, da Descartes fino al marxismo, in base alla
quale la verità apparirebbe di per se stessa nella sua evidenza se i
suoi nemici non si dessero da fare per impedirne il trionfo. Il
militante fanatico è quello che crede che tutto il mondo sarebbe d’accordo
con lui se solo tutti fossero davvero liberi di decidere e non fossero
tenuti prigionieri e costretti a vedere le cose con le lenti loro
imposte da perfidi nemici dell’umanità, secondo una certa “vulgata”.
Questa concezione è secondo Popper una terribile fonte di errori e di
intolleranza, perché chi è convinto di possedere la verità è di
solito molto pericoloso.
Negli ultimi tempi i portatori di certezza e di illuminazioni di
sicuro non appartengono alla sinistra, gran territorio del dubbio.
Dall’altra parte facciamo attenzione, per favore, ad errori già
visti.
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