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Le inadempienze della Quercia



Antonio Ghirelli



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Questo articolo è apparso sul numero di gennaio-febbraio di Mondoperaio, la Rivista dei Socialisti Democratici Italiani diretta da Luciano Pellicani

L'invito a partecipare a un dibattito sulla crisi della sinistra mi sembra, a un tempo, lusinghiero e crudele. E' lusinghiero per il giornalista, e magari lo studioso di storia, che non ha mai coltivato ambizioni di politologo; è crudele per il vecchio militante, che si direbbe, quasi sollecitato, dato lo stato delle cose in campo socialista e post comunista, a sparare sulla Croce Rossa. Cercherò di farlo nell'ambito delle mie modeste possibilità senza colpire gli innocenti, tanto più che il dibattito si svolge in contemporanea con una battaglia elettorale in cui gli opposti poli fanno già abbastanza vittime per conto loro. L'illustre amico Cafagna ha già tracciato da par suo, nel numero che ha segnato la resurrezione di "MondOperaio" sotto la direzione di Luciano Pellicani, la dolorosa istoria della "Cosa Due". Non toccherò perciò quest'argomento se non marginalmente, partendo viceversa da due considerazioni (a mio avviso) fondamentali.

La prima è che la cosiddetta rivoluzione giudiziaria dei primi anni Novanta e la reazione dei partiti maggiormente bersagliati dall'accanimento terapeutico di talune Procure hanno totalmente falsato l'analisi del primo cinquantennio seguito alla Liberazione, tanto sul piano storico quanto su quello morale. Si è intentato il processo alla Prima Repubblica non soltanto, come è stato ripetuto fino alla noia dai diretti interessati, in una maniera settaria e unilaterale, che ha escluso ipocritamente tutta l'esperienza del Pci, ma ignorando le condizioni internazionali in cui avevano dovuto operare le principali forze politiche di un Paese come il nostro, collocato alla frontiera con l'impero sovietico, negli anni della guerra fredda.


Sarebbe bastato instaurare un paragone con la sorte toccata in quegli anni per un verso alla Grecia o all'Albania, e per un altro riguarda a tutte le "democrazie popolari" dell'Europa Orientale, con la sola eccezione della Jugoslavia, ma soltanto finché è rimasto in vita il maresciallo Tito. Nessuno di quei Paesi è riuscito, durante il cinquantennio in questione, a conservare un regime di democrazia, di libertà e di benessere economico, come ha fatto invece l'Italia grazie all'abilità politica, al senso di responsabilità e alla creatività, non solo dei grandi partiti popolari e di minoranze benemerite laiche, come i repubblicani e i radicali, i socialdemocratici e i liberali, nonché dei sindacati, ma anche e soprattutto degli italiani di ogni ceto sociale.

Non si regala niente a nessuno se si precisa che, ovviamente, il merito maggiore di questo autentico miracolo "all'italiana" spetta ai due movimenti principali: quello cattolico e quello socialcomunista, il primo per aver mantenuto aperta l'opzione democratica, seguendo anzi una linea di crescente apertura, dapprima verso i socialisti, poi verso il Pci; il secondo movimento per aver corretto, con una concreta ancorché incompleta e confusa prassi riformista una vocazione rivoluzionaria esclusivamente verbale. De Gasperi, Fanfani e Moro sono i tre nomi della apertura a sinistra di piazza del Gesù; Togliatti è il nome - almeno per quanto riguarda i comunisti - della doppiezza che ha provocato molti danni alla sinistra italiana, ma ci ha salvati dalla guerra civile. I socialisti, dopo il '56, hanno ritrovato da soli, grazie a Nenni e a Craxi, la via giusta, anche se sono rimasti molto lontani dal realismo e dall'efficienza degli altri grandi movimenti.

La contropartita negativa di quello che ho rievocato come un autentico miracolo "all'italiana" è stata indubbiamente pesante. In termini politici ed economici si è tradotta in un regime consociativo che ha ostacolato la maturazione democratica dei partiti, accentuato la subordinazione del sindacato al partito, e scandalosamente appesantito i conti pubblici fino a creare un indebitamento allucinante dello Stato. In termini etici, inibendo la situazione internazionale ogni reale alternativa di governi e di maggioranze parlamentari, ha innescato un processo graduale di corruzione delle strutture burocratiche nazionali e locali, quindi dei partiti. I costi della politica sono stati fronteggiati in modo diversamente articolato dalle poche forze in campo. La Democrazia cristiana ha attinto genericamente agli aiuti degli Stati Uniti (rispetto ai quali, però, manca ancora una documentazione esauriente); e, più specificatamente, dapprima ai finanziamenti della Confindustria e in un secondo tempo, a partire dal tandem Mattei-Fanfani, all'infiltrazione di boiardi "amici" nel sistema delle Partecipazioni statali, nonché a istituti, gruppi e imprenditori singoli.

Delle risorse di cui si è servito il Pci per alimentare il suo capillare apparato e il suo imponente patrimonio immobiliare, sappiamo quasi tutto, a cominciare dai dollari sovietici per finire con la simpatia di scaltri industriali, passando ovviamente per la feconda struttura della Lega delle Cooperative. Iscritti per ultimi al concorso dell'autonomia, i socialisti hanno dovuto arrangiarsi in modo più dilettantesco e approssimativo: dopo le iniziali elemosine dei compagni comunisti, l'ingresso nella stanza dei bottoni ha consentito qualche lusso, duramente pagato dopo il 1990, non a caso un anno dopo che il Pci aveva fatto votare in Parlamento la legge che cancellava tutto il suo non limpidissimo passato finanziario.

Può darsi che nell'ultimo decennio del secolo scorso le cattive abitudini siano degenerate in un malcostume diffuso e vergognoso, e, se così è stato, si può anche supporre che abbia avuto qualche influenza il collasso delle regioni più alte della lotta politica, dopo la nefanda uccisione di Moro e il fallimento non solo del compromesso storico Dc-Pci, ma anche del cosiddetto "eurocomunismo", patetico tentativo dell'on. Berlinguer di staccarsi dalla chiesa madre di Mosca senza rinnegare la religione del leninismo. Può darsi altresì che il tasso di corruzione e il volume dei finanziamenti illegali, ottenuti molto spesso attraverso un uso simoniaco degli appalti pubblici e delle pubbliche concessioni, siano cresciuti in misura esponenziale per l'avvento della cosiddetta "società postindustriale", che ha segnato in tutte le grandi democrazie, compresi gli Stati Uniti, un enorme incremento delle spese elettorali, con la differenza che gli americani hanno inventato un sistema trasparente di finanziamento che noi non siamo riusciti a creare.


Sta di fatto, e qui cade la seconda considerazione (a mio avviso) fondamentale per valutare la genesi dell'attuale, grave crisi della sinistra italiana, sta di fatto che la caduta del muro di Berlino, e cioè la conclusione della guerra fredda con l'irreversibile disfatta del sistema comunistico, è stata affrontata dai partiti italiani, dalle istituzioni parlamentari e dalla parte più politicizzata della magistratura, nel peggiore dei modi. Sprofondati ormai da dieci anni in una serrata lotta per il potere, democristiani e socialisti hanno salutato con legittima soddisfazione la loro storica vittoria, senza rendersi tuttavia conto della complessità dei problemi che l'evento poneva: ai democristiani, perché veniva a crollare senza rimedio la motivazione fondamentale della loro egemonia; ai socialisti, perché la tentazione di assorbire un Pci ormai in rotta era per essi assai più forte della consapevolezza di aver smarrito, nell'ultimo decennio, almeno una parte della loro tensione riformista.

Quanto ai comunisti, mentre la frettolosa conversione di Occhetto annunciava il pauroso declino del personale dirigente e il trionfalismo socialista cimentava l'orgoglio dei vecchi militanti, una diabolica provvidenza interveniva a salvarli dall'annientamento sotto le spoglie di Borrelli e di Antonio Di Pietro. L'entrismo nei ranghi della magistratura, scaltramente avviato negli anni Settanta, si dimostrava una straordinaria polizza assicurativa contro l'uragano di Tangentopoli, che si abbatteva invece con cieca violenza proprio sul vincitore della storica sfida, il sanguigno campione del socialismo liberale, il compagno Craxi.

Il suo discorso alla Camera con la chiamata di correo per i finanziamenti illegali ai partiti, caduto in un silenzio di tomba per la mediocrità e la codardia dell'assemblea, rappresenta innegabilmente l'ultimo momento di grandezza della Prima Repubblica. Da quel momento i due partiti di sinistra si sono avvitati in una sorta di caduta verticale, i socialisti frantumandosi in una diaspora lacerata tra il più che giustificato rancore nei confronti dei postcomunisti e la comprensibile tentazione di continuare a fare politica: i postcomunisti spaccandosi tra nostalgici e realisti, gli uni legati a un passato che non hanno mai osato rivisitare come se non fosse cosparso di errori, gli altri infiltrandosi (col beneplacito di Craxi) nell'Internazionale Socialista senza crederci affatto e votandosi ad una dura politica di potere, gestita per giunta da due o tre personaggi autoreferenti, senza alcun rispetto della democrazia interna di partito.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Forza Italia e Alleanza Nazionale sono fiorite in una nuova, prorompente primavera della destra, con buone probabilità di vincere le prossime elezioni politiche. La costellazione dei gruppi cattolici coltiva tutte le ipotesi politiche senza sceglierne alcuna, terrorizzata dall'egemonismo diessino e, sull'altro versante, dell'invadente popolarismo di Berlusconi. I socialisti e i laici sono confinati ai margini dei due poli con prospettive elettorali da prefisso telefonico. Ma sono soprattutto i Democratici di sinistra ad aver fallito tutti gli obiettivi concreti a cui pure avevano sacrificato molte esigenze ideali: le riforme istituzionali, il federalismo, la lotta contro la disoccupazione, la questione meridionale, una riduzione apprezzabile del debito pubblico e dell'immane pressione fiscale, la riforma delle pensioni. Il solo, grande successo del loro centrosinistra, l'ingresso in Europa, che porta la firma di Prodi e di Ciampi, non basta. L'obiettivo al quale punta il segretario del partito, Veltroni, è quello propugnato dai Democratici dell'Asinello: la dissoluzione dei Ds in una formazione riformista in cui dovrebbero confluire comunisti, socialisti, cattolici e verdi, galvanizzati dall'aggressività di Mastella e Di Pietro e privati per sempre di ogni pulsione laica.

Più nera della mezzanotte non può essere. Ma è mezzanotte. E per vedere l'alba non ci resta che sperare nell'Europa e nei giovani.

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