Ma quale transizione?
Luciano Cafagna
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A questo editoriale, apparso su Mondoperaio, la Rivista dei Socialisti
Democratici Italiani diretta da Luciano Pellicani, fanno riferimento
gli articoli di questo dossier.
Gli anni Novanta, per la vita politica italiana, non termineranno con
la fine del 2000. Termineranno con le elezioni della primavera 2001. I
decenni dei nostri ragionamenti sono sempre convenzionali e
approssimativi. A volte lo sono per eccesso, a volte per difetto . Un
po’ come avviene per i “secoli” degli storici, che parlano di
secoli “brevi” (come il Novecento), o lunghi, come l’Ottocento.
Così gli anni Ottanta, in fondo, terminarono con la fine del
comunismo, nel 1989. E da allora è cominciata, per noi italiani, la
vicenda che, in qualche modo, dovrebbe andare a concludersi o, meglio,
a definirsi (perché non c’è mai nulla di conclusivo nella storia)
entro la primavera prossima. E che molti hanno considerato una “transizione”.
“Transizione” verso che cosa? Se vincerà la coalizione di
centrosinistra, beh, potremo dire che, in qualche modo, l’Italia si
sarà assestata come democrazia fondamentalmente “socialdemocratica”,
di tipo medio europeo, digerendo finalmente una difficile e anomala
storia, in cui la socialdemocrazia era stritolata fra democristiani e
comunisti, anomalia che ancora nessun manuale è in grado di spiegare
persuasivamente e comprensivamente agli studenti delle nostre scuole
(e temo proprio che le polemiche recenti poco aiutino a farci arrivare
a questo).

Ritengo - come ho detto già altre volte - che le democrazie europee
contemporanee possano definirsi “socialdemocratiche” anche se non
sempre sono state governate da partiti socialdemocratici. E ciò
perché il tema dello “Stato sociale” è stato, in esse, il
fondamentale punto di gravitazione della vita politica, che ha
condizionato anche sia le emulazioni (“economia sociale di mercato”)
sia le correzioni “liberiste” della destra: in modi diversi in
quasi tutti i Paesi europei. La destra (centrodestra) europea ha
generalmente giocato di rimessa, nella storia dell’ultimo mezzo
secolo europeo. Ottenendo maggior consenso quando si trattava di
reagire a collaterali effetti perversi economico-finanziari prodotti
dalle politiche dello Stato sociale, o quando prevalevano, sui
problemi del progresso sociale interno, emergenze economiche o
diplomatiche di politica internazionale. Può darsi che questo quadro
stia cambiando, anche in Europa, ma ancora non lo sappiamo bene.
Ma se, invece, dovesse vincere la coalizione di centrodestra? Di che
“transizione” si dovrebbe parlare, allora? Si potrebbe parlare di
“transizione” nello stesso senso che ho detto prima? O si
tratterebbe di tutt’altra cosa? Qualcuno potrà pensare che sia
inutile inoltrarsi in avventurose congetture sul significato di quel
che non è ancora accaduto. E che ci auguriamo anche che non accada.
Ma forse non è proprio inutile. Perché , e non è proprio il caso di
nasconderselo, è diffusa opinione che questa eventualità, purtroppo,
non sia affatto improbabile. E, se non è improbabile, lo è anche
perché esiste, a sinistra e al centro, e cresce - esiste e cresce -
un diffuso disorientamento su quel che è accaduto negli anni recenti,
su quel che sta accadendo e su quel che potrebbe accadere. E che
induce a non votare, o a non contrastare il voto sbagliato di altri.
Forse si può ancora fare qualcosa per ridurre questo disorientamento.
Riprendiamo dunque il nostro ragionamento. Assumendo a modello il
concetto, che ho prima espresso, di una dominanza del problema dello
Stato sociale nelle democrazie europee contemporanee, come si dovrebbe
interpretare una eventuale prossima vittoria del centrodestra in
Italia? Come una persuasione dell’elettorato che ci si trovi di
fronte a una necessità di correzione di politiche economiche e
finanziarie imposta da effetti collaterali negativi delle precedenti
politiche sociali? O addirittura come percezione, sempre da parte
della maggioranza dell’elettorato, di una fine di questa dominanza
del problema stesso dello Stato sociale, e dell’aprirsi di un nuovo
ciclo dominato, per esempio, dal mutamento di quadro imposto dalla “globalizzazione”
e dalla new economy? Ovvero ancora come la sensazione dell’affermarsi
di una qualche nuova emergenza di prima grandezza, quale potrebbe
essere data dai problemi posti alla sicurezza dal nuovo scenario
sociale determinato dalla massiccia immigrazione extracomunitaria in
corso?
Ritengo che tutti e tre questi elementi, con un peso crescente via via
che si passa dal primo al terzo, siano oggi presenti nelle impressioni
e nelle convinzioni della maggioranza degli italiani. Ma bisogna
chiedersi perché tali impressioni e convinzioni debbano indurre gli
italiani a volgersi a destra. In fondo, l’opera di correzione di
politiche finanziarie ed economiche, imposta da effetti collaterali
negativi di precedenti politiche sociali, anche qui da noi, è stata
da tempo avviata, e la sinistra non l’ha contrastata e, anzi, a
partire da un certo momento, personalità che godevano del suo
appoggio, l’hanno attivamente e abilmente perseguita. Né - per
venire al secondo punto che ho indicato - si può dire che il
mutamento dello scenario economico-sociale che sembra stia avviandosi
con la new economy, nel mondo e anche da noi, non sia presente ai
politici del centrosinistra: osserverei, per esempio, che non vi è, a
destra, nessuno che ne stia trattando con l’attenzione e l’acume
del presidente del consiglio del centrosinistra, Giuliano Amato, il
quale indica chiaramente le vie da battere, che sono quelle di un
potenziamento straordinario della formazione e dell’aggiornamento,
di un trasferimento, in questa area, delle stesse priorità sociali
(quel che è stato chiamato il welfare della formazione).
Lo stesso D’Alema, e altri esponenti dei Ds, in più occasioni,
hanno mostrato di rendersene bene conto, anche se permangono, in
quelle file, incertezze e titubanze da “sinistra d’altri tempi”.
E allora? Forse il punto sul quale l’opinione degli italiani inclina
di più a fidarsi maggiormente della destra è quello della sicurezza
pubblica, del governo di una società a forte immigrazione, che si è
fatto più difficile? La sinistra, su questi problemi, appare
inaffidabile? E forse appare inaffidabile anche l’area cattolica
umanitaria e solidaristica che è più incline a orientamenti di
centrosinistra? E’ probabile che sia così.
E’ probabile che sia così, ma tutto questo non basterebbe - da solo
- a spiegare una eventuale scelta a destra dell’elettorato italiano
nelle prossime elezioni politiche. (Spiega certamente l’orientamento,
tanto per capirsi, del 40-45 per cento degli elettori, non di un -
marginale e decisivo - 5-10 per cento). In nessuno degli elementi che
abbiamo accennato, se si vuole essere onesti, vi sono state
manchevolezze del centrosinistra che l’elettorato incerto possa aver
percepito come veramente gravi. Vi è stata, anzi, e vi è ancora
certamente, la persuasione di una parte significativa dell’elettorato
di centro, che la sinistra abbia una capacità di far fronte a
problemi difficili e impopolari assicurandosi, quando si è costretti
a far questo, un consenso sociale di cui la destra non sarebbe capace.
Ma vi è evidentemente qualcosa d’altro. Qualcosa che forse non ha
funzionato bene nell’affermare e nel consolidare questa immagine.
Proviamo a vedere di cosa potrebbe trattarsi.
La mia opinione è che si tratti di qualcosa che riguarda il rapporto
dei cittadini con la politica. Questo rapporto si è molto logorato.
E, per ragioni che dobbiamo cercare di capire, è l’area di
centrosinistra a farne oggi soprattutto le spese. Perché avviene
questo? Perché è a sinistra e al centrosinistra che si è sempre
valorizzata la politica come terreno di soluzione di problemi che la
società civile, da sola, non riuscirebbe a dipanare, anche se sorgono
dalla crescita stessa di questa società civile. La società civile,
però, nel nostro Paese, è molto diversificata e frastagliata,
territorialmente e settorialmente, difetta di omogeneità economica,
sociale e culturale, e ha bisogno, quindi, di molte mediazioni, quelle
che, appunto, sono, o dovrebbero essere, compito della politica.
Il ragionamento che si fa a destra, invece, è di segno opposto. Ed è
un ragionamento che ha preso le mosse su larga scala, negli anni
Ottanta, in modo un po’ becero, con l’agitazione leghista.
Ragionamento che è stato poi rilanciato in grande stile, e con ben
altre capacità comunicative, da Silvio Berlusconi. La politica - si
dice a destra - ha esagerato, è stata pervasiva e invasiva. Da un
lato, dicendo di operare a fin di bene, ha finito col mettere i
bastoni fra le ruote alla società civile, intralciandone le capacità
di crescita, e ha fatto questo con il suo fisco esoso, con interventi
di spesa sbagliati, con la difesa corporativa e oltranzista di
interessi sociali che meglio si sarebbero promossi con il dinamismo
economico privato.

Dall’altro lato, poi - si dice sempre a destra - la politica si è
creata una propria rete di interessi affaristici, clientelari,
burocratici, che si sovrappone a quelli della società produttiva e
che taglieggia e asfissia questa società che produce. In terzo luogo
- si dice - guardateli da vicino: sono una banda di caciaroni, non
fanno che discutere a vanvera, in modo sempre più incomprensibile per
la gente comune, a litigare - mentre noi lavoriamo - su simboli
misteriosi, come l’alternativa fra quercia e ulivo, asinelli e
margherite, cosa due e cosa tre, e roba simile, e si dividono, si
dividono…
Possiamo dire che a sinistra si sia saputo contrastare efficamente
questa politica della “antipolitica” (perché sempre di politica -
si badi bene - continua a trattarsi)? Io sarei propenso a rispondere
nettamente: no, non lo si è saputo fare. Anzi, si è fatto molto per
alimentarla e nutrirla, quella “antipolitica”. A cominciare dagli
inizi. Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino e con il crollo del
comunismo - si dice - erano finite le ideologie. Sì, questo è vero
per le ideologie totalitarie e a rigida contrapposizione. Ma non per
le convinzioni ideali, ispiratrici di azione positiva e benefica, come
il socialismo democratico, che avevano limato con il senso pratico gli
estremismi di principio. In Italia, invece, si è voluto trascinare
nella negazione con la parola “comunismo”, anche la parola “socialismo”,
che avrebbe dovuto essere il giusto approdo dei naufraghi onesti del
comunismo.
Ma per creare una nuova sinistra post-’89 non si può partire dall’aggressione
selvaggia al socialismo riformista - ovvio e naturale punto di
partenza di una nuova sinistra post-’89 - come invece si è fatto.
Quella parte dei comunisti che “teneva il mariuolo il corpo”
trasferiva questo complesso in un antisocialismo viscerale (a Napoli
si dice che uno “tiene il mariuolo in corpo”, cioè -
letteralmente - un malfattore dentro di sé, quando, senza volerlo
ammettere, sa benissimo di essere in colpa per qualcosa). La pretesa
di costruire la nuova sinistra distruggendo i riformisti (fuori e
anche dentro il Pci, si badi) e rubandone la politica - come, di
fronte alle “dure repliche della storia”, cercarono di fare quegli
ex “figiciotti”, ai quali Natta aveva ingenuamente consegnato un
partito più che mai bisognoso, invece, di mani navigate ed esperte -
non stava in piedi. Era imparaticcia tattica stalinista, in una
situazione non più stalinista, ma molto diversa, in cui non puoi far
fare ai tuoi seguaci tutto quel che ti pare.
La differenza sta in questo: se non puoi imporre il tuo volere con
ricatti di lager o - non avendo potere e lager - con minaccce di
espulsione, di emarginazione dalla via italiana al socialismo, e così
via, quella tattica stalinista non funziona. Come minimo, se insisti,
quelli che non capiscono ti dicono a chiare lettere che la via d’uscita
ce l’hanno: siccome c’è la democrazia, se ne possono andare con
Bertinotti. Non farà la rivoluzione, ma almeno borbotta “cose di
sinistra” all’antica. Tanto - ti dicono - se la via italiana al
socialismo non c’è più, danno non posso farne, e invece lì, l’anima,
almeno, la salvo. E’, in fondo, questa, una forma di “antipolitica”
di sinistra.
Non sarebbe certamente onesto dire che - dopo l’89 - gli ex
comunisti siano rimasti “in mezzo al guado”. Ma la puzza addosso
che lasciava loro l’antisocialismo, di cui non si sono mai liberati;
il riluttare a un aperto dibattito che facesse i conti con il passato;
la ostentata quarantena assegnata all’ala “migliorista”, che si
era schiettamente dichiarata in passato su posizioni anticonformiste e
filosocialiste; una persistente prassi di apparato che continua a
distinguere le cerchie più interne dei “nostri” dagli altri e
precostituisce profili di carriera: tutte queste cose, e altre, sia
pure nell’approdo a nuove spiagge, hanno lasciato sulla pelle forti
tracce di distinzione, diciamo di auto-discriminazione…
E vengo a un secondo dubbio, relativo alla scarsa efficacia con cui la
sinistra è venuta presentando se stessa nel corso della “transizione”.
Credo sia possibile azzardare oggi l’ipotesi che, date le condizioni
che ho appena accennato, l’abbandono della proporzionale - questo
caposaldo della idea nuovista di una “transizione” - non abbia
giovato al centrosinistra. Forse questo Paese non è ancora maturo per
un vero bipolarismo, o, se lo è, lo è solo a destra. Sia il vecchio
“popolo di sinistra” che il mondo progressista in genere
(sconquassato, questo, dal picconaggio giudiziario contro i
socialisti) hanno vissuto in realtà l’adozione del principio
maggioritario come un tentativo di coazione, un tentativo di forzare
un voto unitario a sinistra, concentrandolo, senza mediazioni, su un
nucleo forte dalle pretese egemoniche. Il non potere esprimere fino in
fondo la “sfumatura” della propria posizione appare al cittadino,
in queste circostanze, come una privazione.
La proporzionale rimetterebbe in campo mediazioni “eccessive” di
piccoli partiti? Non è certo un bene, ma è un male minore se - per
dirla con Albert Hirschman - il maggioritario, incapace nelle
circostanze date di incanalare voice, provoca exit. In parole più
povere, sono troppi gli elettori che, se non possono votare dando voce
alle proprie sfumature, se ne escono dalla scena rinunciando a votare,
o votando Bertinotti. E Bertinotti stesso è condizionato da questa
situazione, per raccogliere i suoi voti, a fornire garanzie di
intransigente distanza, a produrre, in definitiva, solo astensioni
mascherate, manomorta politica (mentre, in altri Paesi, ali estreme
dello schieramento di sinistra non fanno mancare il loro peso, pur
nella diversità della posizione, allo schieramento riformista).
Il gruppo dirigente che ha pilotato l’“attraversamento del guado”
della grande forza ex comunista ha tentato, in questo decennio che
volge al termine, di condurre questa operazione con tecnica “egemonica”.
L’idea di egemonia, si badi, ha due risvolti: uno che guarda al lato
della forza (nel nostro tempo la forza è concetto complesso: aut-aut,
ricatto, danaro, “posti”, carriere, abbindolamento, ecc.); e uno
che guarda al consenso, il quale si ottiene, invece, con il successo,
la credibilità, l’autorità, il prestigio, l’esperienza
riconosciuta, la moralità, ecc. Vediamo allora come è stata usata la
tecnica egemonica dal gruppo dirigente ex comunista. Il primo
tentativo è stato l’illusione occhettiana della “gioiosa macchina
di guerra”: gli ex comunisti, unica forza politica sopravvissuta
alla crisi, e sopravvissuti perché moralmente superiori, non travolti
dalla operazione politico-giudiziaria di “mani pulite”, non
avrebbero potuto non essere la guida della “nuova” repubblica.
Fallì perché la maggioranza degli elettori interpretò in senso non
moralistico ma antipolitico il messaggio della operazione “mani
pulite” e votò per Berlusconi. Era stata usata la “forza”
(quella della operazione giudiziaria, fosse questa, o no, ispirata o
appoggiata dagli ex comunisti), ed era stato tentato, con insuccesso,
l’appello del consenso (superiorità morale degli ex comunisti).
Il secondo tentativo fu compiuto da Massimo D’Alema - potremmo
chiamarlo il “primo D’Alema” - che presentò il gruppo dirigente
di cui era leader come capace di sostenere in modo decisivo l’emergere
di una classe dirigente competente e selezionata (i Prodi, i Ciampi, i
Dini, gli Amato) e in grado di restaurare il buongoverno nel Paese;
capace di costruire, insieme alla minoranza di opposizione, le regole
della Seconda Repubblica (tentativo della Bicamerale); capace di
costruire un partito nuovo di inequivoco orientamento
socialdemocratico (la cosa 2). L’elemento del consenso, in questa
impostazione, era vistosamente prevalente, e conteneva ottime
intuizioni politiche. Però la Bicamerale fallì, probabilmente per
mancanza di elementi di “forza” capaci di sostenerla, e lasciò,
però, come pesante eredità - forse addirittura un “boomerang” -
l’avvio di un processo di devoluzione “federalista” di difficile
controllabilità, per il quale nessuno sarà mai grato né a D’Alema,
né ai Ds: meno che mai gli aggressivi governatori della destra eletti
nelle prime elezioni regionali di indirizzo “federalista”. La Cosa
2 pure fallì, perché ancorata alle priorità di apparato, priva di
una grande “predicazione” alla base e in periferia,
definitivamente affossata, alla fine, dalla candidatura offerta a Di
Pietro nel collegio del Mugello (contraddizione clamorosa nella
ricerca del consenso). L’esperimento Prodi, poi, fu interrotto
quando stava forse per produrre intorno a questo leader una forza
politica indipendente e, magari, temibile come concorrente alla
egemonia.
Il terzo tentativo è il “secondo D’Alema”, quello che pose,
invece, un po’ brutalmente, la propria candidatura alla guida del
governo, eliminando Prodi, e manovrando spregiudicatamente
trasferimenti di area di parlamentari della minoranza. Il secondo D’Alema
si adoprò anche a costruire intorno a sé simpatie di gruppi di
potere economico, seguendo modelli ben noti. Ebbe un successo di
consenso mostrando inizialmente buone capacità di gestione in
politica estera. Fallì però, per mancanza di coerenza, come pilota
di una nuova politica sociale, decisivo terreno sul quale aveva invece
suscitato forti attese (si pensi all’episodio del documento
sottoscritto con Blair e poi sconfessato a seguito del veto di Salvi,
ministro del Lavoro, da lui stesso scelto per incoerente tatticismo).
Il terzo tentativo, come è ben noto, fallì con il cattivo esito
delle elezioni regionali della primavera 2000. Queste provocarono le
dimissioni di D’Alema. Che furono seguite dalla scelta dalemiana -
un ritorno del “primo D’Alema”? - di Giuliano Amato come
successore nella guida del governo.
Il quarto tentativo è quello post-dalemiano guidato da Veltroni.
Dominante è la indicazione di Francesco Rutelli come candidato
premier del centrosinistra per la prossima legislatura, in caso di
vittoria del centrosinistra. Sconfessione di Amato (ancora una volta
un rigurgito antisocialista?)? Fiducia, magari un po’ ingenua, in
eccezionali qualità carismatiche o massmediatiche del sindaco di
Roma? Volontà di esprimere - nella scelta di un esponente ulivista -
una implicita dichiarazione di rinuncia alla egemonia? Ma, quasi
concomitante è l’affascinante proposta di puntare su Amato come
futuro grande federatore di tutta la sinistra socialista e forse
laica: la Epinay - luogo di Francia che vide il successo del grande
federatore Mitterrand - italiana (ma Mitterrand non fu allora anche, e
forse soprattutto, il candidato di tutta la sinistra alla presidenza
della Repubblica?). Vi è stata poi la tentazione del segretario del
partito Ds di cambiare lavoro e trasferirsi sulla poltrona di sindaco
della Capitale. E la proposta di chiamare D’Alema alla presidenza
del partito. Sappiamo che tutto questo sta destando grande sconcerto
fra militanti e simpatizzanti Ds.
E’ difficile, onestamente, riuscire a vedere in tutto questo una
efficace rivendicazione della validità delle ragioni della politica
contro l’antipolitica berlusconiana. Le ultime battute, soprattutto,
sono un po’scoraggianti. Ma chiediamoci anche se le valide
intuizioni, e i successi, dove ci furono, del “primo D’Alema”
non siano state un po’ annegate da una immagine di manovrismo e di
tatticismo, avvalorata dalle cadute di costanza e di coerenza. Eppure
le “ragioni della politica” da proporre agli italiani per un voto
di centrosinistra ci sono. Ma quando cominceremo a parlare dei
problemi reali, delle cose fatte e di quelle da fare, e di chi ha le
competenze per farle e può ottenere il consenso per farle e chi no?
Il “teatrino” può essere appassionante per i patiti, come me e
voi che mi leggete, ma ai più interessa sempre meno. Se non si riesce
a spostare l’attenzione sulle cose, la speranza di far desistere gli
elettori dalla tentazione della “antipolitica” è pressoché
nulla.
In sintesi: l’elemento fondamentale di una politica di sinistra è
la sua visione sociale. Pare ovvio che la più solida motivazione e
giustificazione di una “sinistra” stia qui. Soggettivamente,
perché questo è il tradizionale mondo dei sentimenti e delle
passioni della sinistra. Oggettivamente, perché se non si governano i
grandi problemi sociali, in un paese moderno, non si governa il Paese,
e questo diventa dunque il problema politico maggiore. Più serio è
il peso dei problemi sociali più il ruolo di una sinistra nel governo
di un paese diviene importante, e, per converso, più difficile può
essere, per una destra, governare democraticamente. Questo mi pare il
modo più realistico, con i piedi per terra, di affrontare la
questione della scelta sinistra/destra. Così la sinistra dovrebbe
proporla.
Ritengo che i tre maggiori problemi sociali del futuro siano: a)
quello della integrazione sociale e culturale delle masse immigrate e
del controllo dei flussi di ingresso, che è anche la base del
problema della sicurezza, se non si vuole essere ipocriti; b) quello
di un welfare State della formazione e della istruzione, che riguarda
soprattutto le prospettive delle generazioni giovani; c) quello della
popolazione in corso di invecchiamento, che è solo un aspetto, ma
grosso, del più ampio problema dell’invecchiamento della
popolazione.
C’è da mettersi le mani nei capelli. E ci sono da fare, in materia,
discorsi “di sinistra” da intontire Nanni Moretti. Certo, tutt’altra
cosa da quelli, che oggi appaiono preistorici, che si facevano quando
Nanni Moretti era giovane. Con l’orizzonte di problemi sociali che
abbiamo non è pensabile che la sinistra possa essere esclusa dal
sistema di governo del paese, e che da una esclusione della sinistra
il paese possa trarre beneficio. Nei prossimi mesi è di questo che ci
dovremo occupare, con concretezza e realismo, e cercare, se ci
riusciamo, di attirare l’attenzione degli italiani.
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