I compiti del riformismo
Gennaro Acquaviva
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Questo articolo è apparso sul numero di gennaio-febbraio di
Mondoperaio, la Rivista dei Socialisti Democratici Italiani diretta da
Luciano Pellicani
Un antico proverbio arabo dice: “Gli uomini sono più figli del
loro tempo che dei loro padri”. Ma la sinistra è ancora in
sintonia con i tempi? Sembra proprio di no. Sentiamo ripetere che
governa bene, che ha fatto e fa ottimi provvedimenti. Ma allora
perché perde consensi ogni giorno che passa? La risposta è quasi
ovvia: perché non si è rinnovata, perché il suo revisionismo si è
svolto in superficie, tra gli addetti ai lavori, senza convinzione,
con furberia e senza guardare fuori dei confini partitici; perché i
suoi intellettuali sono rimasti annichiliti, esterrefatti, incapaci di
riprendere in mano i libri; perché è rimasta stretta alla
non-cultura del postcomunismo, perchè dalla grande storia del
movimento operaio non ha saputo trarre la forza morale e mentale per
rinnovarsi; perché è rimasta ferma a una tradizione e a un costume
che non le consentono di indicare prospettive di progresso all’attuale
società italiana: e senza prospettive di miglioramento non si va
avanti né si vince.

Destra e sinistra sono parole nate politicamente dai sedili occupati,
rispettivamente, da progressisti e conservatori nei primi parlamenti.
Destra e sinistra sono dunque dei simboli e quando si tratta di
simboli occorre vedere che cosa rappresentano, che cosa c’è dietro.
Dietro al simbolo “sinistra” c’era una volta il progresso e
dietro il simbolo “destra” la conservazione.
Ma oggi è ancora così? La risposta è no. La sinistra postcomunista
(perchè ormai di questo si tratta) è riuscita e riesce solo a
formulare programmi di ordinaria amministrazione (quando va bene), ma
dietro non c’è un’idea nuova rispetto all’esistente; e questo
è conservazione, perchè la società cambia e cambia velocemente. La
destra mostra invece possibilità di innovazione: nell’ordinamento
dello Stato, nell’economia, nella valorizzazione dell’individuo.
Se poi ne sarà capace è tutto da dimostrare: ma un programma
innovativo c’è. Ma perché la sinistra ha perduto la sua funzione
progressista? In sintesi, si può dire che l’ha perduta perché è
rimasta ferma alla valutazione del sociale e non dell’individuo,
dello Stato e non del cittadino: e, peggio ancora, è rimasta ferma
nella difesa di una scala sociale che trova sempre meno riscontri
nella realtà del Paese; che premia le pigrizia e non i meriti, e
dunque è sempre più ingiusta; e ferma nella difesa di uno Stato
sempre più costoso, inefficiente e anch’esso orientato socialmente
e amministrativamente in modo errato.
La sinistra continua a usare metodi di governo e di lotta politica
validi per società arretrate, afflitte da povertà e da grandi
dislivelli culturali, metodi non più validi per una società
prevalentemente agiata, con forti risorse familiari, con un elevato
livello di istruzione, che conosce i meccanismi dell’economia e
dello Stato e li sa giudicare anche ai livelli più modesti. In questa
società, in una società moderna, la questione essenziale, il
problema numero uno, è la libertà di movimento: nella scelta del
modello di vita, nell’uso delle proprie risorse, negli accessi a
qualsiasi tipo di attività, dalla scuola al lavoro, dalla bottega e
dal negozio al tempo libero. Tutte attività oggi limitate e soffocate
da leggi, regolamenti, pratiche burocratiche, fiscalismi, divieti,
inibizioni, che non hanno più ragione di essere e penalizzano lo
sviluppo individuale, economico, sociale, culturale. Ma può la
non-cultura postcomunista capire queste cose?

In fondo a ogni uomo dell’attuale sinistra c’è rimasta la
Repubblica di Platone, lo Stato retto dai governi illuminati, da
uomini depositari di saggezza e di verità. Di qui l’accentramento,
il dirigismo, l’abbondanza della legislazione, il cumulo delle
disposizioni, la burocrazia (su cui è affondata tutta l’Europa dell’Est),
la tassazione robusta perché senza soldi non si comanda, né si
dirige niente. E soprattutto la vecchia questione dell’egemonia, il
disprezzo degli altri, l’irrisolta questione di considerarsi sempre
i migliori, che oggi è soltanto ridicola supponenza, ma che resiste
anche alla prova dei fatti.
Un esempio. E’ sacrosanto che lo Stato obblighi i cittadini a
destinare alla loro vecchiaia una parte dei redditi percepiti nell’età
lavorativa. Lo Stato non può correre il rischio di avere sulle spalle
una massa di anziani senza reddito, incapaci di provvedere a se
stessi. Ma perché erogare pensioni da 50, 60, 70 milioni al mese
anche se in corrispondenza di robusti versamenti? Perché lo Stato non
si limita ad assicurare pensioni adeguate alle necessità di un buon
vivere, accontentandosi di prelievi ugualmente modesti e lasciando
liberi i cittadini di provvedere autonomamente, secondo la propria
necessità, a eventuali integrazioni? Perché frenare lo sviluppo con
prelievi che dimezzano i redditi e raddoppiano il costo del lavoro?
Ma questo è solo un esempio. Il torchio fiscale (che può essere
giustificato solo dai riequilibri sociali e regionali) ha raggiunto
livelli da soffocare investimenti e sviluppo, ha debordato in modo
così evidente e sproporzionato da creare la scena tragicomica della
restituzione, con tutto quello che ha preceduto e seguito la
fissazione dei criteri di restituzione. Ci sono stati esempi di
restituzione del gettito fiscale, ma sempre fatta da nuovi governi,
che hanno modificato i criteri della politica economica. E’
possibile che non si colga l’assurdo di una linea di politica
fiscale alla fra’ Diavolo, che prima prende tutto e poi restituisce
quanto gli fa comodo e a chi gli pare? Non è solo elettoralismo, è
un imbroglio.
Il complesso delle ingiustizie raggiunte con l’iperlegislazione e l’iperregolamentazione
si attorciglia come un serpente attorno al corpo dei governanti di
sinistra, incapaci di districarsene pur quando lo vogliano. Le
cronache di ogni giorno ci dicono, scandalo dopo scandalo, che tutto
ciò che in qualche modo fa capo allo Stato si sta trasformando in una
massa di imbrogli a getto continuo che coinvolgono automobilisti e
carrozzieri, assicurazioni, malati, ospedali, medici, avvocati,
bancari, cinematografari, funzionari, agenti, manager, burocrati e
mezza società italiana.
Insomma, l’attuale stato della cultura postcomunista non sta bene,
non solo per quel poco che riesce a produrre, ma nemmeno per quel che
vorrebbe e potrebbe produrre. E’ fuori dal tempo, non si è voluta
rinnovare, e paga lo scotto di un distacco dalla società civile che
non si vede come colmare senza radicali ripensamenti.
Oggi possiamo toccare con mano i guasti della distruzione per via
giudiziaria del socialismo liberale e democratico, di cui si pensava
totalmente di poter occupare lo spazio senza essere nè socialisti né
liberali; l’errore della “bolognina”, dove Occhetto portò il
Pci fuori della tradizione della sinistra italiana pur di non
dichiararsi socialista (e Tangentopoli non era nemmeno all’orizzonte);
l’errore di aver fatto della “Cosa 2” una parata di facciata,
finita con la cooptazione di qualche piccola vanità personale e il
rifiuto di tutti gli altri.

Questa rivista ha pubblicato, nel suo ultimo numero, i due testi
preparati da Luciano Cafagna per la “Cosa 2”: il primo per dar
vita ai lavori, il secondo per spiegare l’insoddisfazione ed il
conseguente rifiuto dei socialisti. Rileggendo quei testi, così
lucidi e appassionati, mi è venuto di chiedermi perchè mai i Ds non
hanno capito, perché non hanno capito che quei concetti, quelle
osservazioni, quei suggerimenti, riguardavano più loro che non la
residua pattuglia socialista; loro, che erano riusciti a conservare il
partito e l’elettorato, ed erano quindi rimasti i protagonisti della
sinistra. Si indicava ai Ds non la strada del salvataggio dei resti
del distrutto Psi, ma l’unica strada per loro percorribile se
volevano restare in contatto con la società italiana e aspirare a
governarla.
La risposta, purtroppo, è quella di sempre: il comunismo era, ed è,
una religione e dalle religioni non si esce senza un travaglio
profondo, doloroso, sincero. I comunisti sono morti e hanno fatto
fortuna criticando e disprezzando i socialisti per un tempo che ormai
si avvicina agli ottant’anni: è certamente per loro un passaggio
amaro quello che hanno di fronte ma è altrettanto certo che, o lo
riusciranno a compiere, o sono destinati a diventare una forza
residuale. O conosceranno l’umiltà e il dubbio del pensiero laico,
o conteranno sempre di meno.
Ma c’è un compito anche per il riformismo socialista, che non può
più attardarsi a cercare di adattare la propria progettualità alle
necessità dei Ds ma deve riprendere con vigore le proprie libere
analisi di una società in pieno cambiamento. Il riformismo deve
ripensare se stesso, deve abbandonare i sacri testi e studiare la
società di oggi, quella vera, non quella di comodo immaginata. E’
inutile fare commissioni di studio, sentenziare che in Italia ci sono
sette milioni di poveri e trovare in questo il pretesto per continuare
sulla strada del riequilibrio sociale con i vecchi metodi e le vecchie
politiche redistributive.
L’Italia non conosce più né fame né freddo, anche cani e gatti
sono grassi. C’è una fascia sociale (tre-quattrocentomila
individui) spesso più poveri di capacità che di soldi, bisognosi di
assistenza: questo è un dovere dello Stato. Ma per tutto il resto,
per migliorare i redditi del lavoro e il tenore di vita delle
famiglie, occorrono non politiche redistributive ma politiche di
sviluppo, anche spregiudicate. Il sacrificio della disoccupazione
imposto ai giovani grida vendetta, pesa come un macigno sul
corporativismo dei sindacati, cui si continua tuttavia a dare un ruolo
preminente.
E bisogna ripensare l’individuo, accrescerne le possibilità,
aiutarlo e rispettarlo anche quando è solo, quando non è intruppato,
quando non fa massa. E ripensare al principio di solidarietà, che non
può essere né carità né imposizione di uguaglianza. E ancora tante
altre cose. Ripensare è un metodo e un dovere, ed è un dovere non
attardarsi, non perdere altro tempo.
Sappiamo che a destra non c’è niente di rassicurante. Ci sono solo
alcune possibilità, date soprattutto dalla mancanza di vincoli, dall’assenza
di un passato ingombrante, da convinzioni sicuramente antistataliste e
antidirigiste. E’ triste pensare che, per ora, è l’unico ballo
che l’Italia può ancora ballare.
Sintesi
Il riformismo deve ripensare se stesso, deve abbandonare i sacri testi
e studiare la società di oggi, quella vera, non quella di comodo
immaginata
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