Cosa 1, Cosa 2, Cosa manca alla
sinistra
Giancarlo Bosetti
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Questo articolo è apparso sul numero di gennaio-febbraio di
Mondoperaio, la Rivista dei Socialisti Democratici Italiani diretta da
Luciano Pellicani
I
due testi di Luciano Cafagna, pubblicati da Mondoperaio nel
numero scorso, sono rispettivamente del settembre 1996 e del gennaio
1998 e riflettono una fase in cui si metteva mano a un tentativo di
dare vita a una nuova grande formazione della sinistra italiana, all’indomani
della vittoria del centrosinistra. Quel tentativo, come si sa, è
fallito (per meglio dire “abortito”, secondo il titolo stesso
scelto dalla redazione) e chi sapesse rispondere compiutamente alla
domanda “perché?” avrebbe in tasca la soluzione dell’intero
enigma della politica italiana, un po’ come - passatemi il paragone
metafisico-teologico - chi avesse la soluzione del problema della vita
e della morte, avrebbe risolto anche quello della esistenza di Dio.
Gli scritti di Cafagna non rappresentano dunque la sua analisi di
oggi, di quel fallimento, ma il giudizio di un intellettuale
socialista che prendeva parte a quegli eventi di pochi anni fa (pochi
ma piuttosto istruttivi) con una certa dose di convinzione ma anche
con molte motivate diffidenze. Anzi più che diffidenze erano timori
di possibili, probabili errori da parte, soprattutto ma non solo,
della componente maggioritaria della sinistra (i Ds, allora Pds). Le
tesi dell’autore di quelle due relazioni meritano tutta la nostra
attenzione, perché spesso con i suoi interventi e con i suoi libri,
Luciano Cafagna conferma una grande capacità di illuminare il
presente, mescolando passione di parte e lucidità di giudizio in un
modo che è davvero raro nella deprimente arena politico-intellettuale
italiana.
Nel primo dei due interventi era chiaro il timore che la componente
diessina della sinistra non metabolizzasse, lei per prima, l’innovazione
che la Cosa 2 voleva introdurre con il suo progetto di una grande
sinistra unita carica di ambizioni. Sull’altro versante c’era il
timore speculare che la componente ex socialista, a sua volta, fosse
condizionata e appesantita dalla speranza di ricostituire, sia pure in
tempi lunghissimi, una sua autonoma e rilevante presenza politica.
Secondo Cafagna i vizi di cui il progetto rischiava di morire erano,
in questo caso, quelli, ancora una volta, del massimalismo e del
settarismo. In quel senso la apertura di credito a Massimo D’Alema
da parte dell’intellettualità socialista appariva giustificata dal
fatto che l’allora segretario del Pds dava sufficienti garanzie di
solidità sia in direzione di un dichiarato riformismo (anzi, a dire
il vero, persino di “rivoluzionarismo” liberale) sia nel
riconoscere pienamente al socialismo italiano tutte le sue ragioni,
soprattutto quelle che erano state fatte valere “contro” il
vecchio Pci. Lì si era stabilita una certa quale sintonia, anche se
ci sarebbero stati ancora episodi di tensione tra i socialisti e il
premier diessino.
Tuttavia i due peccati capitali, del massimalismo e del settarismo,
fondamentalmente, lo devono ammettere anche i più diffidenti, non
sono più stati commessi, almeno in misura tale da potersi considerare
la causa del fallimento della Cosa 2. Ecco il problema. Ed ecco anche
un tema di riflessione per tutti, nella sinistra: è vero che quei due
peccati spiegano molte cose della sinistra italiana, soprattutto molti
dei suoi errori (secondo la ricostruzione storica, per esempio, di
Massimo Salvadori, La sinistra nella storia italiana, Laterza),
ma il tentativo di ridurre a massimalismo e settarismo tutto quello
che non funziona rischia di essere rituale e, soprattutto, di non
mordere sulla realtà. Che cosa c’è di più ripetitivo e sterile
della discussione tra sordi: massimalisti da una parte e opportunisti
dall’altra, una specie di replica della eterna litania trotzkisti
contro stalinisti, idealisti contro cinici, moralisti contro realisti,
buonisti contro machiavellici?
Si può seriamente sostenere che la Cosa 2 è fallita per colpa del
massimalismo del sindacato, e dei suoi amici nei partiti, che hanno
impedito le riforme? E che il sindacato, ovvero Cofferati, sia la
quinta colonna dell’ancien régime della sinistra? E si può
attribuire al “risentimento” dei socialisti italiani, passati
attraverso una storica umiliazione negli anni di Tangentopoli, e alla
incapacità di dissolverlo attraverso una più equilibrata visione
storico-politica, la causa del mancato decollo di una nuova grande
sinistra? Io rispondo nettamente di no a tutte quelle domande, anche
se avverso il massimalismo in tutte le sue forme.
E’ quella una lettura dei fatti, che sotto le vesti della suprema
astuzia, è invece profondamente ingenua. Se fosse vera basterebbe
variare il dosaggio del riformismo (che nel gergo corrente significa
spostare a destra la barra del timone) nelle formule politiche.
Mettiamo: basterebbe fare il muso duro al sindacato, aprire di più
agli interessi delle imprese, promettere sgravi fiscali, flessibilità
e così via. Ma la verità è che codesti spostamenti di barra sono
del tutto insufficienti quando si rifletta che l’intera imbarcazione
- per stare in metafora - è da rifare. Non è una questione di rotta,
è una questione di nave.
Non c’è dosaggio di “riformismo” che consenta alla sinistra di
rigenerare i suoi consensi e di ritrovare forze e fortune.

Il merito di Cafagna, d’altra parte, sia nei suoi scritti precedenti
che nelle relazioni in questione, è quello di aver saputo leggere la
caduta del Psi non semplicemente come il prodotto di una congiura
ordita dagli avversari ma anche come la conseguenza di una forma di
“cecità” che ha portato alla rovina un gruppo dirigente. E questa
riflessione ci porta dentro un’area di problemi che riguardano il
modo in cui si forma oggi il consenso politico ed elettorale, lo stato
della politica dopo un lungo ciclo di benessere e di crescita, la
democrazia nella società dell’informazione.
A proposito di “risentimento” è il caso di dire che oggi esso è
effettivamente un ingrediente importante dello spirito pubblico nelle
società avanzate, Italia compresa. Esso non è monopolio dei
socialisti che vissero con passione la stagione craxiana e che
guardano ai politici in sella oggi con un fondo (più o meno grande,
più o meno espresso, e anche questo conta) di rancore. Esso è molto
diffuso anche nella vasta area ex-Pci (Rifondazione, Ds e dintorni) e
indirizza i suoi umori negativi contro gli stessi gruppi dirigenti,
accusati di avere abbandonato le solide certezze di un tempo, di avere
tradito le ideologie e di avere fatto un deserto dei valori dove un
tempo si ergeva un solido edificio morale. (Pensate a quei sentimenti
che spingono a votare gli ex comunisti nei paesi dell’Est) E poi il
risentimento circola ovunque, a destra, a sinistra e al centro;
dovunque ci sia ostilità verso un ceto politico povero di principi,
di coerenza, di motivazioni ideali e magari anche inefficiente.
Bisogna anche aggiungere - cosa che io vorrei fare con maggiore
spudoratezza di Cafagna, e se volete con molta più ingenuità - che i
gruppi dirigenti della sinistra, con pochissime eccezioni, sono
completamente ciechi dinnanzi a queste problematiche del risentimento
antipolitico. Lo sono nella stessa misura in cui lo erano i socialisti
craxiani, tendono ad attribuire i mancati consensi alla congiura degli
avversari e non percepiscono che la domanda politica è molto cambiata
rispetto al passato e che è carica di richieste morali, di senso,
almeno tanto quanto le vecchie domande erano cariche di richieste
economiche. Dentro il vecchio schema ideologico comunista, socialista,
democristiano, la giustificazione delle élites era quasi automatica:
esse rappresentavano l’ideologia e l’ideologia svolgevano in un
discorso continuo con i loro militanti ed elettori.
Oggi le élites (vulgo: il ceto politico) vanno in scena con una
rappresentazione molto povera di sfondi e di costumi. Niente più
protezioni rituali e simpatie garantite dalla appartenenza alla comune
parrocchia. E il risultato è li da vedere: uno spettacolo brutto.
Basta un tic o una entrata fuori tempo a provocare i fischi. Eppure i
nostri eroi non lo hanno capito e se la prendono con i media, con i
giornali e con la tv, che sono poi lo specchio di quello stesso ceto,
fatti da uomini che hanno messo loro ai posti di comando.
Questa storia mi fa venire in mente la “sindrome della crisi Ibm”,
così ben raccontata da Richard Sennett (in “L’uomo flessibile”,
Feltrinelli), dove si fa l’anatomia della crisi psicologica dei
manager della grande azienda dei computer prima della enorme
ristrutturazione che l’ha rimessa in linea con il mercato. I
dirigenti licenziati, che erano per lo più persone di valore e con
notevoli competenze tecniche, passavano attraverso diverse fasi
psicologiche: nella prima ritenevano di essere le vittime di una banda
di perfidi o cretini che avevano rovinato l’azienda; nella seconda
si rendevano conto che quelli che li avevano cacciati venivano
cacciati a loro volta e questo metteva in crisi il loro schema; poi
cominciavano a riflettere che tutti gli elementi per rendersi conto
che la vecchia rigida Ibm non avrebbe retto il passo della new
economy ce li avevano avuti anche loro, ma non avevano saputo
metterli a frutto; infine veniva la fase liberatoria e creativa e
cominciavano a darsi da fare, davano vita a nuove imprese e si
rigeneravano.
La fabbrica del consenso politico deve oggi diventare molto più
sofisticata e aggiornata, almeno quanto è riuscita a farlo l’Ibm
per non chiudere i battenti. L’applauso non è più garantito da una
platea benigna accomunata dalla tessera. E il fallimento della Cosa 2
dipende dal fatto che la sua proposta era “fuori mercato” come i
computer Ibm prima della svolta. L’equivalente di quella colossale
“ricostruzione”, di cui oggi la sinistra ha bisogno deve misurarsi
con i cambiamenti della domanda. Proviamo ad elencarne qualcuno:
a) un lungo ciclo di benessere non produce affatto di per sé crescita
di consenso per i disegni di una sinistra che, riformista quanto si
vuole, deve comunque provvedere alle fasce più deboli, che non
raccolgono più la maggioranza, di individui e di consensi;
b) la lunga durata del benessere nelle economie di mercato non produce
neppure una soddisfazione crescente da parte degli individui. Anzi
sorge persino il sospetto (vedi Robert Lane, The Loss of Happiness
in the Market Democracies, Yale Un. Press, 2000) che alimenti
infelicità e frustrazioni;
c) il trend del benessere e dell’individualismo aumenta le
aspettative che si indirizzano ai politici. Il politico di professione
deve stare in guardia: è sotto osservazione in permanenza, deve
continuamente motivare e rimotivare la sua funzione, ponendo una
estrema attenzione alla comunicazione. Il politico che ostenta
cinismo, anche se può rastrellare alla grande voto di scambio sul
breve periodo, è alla lunga praticamente un suicida. E anche se non
sempre ammazza se stesso, ammazza il partito o il gruppo che pretende
di dirigere.
d) si va verso una sempre più problematica legittimazione del
politico. La tendenza verso la desocializzazione, che riduce varie
forme di attività associate, da quelle del tempo libero alla
politica, e che alimenta l’antipolitica sembra corrispondere a
processi profondi delle società individualistiche. Non si esorcizza
con prediche sulla democrazia. E’ indispensabile che il politico sia
irreprensibile, che il suo stile di vita sia sobrio, che si presenti
(naturalmente se poi lo è davvero, meglio ancora)come una
persona affidabile e generosa. Non vale invocare, come attenuante per
le proprie eventuali debolezze, il modello Berlusconi. Le regole per
la sinistra sono più dure perché comunque alla politica la sinistra
chiede di più. E se questo volete chiamarlo “moralismo” o “neomoralismo”,
fate pure. Ma se è un modo per liquidare il problema fate male.
e) il pragmatismo, pur necessario ovviamente a una moderna politica di
riforme, non garantisce il recupero dei consensi. Lo dimostra l’esperienza
della sinistra delle regioni rosse, un ex baluardo sempre più eroso
dai venti nuovi dell’antipolitica, del localismo, del qualunquismo,
del fastidio per una ex leadership che spesso parla come se fossero
ancora intatta la sua antica egemonia, come se ancora avesse quei “corpi
d’armata”, come li chiama Cafagna, che invece si sono squagliati.
f) più ancora del pragmatismo - ed è un paradosso davvero
strabiliante e difficile da digerire per molti, ma dovranno farlo se
non vogliono soccombere, come ingegneri Ibm in disuso - c’è
richiesta di principi che giustifichino le politiche e le carriere dei
politici. E’ il problema delle “unprincipled élites”,
come le chiamano in America. La democrazia è competizione tra élites,
non è sostituzione di masse al posto di élites - salvo che nelle
utopie rivoluzionarie -, ce lo hanno insegnato Schumpeter, Dahl,
Bobbio. Ma deve essere una competizione ricca di significati e di
differenze, se no diventa una ripugnante gara per saziare la avidità
di posizioni di potere. Possiamo convivere con questa avidità dei
politici, e magari farne anche uno strumento della democrazia, ma se
è fine a se stessa è solo uno spettacolo disgustoso.
Più dei vecchi vizi della sinistra, in fin dei conti io temo quelli
relativamente nuovi. Dei politici del centrosinistra più del
massimalismo temo l’inerzia e il cinismo, più del settarismo l’indifferenza
e la mancanza di principi, più dei radicalismi le inerzie, la
rigidità, la pigrizia mentale, quei difetti che stavano portando l’Ibm
alla rovina. E che il paragone sia di buon auspicio. L’Ibm ce l’ha
fatta, a cambiare. La sinistra italiana non lo sappiamo ancora.
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