Forum/Sapere, sesso, politica
a cura della redazione di Reset
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L'identikit delle partecipanti
Il ritorno di Alice Schwarzer
Il problema della differenza
Al forum che segue, organizzato da “Reset”, partecipano quattro
delle più eminenti teoriche, e attiviste, femministe contemporanee,
europee e americane (vedi articoli collegati). Un appassionato
confronto a tutto campo su femminismo, politica, trasformazioni
tecnologiche e rapporti intergenerazionali. Il dossier completo appare
sul numero 63 di Reset attualmente in edicola e in libreria.
Reset: Che cosa significa, oggi, “ricerca femminista”. Siamo
stati abituati a vedere il femminismo come un movimento sociale con
compiti e risultati anche di ordine politico. Oggi sembra che non sia
più così. In questo incontro internazionale di femministe sembra che
si tratti di un fenomeno collegato più saldamente alla ricerca
accademica. Che cosa sta diventando, allora, il femminismo? Qualcosa
di meno politico, o per nulla politico? È ancora un movimento
sociale? Sta diventando semplicemente un nuovo campo della ricerca
accademica, o qualcosa del genere?
Tutte: No! No! No!
Scott: Mi sembra, prima di tutto, che l’idea stessa che non vi
sia un movimento politico o sociale sia sbagliata. Ed è altrettanto
sbagliata l’idea che la ricerca accademica non si debba collegare ad
esso. Vorrei proporvi l’esempio della ricerca che proprio in questo
periodo sto svolgendo su le Mouvement pour la Parité in France,
iniziata alla fine degli anni ottanta. Questo movimento voleva una
pari rappresentanza per uomini e donne nei partiti politici, nonché
nelle cariche politiche. Oggi c’è parité almeno nelle liste
elettorali per le elezioni comunali, regionali ed europee: tali liste
debbono essere composte per metà da donne e per metà da uomini, e si
deve garantire che le donne non siano collocate tutte in fondo alla
lista, mentre gli uomini ne occupano le prime posizioni. Per questo,
ogni sei nomi, tre sono femminili. Questo è un esempio di femminismo
come movimento politico. Contro di esso sono state mosse numerose
critiche, ma dobbiamo riconoscere che la pratica si è dimostrata
estremamente efficace nell’incrementare la possibilità di accesso
delle donne alla politica e alla rappresentanza elettorale. Eppure le
sue richieste erano strettamente legate ai temi della ricerca
femminista, che rappresentavano la posta in gioco tanto in Francia
come negli Stati Uniti in generale. Per queste ragioni, non ritengo
corretto accettare questa idea della separazione tra la ricerca
femminista e il movimento politico.
Reset: Sulla base dei commenti di Joan Scott, potremmo
affermare che è un errore sostenere che il movimento politico
femminista è scomparso. Ma forse non è sbagliato dire che l’onda
del femminismo in quanto movimento politico è in calo.
Haraway: Dipende dal punto di vista. È certamente vero che i
movimenti di liberazione e i movimenti sociali di ogni genere hanno
attraversato periodi di crisi e di decostruzione. Il mio punto di
vista, comunque, tiene conto di una più ampia diversificazione,
differenziazione e interazione tra i movimenti sociali. Il movimento
femminista informa, per esempio, ampi segmenti dell’ambientalismo
contemporaneo, il lavoro politico fatto sui posti di lavoro relativi
all’informazione, nonché la costruzione dei sistemi informatici.
Sono al corrente di questa tendenza grazie alle mie colleghe che
operano nel settore degli studi scientifici. In questa particolare
area di ricerca accademica e professionale, è certo che esiste un’area
di lavoro femminista molto forte. Possiamo vedere nel campo delle
aziende di progettazione di software e in quello delle scienze
informatiche, come il femminismo abbia fatto la differenza.

La politica femminista è maturata in molti modi, ma ha perso anche
diversi aspetti del movimento sociale di massa. Tuttavia, sarebbe
secondo me un terribile errore ridurre la somma complessiva dei
movimenti sociali esclusivamente alla loro forma di massa, che tanta
importanza ebbe negli anni settanta. Penso inoltre che l’istituzionalizzazione
degli studi accademici sulle donne e sulle differenze di genere sia un’area
di enorme importanza per la riproduzione e la trasformazione del
femminismo. Anzi, le giovani femministe reinventano di continuo il
femminismo nel loro lavoro, nelle espressioni culturali, nelle arti,
nella ricerca, nella politica. Mi sembra quindi un errore considerare
gli studi delle donne - che una volta istituzionalizzati hanno
ottenuto grandi successi - come un settore da contrapporre alla
politica e all’attivismo politico.
Braidotti: Anch’io non condivido la domanda iniziale. Io vivo in
Olanda, nei Paesi Bassi, quindi sono un’europea del nord. È quindi
da una prospettiva molto diversa che io definirei, per esempio, ciò
che è sociale o ciò che è politico. In risposta alla domanda, direi
che il femminismo non è soltanto un campo della ricerca accademica,
anzi, non è nemmeno un campo della ricerca accademica. È quasi
inesistente in molti paesi al di sotto delle Alpi. Stiamo quindi
parlando di qualcosa che è ancora molto trasgressivo, ancora molto
interdisciplinare, ancora molto poco istituzionalizzato, certamente in
Italia. Ma se andate in Francia, le cose non stanno certo molto
meglio. Lo stesso vale per la Grecia. Forse la situazione è un po’
migliore in Spagna. Stiamo quindi parlando di qualcosa che sta ancora
cercando di trovare la sua forma entro una cornice istituzionale, dove
persino l’università incontra grandi difficoltà nel sopravvivere
in quanto istituzione, in grado di giustificare la propria funzione.
Con il nuovo Trattato di Bologna e l’indicazione di istituire corsi
di master e di dottorato, stiamo in realtà chiedendo di trasformare
le università in corsi di formazione. Eppure non c’è denaro per la
ricerca. Fare il docente nel Nord Europa significa portare all’interno
dell’Università un terzo, se non la metà, del patrimonio dei tuoi
programmi. Le cose non vanno meglio in Inghilterra, anche da quello
che mi risulta dalla London School of Economics.
Prendiamo quindi in esame la trasformazione gestionale delle
università. Da una parte sembrano più aperte allo sviluppo delle
aree di studio interdisciplinare ad orientamento sociale che tengono d’occhio
il mercato; dall’altra sono invece disastrose per uno strumento che
volesse essere socialmente, autenticamente e politicamente rilevante,
nel senso che si dava una volta a questa espressione. Io inserirei
pertanto la questione delle femministe più giovani e del rinnovamento
del femminismo all’interno di una crisi istituzionale più ampia,
che nelle università risulta essere addirittura enorme.
Altri due rapidi punti: la crisi - come hanno sottolineato anche
giornaliste politiche come Ida Dominjanni - non è meno profonda,
quando si tratta di definire concetti quali il sociale o il politico.
E mi spiego: che cosa è sociale nell’era dell’informazione, della
telecomunicazione, delle frontiere elettroniche, del
post-insustrialismo e della globalizzazione? Dove sta il sociale? Sta
forse qui? E che dire delle e-mail? Esiste una esplosione, o una
implosione, nel settore sociale? Ciò non rende affatto le cose più
facili quando si parla di rinnovare il femminismo. La stessa
considerazione vale anche per ciò che è politico. Vedo, tra gli
studenti e le donne più giovani che cerchiamo di educare, un grande
desiderio di fare politica, ma anche un grande interrogativo: “Quale
forma potrebbe effettivamente assumere, in un’epoca in cui si
verificano tali e tante trasformazioni?”
Scott: Penso che dobbiamo riconoscere come negli ultimi anni si
sia verificata, al di là dei confini nazionali, anche una
istituzionalizzazione del movimento femminista, che ha preso il posto
delle precedenti forme dei movimenti sociali di massa. Non dobbiamo
pertanto limitarci a considerare soltanto i programmi di studio delle
donne, ma dobbiamo anche ricordare il ruolo delle Organizzazioni
Non-Governative (Ong). Esse rispondono ai proclami e alle direttive
delle Nazioni Unite in merito al rispetto dei diritti umani delle
donne, proclami e direttive che sono l’esito di anni di conferenze
dedicate alle donne. C’è quasi una specie di industria, connessa
alle attività politiche, sociali, accademiche che riguardano le
questioni femminile, una volta istituzionalizzate.
Questa istituzionalizzazione avviene nelle università, nelle Ong, in
relazione alla politica delle Nazioni Unite. Essa esercita pressioni
sui governi perché raccolgano informazioni e promuovano politiche
sociali conformi alle dichiarazioni dell’Onu. La questione è quindi
assai più complessa di quanto pensiamo. Riguarda l’«istituzionalizzazione»
di temi che erano finora lasciati al di fuori delle istituzioni,
mentre ora si esercitano pressioni sulle istituzioni perché
incrementino i processi di rappresentanza e di inclusione.
Reset: In che modo, secondo voi, le questioni femministe possono
diventare, nel corso del nuovo decennio, un tema centrale all’ordine
del giorno dell’agenda pubblica? Ci sarà un soggetto politico,
attori politici del femminismo? Oppure ritenete che le questioni
femminili saranno piuttosto un tema dominante diffuso e riconosciuto
da tutti i soggetti politici e promosso dalle istituzioni?
Haraway: Quello che viene considerato come il soggetto politico è
ovviamente una posta in gioco nella pratica reale, concreta. Se
pensiamo al soggetto politico solo come a una sorta di rappresentante
sul modello storico del rapporto tra la classe operaia e i suoi
partiti, se è in qualche misura questa la nostra idea di ciò che
conta realmente come soggetto politico, allora non riusciremo a capire
gran parte di ciò che sta accadendo nella politica del secolo in cui
viviamo. Ma l’alternativa non è semplicemente il soggetto politico
disperso, ovverosia, chiunque esso sia, in qualunque luogo. Forse la
geometria che viene chiamata in causa a proposito della tematizzazione
del soggetto politico riguarda piuttosto i concetti di
intersezionalità o di soggetti in congiunzione.
Possiamo vedere tale pratica nelle opere di femministe che lavorano
sull’anti-razzismo. Qui vengono sottolineate le diverse posizioni
del soggetto, a livello nazionale, etnico e così via, in relazione
alla differenza di genere, così come viene vissuta quotidianamente. L’accento
viene qui posto su sistemi multipli di relazioni, oltre che sulla
questione della repressione. I soggetti si producono come un verbo
nella loro azione, in rapporto a coalizioni, progetti e programmi. Il
soggetto politico in quanto tale non esiste; l’azione di
congiunzione produce i suoi soggetti politici, che sono inseriti in
alleanze di rapporti di vario genere. Se incominciassimo quindi a
parlare, per esempio, con le 600 femministe che sono qui oggi a
Bologna, potremmo iniziare a scoprire a quali reti di rapporto diano
vita, anche sul luogo di lavoro. Ma potremmo anche trovare un ampio
strato di femminismo trans-nazionale, rizomatico, che si è andato
affermando, ramificando e stratificando sia nel tempo, sia nello
spazio. Ed è questa una geometria molto migliore per comprendere oggi
i soggetti politici. I soggetti si creano nelle situazioni cui
appartengono. Penso veramente, quindi, che uno dei contributi più
importanti della teoria femminista sia stato uno tipo specifico di
immaginazione della politica. Non si può dare la «donna» come
soggetto politico assoluto, perché proprio non funziona.
Reset: Il femminismo ha ridefinito in modo assolutamente
rivoluzionario i concetti tradizionali della modernità, criticando la
metafisica, provocando una rivoluzione nella concezione del mondo, nei
rapporti tra i generi, nel nostro rapporto con l’ambiente, con gli
animali e in tante altre cose. Ma nonostante tutto questo, non si può
tuttavia affermare che ci sia omogeneità di scuole di pensiero tra le
studiose femministe. Come mai?
Braidotti: Si tratta di una domanda estremamente complessa.
Possiamo soltanto iniziare ad abbozzare una risposta. Cercherò di
raccontarlo nel modo seguente, anche se è possibile usare altre
narrazioni per spiegarlo. Il femminismo si è emancipato dalla “donna”
in quanto classico “altro” metafisico. Ciò è accaduto in un
periodo compreso tra gli anni sessanta e i settanta. Esiste però una
distinzione fondamentale, direi addirittura epistemologica, tra la “donna”
e il “soggetto femminista”. Alcune donne sono soggetti femministi,
altre non lo sono. L’evoluzione epistemologica di un soggetto
femminista è il vero marchio di fabbrica del femminismo moderno, o
meglio della seconda ondata di femminismo, opposto a quello delle
suffragette che per prime rivendicarono il diritto di voto per le
donne. In un certo senso, quando le donne si sono liberate, si sono
liberate anche dalla femminilità classica.
E' quindi lecito chiederci: “Qual è il soggetto femminista dell’anno
2000?”. Ma ci si potrebbe anche chiedere: “Qual era il soggetto
femminista nel 1968? “. Era la “donna”»? Ma le donne dicevano:
«Tremate, tremate le streghe son tornate». E a tornare sono state le
“streghe”, non le “donne”. Per l’appunto, non volevano
essere più “donne”. Esiste dunque una distinzione epistemologica
e politica, che alcuni chiamerebbero “spirituale””, tra la
femminilità, l’altro del soggetto classico, e un soggetto
femminista che pretende di agire, di esercitare un impatto di tipo
sociale e politico e quindi di poter fare la differenza. Possiamo
usare questa stessa storia per dire anche che il post-modernismo segna
il ritorno dell’”altro”, in quanto modernità. Come ho avuto
occasione di ricordare nel mio contributo, i nativi, gli “altri”
etnici, stanno tornando più numerosi di prima, ma il loro ritorno
lacera l’intero tessuto della soggettività. Non tornano solo per
dire: “Ehi, siamo qui, fateci entrare!”. Il loro ritorno manda in
pezzi la struttura di quello che eravamo abituati a considerare il
soggetto, e rivendicano la ridistribuzione dell’intero profitto.
Mi piacerebbe narrare in questi termini la questione di donne e
femminismo. Penso si tratti di una crisi molto positiva, perché ha
costretto il soggetto - in particolare quello del centro, bianco e
maschio - a guardarsi dentro. La crisi è una crisi del centro, non
della periferia: gli altri se la cavano benissimo! È il centro che ha
bisogno di interrogarsi. Ed è quanto è accaduto, soprattutto nel
femminismo sud-europeo. E’ la messa in discussione e l’elaborazione
di diversi interrogativi, che riguardano il mondo. Ma il centro non è
ancora è in grado di accettarla. Il centro se ne sta nel suo
splendido isolamento, totalmente analfabeta per quel che concerne la
sua stessa crisi. Penso che la crisi sia la crisi di questo genere di
soggetto politico, mentre gli altri soggetti politici sono attivi e
vitali. Prendiamo Praga, prendiamo questa conferenza, prendiamo il
femminismo trans-nazionale: non c’è alcuna crisi qui. La crisi è
nel centro, ed è il cuore morto del centro che non ha la più pallida
idea di che cosa fare di se stesso. Ribalterei quindi la domanda: “qual
è secondo voi il soggetto politico del XXI secolo? E che cosa
dovrebbe fare?”. Guardiamo alla sinistra, alla sua incapacità di
agire in quanto tale. Guardiamo alla débacle della
sinistra in tutta Europa. Bella sinistra che abbiamo! Quindi, la crisi
non è dell’”altro”. È solo la crisi dello “stesso”.
Haraway: Viviamo in un’epoca di incredibile proliferazione di
nuove forme di ricchezza, di proprietà, di corpi mutati, secondo vari
generi e grandezze: da quelli di dimensioni infinitesimali, le
molecole del Dna, fino a quelle immense delle foreste pluviali dell’emisfero
settentrionale. Assistiamo all’inter-conversione fra forme diverse
di materialità, cosicché viviamo immersi in questa sorta di
straordinaria riformulazione degli stili di vita. Biologi e
informatici sono ormai diventati pappa e ciccia, come ben sapete. Le
femministe sono molto attive in tutti questi settori. A volte si
definiscono femministe, altre volte no. Sono attive nei movimenti
delle popolazioni indigene, dove si tratta di stabilire se un gruppo
sia una tribù o un popolo, oppure quando vengono a mutamento
condizioni di sovranità che sfidano le tradizionali forme patriarcali
degli indigeni.
Le femministe sono attive quando devono essere definite le pratiche
genetiche che vengono a interessare le aziende farmaceutiche. Questi
sono in genere i temi all’ordine del giorno. Ci troviamo spesso a
dover affrontare il problema se cooperare o meno con un progetto di
campionatura del sangue finalizzato allo studio di una particolare
malattia, oppure ci chiediamo quali generi di etnia e di sessualità
emergeranno dalla genomica comparata. Stiamo andando verso medicine di
nicchia, ovvero a medicamenti progettati per piccoli gruppi di
popolazione: non ci saranno più solo boutique di abbigliamento,
bensì anche boutique farmaceutiche, strategie terapeutiche fortemente
individualizzate e razionalmente orientate. Ci chiediamo allora quali
saranno i gruppi che potranno accedere alle terapie per ricchi e a
quale prezzo: come saranno gestite, razionalizzate, quale genere di
sistema bancario e distributivo della conoscenza potrà esistere.
Le femministe sono attivissime su tutti questi punti, attivissime
nello studio del genoma, nella medicina, nelle politiche relative al
trattamento del cancro al seno, le cui problematiche si intrecciano
con quelle sopra accennate. Questi settori, che si riferiscono a nuovi
corpi e a nuove ricchezze, sono - a mio modo di vedere - proprio
quella particolare area in cui il soggetto politico del femminismo
trova oggi il proprio significato e la possibilità di ulteriori
formulazioni politiche.
Reset: In che modo questa tendenza si collega alle battaglie delle
donne?
Haraway: È parte integrante delle battaglie delle donne. Fa parte
dell’intero tessuto, anche se non esiste la «battaglia delle
donne».
Reset: Consentitemi di chiarire ancora una volta la domanda a
proposito delle visioni politiche che il femminismo intende oggi
assumere. Forse voi rifiutate il paragone tra femminismo e democrazia
sociale, nel senso che le due principali rivoluzioni del secolo scorso
sono state la rivoluzione femminile e la rivoluzione sociale? Possiamo
affermare che esiste un declino di questi due soggetti - il movimento
operaio e il movimento delle donne - perché in un certo senso hanno
raggiunto entrambi i loro obiettivi principali? C’è una sorta di
fine temporanea di questi movimenti perché hanno conseguito i loro
scopi istituzionali, cioè lo stato sociale e una nuova condizione per
le donne? Oppure rifiutate questo parallelo?
Haraway: Non è vero che tutti gli obiettivi sono stati raggiunti.
Penso al mercato internazionale del sesso, alle miserabili condizioni
di donne e bambini che lavorano in aziende che li sfruttano
ignobilmente in tutto il mondo, certamente anche a Los Angeles e a San
Francisco, non soltanto a Manila. Questi obiettivi sono ben lontani
dall’essere acquisiti, sia che si tratti degli obiettivi
tradizionali della socialdemocrazia, sia di quelli del femminismo.
Sono stati solo da poco - anche se moderatamente - raggiunti,
istituzionalizzati, ma solo in alcune regioni del mondo.
Braidotti: In merito al movimento operaio, io, che vengo dal
Friuli, mi chiedo oggi: «Chi è il lavoratore del terzo millennio nel
nord-est di questo paese?». Non è forse una domanda interessante? La
classe operaia si è completamente fusa con il concetto di etnia,
immigrazione, cittadinanza parziale e flessibilità, che significa
insicurezza strutturale. Ma non possiamo dire che non esista il
movimento operaio, perché esiste: sono gli addetti alle pulizie dei
ristoranti McDonald, a salario zero…
Scott: Penso che dissociare il soggetto politico dal contesto
storico in cui lavora sia un grosso errore. Non possiamo dire che il
soggetto politico del XIX e XX secolo - lavoratori e donne - abbiano
raggiunto i loro obiettivi, per cui non sia rimasto loro più nulla da
fare. Significherebbe ignorare il contesto storico ed economico in cui
operano o hanno operato. Ciò che sta descrivendo Rosi è la
trasformazione dell’economia e della politica, che rende obsoleti
questi soggetti come modalità di stabilire una serie di richieste
politiche e sociali. Quel che vogliamo dire è che oggi ci troviamo in
una situazione nella quale le forme tradizionali dell’organizzazione
e della soggettività politica non sono più adeguate per affrontare
le questioni della razza, dell’etnia, del capitalismo globale, delle
nuove forme di tecnologia, delle nuove abitudini e delle nuove
concezioni del corpo e così via. C’è bisogno di qualcosa d’altro,
diverso da quello che aveva funzionato benissimo nel XIX secolo e
parzialmente nel XX secolo.
Reset: La risposta, quindi, è «no, perché abbiamo nuove
priorità».
Braidotti: E un mondo di compiti nuovi.
Haraway: ...basato su problemi diversi.
Mitchell: Concordo su quanto è stato detto. Penso però che sia
molto importante sottolineare anche la specificità delle donne in
relazione alle domande poste. In Gran Bretagna, di fatto, le donne si
trovano sempre più spesso al livello più basso di incertezza
economica; la loro situazione sociale va peggiorando; le madri singole
stanno molto peggio degli operai o di molti gruppi di disoccupati. Le
madri singole occupano una ben distinta categoria di povertà. E
questo avviene nel Primo mondo. Altre domande, cui non pensiamo quando
parliamo di «globalizzazione», e lo trovo terribile, riguardano l’incremento
della mortalità e malnutrizione. Quindi, mentre i paesi occidentali
diventano sempre più ricchi, in altri paesi i bambini continuano a
morire e a essere denutriti, anzi lo sono sempre di più.
Faccio riferimento al lavoro di una collega e amica che opera in
Ghana, ed è consulente dell’Ilo per le tematiche femminili. Ha
preso in esame la globalizzazione considerandola nel contesto di
quanto è accaduto a donne e bambini. Ora, se le donne sono madri e i
loro figli muoiono sempre di più mentre la ricchezza aumenta, questo
ci dice qualcosa riguardo alla condizione delle donne. Studiando le
fasi iniziali dell’industrializzazione, gli storici hanno
sottolineato che i nuovi modelli di occupazione femminile avevano
trasformato i modelli di mortalità dei bambini e delle dimensioni
delle famiglie. Quel che accade oggi, è che il lavoro femminile sta
cambiando. Si stanno in parte urbanizzando per poter lavorare,
cambiando anche la natura del lavoro agricolo femminile, in quanto non
stanno più a casa e non possono dunque allattare al seno i propri
figli. Pertanto, l’allattamento al seno diminuisce, il latte Nestlé
aumenta.
Il problema è che si tratta di latte in polvere. Ma per il latte in
polvere ci vuole l’acqua, che dev’essere sterilizzata, e
ovviamente sterilizzare l’acqua in queste condizioni è difficile e
pericoloso. E poi non c’è abbastanza acqua. A questo si aggiunge il
fatto che viene meno la contraccezione naturale che si verifica
durante l’allattamento al seno, ma anche la contraccezione
culturale, che deriva dall’evitare i rapporti sessuali durante l’allattamento.
Le gravidanze diventano quindi molto più ravvicinate, e di
conseguenza diminusice l’assistenza per i bambini. Si tratta di
problemi che riguardano da vicino anche le madri singole, le ragazze
madri del Primo mondo, mentre nei paesi in via di sviluppo le
questioni sono soprattutto correlate al cambiamento dei modelli di
occupazione femminile. C’è quindi un legame, ritengo, tra le donne
di tutto il mondo. Perciò sono d’accordo con l’apertura alle
questioni etniche e razziali, così da poter considerare e mettere a
tema, in modo estremamente concreto, l’attuale condizione delle
donne.

Haraway: Posso confermare ciò, anche sulla base di un libro di
Nancy Shepherd dal titolo 'Death without Weeping' (Morte senza
piangere). La Shepherd ha dato un nome a questo fenomeno: la “modernizzazione
della mortalità infantile”. Qui si sostiene che per quanto riguarda
la mortalità infantile e materna il miglioramento è di norma un
segno distintivo, caratteristico della diffusione della democrazia,
degli stati nazionali e del benessere sociale. Ma esiste una forma
molto specifica di mortalità infantile dovuta a diarrea, che è
direttamente collegata ai paesi occidentali, e non solo al Terzo
mondo. Si tratta ovviamente di preoccupazioni che sono cruciali per le
femministe, ma che non soltanto per loro.
Braidotti: Vorrei rispondere alla stessa domanda, a partire da un
diverso punto di vista. Se la domanda è «Ci sono nuove generazioni
politiche impegnate nel rinnovamento del femminismo?» «Esiste un
nuovo femminismo politico in fieri o è già attivo?», allora la
risposta è certamente «Sì». Oggi sono già attive diverse
generazioni di nuove femministe politiche. Se ne possono osservare
alcune in questa conferenza; altre si possono incontrare un po’
ovunque. Sono molto inserite nel tessuto locale, molto localizzate, ma
anche dis-locate. Sono le figlie dell’Unione Europea, in questo
continente; sono le figlie dell’economia globale in un continente di
nuovo tipo, dove si sentono perfettamente a loro agio davanti a fatti
verso i quali noi proviamo ancora disagio: la nostra generazione non
è a suo agio davanti alle identità ibride.
Anche nella loro sessualità, sono perfettamente abituate alla
non-definizione, a rifiutare ogni etichetta. Hanno un atteggiamento
molto critico nei confronti delle etichette, anche verso quelle
radicali delle generazioni che le hanno precedute. Pensiamo alla
performance che è stata preparata per questa conferenza dal gruppo
“Next/Genderation”. Stanno percorrendo una strada che è tutta
loro, perfettamente consapevoli dei gap generazionali, del loro venire
5 o 6 generazioni dopo il primo femminismo, e ne sono fiere. Sono
anche corporative per quanto riguarda l’età: l’età è una
categoria politica nell’Europa di oggi. In un certo senso, non era
così per chi ha fatto le rivoluzioni del 68 e nemmeno del 77.
Oggi l’età è una categoria politica in termini di salute, di
aspetto esteriore e di possibilità di lavoro, e anche in termini di
prospettive elettorali. C’è maggiore solidarietà nei gruppi di
pari età di quanta ve ne sia in gruppi accomunati dall’appartenenza
sessuale. Ragazzi e ragazze della stessa età sono più legati tra
loro di quanto potrebbero esserlo con persone dello stesso sesso, ma
di una diversa generazione. C’è un gran bisogno di radicalismo.
Loro salgono sui treni e si accalcano in piedi per dieci ore a Praga
perché vorrebbero fare a pezzi l’Fmi. C’è un gran bisogno di
azione diretta. Almeno, questo è quello che vedo io oggi in Olanda, e
mi preoccupa profondamente. In effetti, se vai e spacchi qualche
vetrina o finestra, dopo ti senti meglio? La realtà virtuale è
diventata per loro troppo virtuale, e si avverte fortemente la
sensazione che le istituzioni vanno usate principalmente come mezzi
per i propri fini.
C’è una specie di pragmatismo, quando si sa come sfruttare la
situazione per conseguire i propri scopi. Questa generazione sa anche
come usare le risorse dei media. Sanno come realizzare una
presentazione efficace, come vendere qualsiasi cosa. Sono
perfettamente a loro agio con i poteri istituzionali, anche se non si
definiscono, fondamentalmente, in rapporto a ciò. Hanno modi
completamente diversi di fare politica e assumono posizioni totalmente
diverse nei confronti della società, modi che sono certamente molto
diversi dai miei e da quelli della mia generazione di quarantenni. Non
parliamo poi di quelli delle generazioni precedenti.
Reset: Sulla base delle vostre considerazioni, quale potrebbe
essere il modello dei rapporti di genere che ci sta venendo incontro
nei prossimi anni dal punto di vista delle abitudini, dello stile di
vita, dei rapporti di forza tra i generi e così via?
Braidotti: Qui possiamo osservare diverse generazioni di
femministe. La generazione X più vecchia, la generazione Y più
radicale e arrabbiata. La generazione X non va a Praga. La generazione
Y va a Praga, e ha appena dai 20 ai 23 anni. Hanno troppa Internet,
troppi modem. Adesso vogliono un po’ di vita vera, vogliono che
succeda qualcosa. La generazione X quindi è pronta ad andare in
pensione, perché non è vendibile, non è capace di vendersi ai
media. Si infuria con i media che sfruttano i loro corpi: Clavin Klein,
le anoressiche, i corpi perfetti. Ci tengono al loro corpo, ma sono
furiose per il modo in cui le ragazze sotto i trenta sono state
fabbricate, impacchettate e date in pasto ai media sotto forma di
corpi da desiderare.
La generazione Y non si preoccupa minimamente di come si veste, e
rifiuta completamente l’estetica della generazione X: Uma Thurman è
«passé». Le questioni intergenerazionali e il pronto consumo stanno
conoscendo una accelerazione rapidissima. Le nuove generazioni sono
formate da consumatori accorti, di buon senso. La generazione X ha
consumato quella dei baby-boomers, la generazione Y ha già consumato
la generazione X. E chissà come sarà e che cosa farà la generazione
W. Di conseguenza, c’è una fortissima accelerazione in termini di
moda, di pastiche, di collage, di riciclaggio dei media, di
spaventosa capacità di cancellare e riscrivere. Dove troveranno la
loro identità, dobbiamo ancora scoprirlo.
Reset: Rispetto al tema della trasformazione dell’identità di
genere e dei rapporti tra i sessi, una domanda potrebbe riguardare
anche il fatto che gli uomini si stanno prendendo sempre più cura del
loro corpo. Secondo voi, perché anche gli uomini hanno sviluppato
questa sorta di sensibilità psicofisica nei confronti del loro corpo?
È possibile che la trasformazione del corpo femminile abbia
contagiato anche gli uomini?
Braidotti: I pochi uomini che hanno accettato che il processo di
cambiamento entrasse nelle loro esistenze non erano baby-boomers. I
baby booomers si sono aggrappati alla loro identità come si fa in
tempo di crisi. La mascolinità era in crisi, ma era pur sempre
mascolinità. La crisi, per i baby-boomers, è diventata il modus
vivendi della mascolinità. Prendiamo il pensiero debole, il
postmodernismo, prendiamo Bill Clinton: sono perennemente in crisi, e
vanno avanti benissimo così. La crisi è diventata il modus vivendi
di una generazione che dal cambiamento è stata appena scalfita. Io
tendo ad essere molto dura con questa generazione che non ha raccolto
la sfida del cambiamento.
La generazione successiva è tutta un’altra storia. Adoro questi
ragazzi. Sono i figli dei baby-boomers; hanno modelli di mascolinità
del tutto diversi. Hanno lavorato molto di più per distruggere alcuni
stereotipi, per cercare di inventare modi diversi di essere uomini, e
in realtà sono estremamente produttivi. Se ne vedono alcuni qui
attorno. Alcuni diventano più androgini, alcuni sono indecisi, alcuni
sono decisamente gay. Ma c’è più di una rinegoziazione in corso.
Scott: Hai trascurato però quello che più mi colpisce nelle
avanguardie, almeno negli Stati Uniti, cioè la questione del “trans-genere”.
Ci sono studenti, appena ventenni o poco più, che rifiutano di essere
catalogati in un genere ben preciso, o in entrambe le direzioni. In
alcuni casi adottano semplicemente un abbigliamento trasversale all’altro
sesso; in altri casi assumono farmaci e ormoni per ottenere le
caratteristiche secondarie del sesso a cui non appartengono. I ragazzi
stanno realmente trasformando i loro corpi, per rifiutare una semplice
assegnazione diretta a una categoria di genere piuttosto che a un’altra.
Ci sono ragazzi con barba e vagina, che hanno rapporti tra loro, che
non hanno una posizione specifica, chiaramente assegnata, maschile o
femminile, almeno per come noi pensiamo di conoscere questi termini.
Sono queste persone quelle che mettono più radicalmente in
discussione gli standard dell’assegnazione del genere.
Haraway: Ragazzi così frequentano anche le mie lezioni. Li
riconosco. Non posso nemmeno dire ragazzi o ragazze, perché so che ci
sono anche queste persone, e sono persone estremamente interessanti.
Possiamo vedere tipi incredibili, tutti intenti a costruirsi enormi
muscoli in palestra, che adottano stili di espressione facciale, di
pettinatura e di abbigliamento, di prestanza fisica e di elementi
olfattivi tipici di una mascolinità giovane, a volte molto razzista,
anche se c’è uno straordinario influsso della cultura africana e
afro-americana sui ragazzi bianchi. Insomma, credo che il ritratto
della categoria di genere sia oggi estremamente complesso.
Mitchell: Mi sento una vecchia reazionaria. Credo infatti che
dobbiamo collocare questo tema anche nel contesto del fatto che il
mondo occidentale si sta avvicinando alla crescita zero. Questo
fenomeno esula dalla riproduzione e dal fatto che la gente abbia o
meno figli. Quindi non possiamo accontentarci di celebrare questa
sorta di natura rivoluzionaria, perché ancora non abbiamo avuto modo
di metterla alla prova.
Haraway: Io festeggerei la fine di una eccessiva riproduzione!
Braidotti: Io festeggerei il fatto che a livello sociale si sia
realizzata la separazione tra sessualità e riproduzione, che almeno
sia stata accolta e assorbita la lezione della psicanalisi freudiana.
Quali sono le implicazioni di questo genere di sessualità, nel senso
del divenire disincarnati? O ancora, che cosa significa ottenere un
altro corpo, che non è più il corpo riproduttivo, adatto alla
procreazione? C’è un grosso salto, un vuoto nel nuovo millennio.
Mitchell. È esattamente questo che volevo introdurre in questo
dibattito. Non si tratta più del corpo riproduttivo, anzi va
direttamente contro il corpo riproduttivo, e mettendolo alla prova. In
tal caso, la sperimentazione diventa alla portata di tutti, ma non è
più sperimentazione.
Scott: Credo che sarebbe un errore porre un’enfasi eccessiva sul
determinismo della riproduzione, perché per centinaia di anni, e
addirittura prima dell’avvento di un sistema affidabile di controllo
delle nascite, una forma di separazione tra sessualità e riproduzione
è sempre esistita. Pensiamo a quello che facevano le famiglie
borghesi, e addirittura quelle aristocratiche: la famiglia legittima
in contrapposizione alla famiglia illegittima. Penso quindi che
possiamo scorgere ora nuovi aspetti, ma che si tratti comunque di un’altra
manifestazione di quella separazione tra sessualità e riproduzione
che ha una lunga storia - una storia molto più lunga di quella
recente.
Mitchell: Quello che c’è oggi di diverso, secondo me, è che
questo fenomeno sta diventando centrale. La separazione tra
sessualità e riproduzione sta diventando la forma egemone, centrale e
borghese. Non è emarginata; non riguarda la differenza tra vita
domestica e prostituzione. Non ci sono prostitute separate, non
finalizzate alla procreazione, non riconosciute per la sessualità
riproduttiva. La sessualità senza procreazione oggi è al centro
della famiglia borghese.
Scott: Ma sai bene che le famiglie borghesi non esistono più.
Haraway: Ce n’è ancora qualcuna in circolazione.
Braidotti: Ma non tra quei ragazzi!
Haraway: Penso comunque che ci sia un’altra serie di temi che si
vanno affacciando: la riformulazione di corpi che non saranno
biologicamente in grado di riprodursi. È ben altra cosa dal dire:
«Quelli non vogliono prendersi cura dei bambini», oppure non
vogliono essere coinvolti nel fare e partorire bambini. Penso anzi che
la questione dei bambini sia separata dal tema della procreazione,
anche se spesso in modi che vengono eccessivamente gonfiati nei vari
dibattiti sulla clonazione, l’ingegneria genetica, la riproduzione
in vitro o altre forme di procreazione assistita. Sono problemi che
sono allo stesso tempo reali e gonfiati. Entrambi assolvono la
funzione di una sorta di metafora paradigmatica, per quanto si tratti
di pratiche concrete, reali. Vedo anche, tra i miei studenti e in
molte altre persone, nuove forme di rapporto con i bambini, per quanto
riguarda non solo l’avere figli, ma anche l’aver cura di loro. Non
mi è quindi chiaro se queste nuove “incarnazioni” rimarranno
senza figli per il fatto che non sono in grado di riprodursi.
Braidotti: Per me non è chiaro se queste nuove forme di
incarnazione debbano codificare necessariamente o esclusivamente una
immagine transessuale. Penso che l’iconografia transessuale eserciti
un grande fascino in questo periodo, che le proviene da un numero di
fonti diverse. Mi sembra - tra le altre cose - che si possa
considerare come l’ultima ondata di una immaginazione di tipo
gotico, che abbiamo ricevuto tramite il post-modernismo. È un fascino
che contiene diversi tipi di incrostazioni, di inclusioni
frankesteiniane, mostruosità, tecno-teratologie della postmodernità,
come le ho chiamate nel mio ultimo libro. Ma questa non è che una
delle molteplici iconografie attuali. Vi sono anche immagini di
fusione, di confusione; vi sono immagini di esseri angelici che
restano al di sopra e al di fuori dei giochi, immagini di metamorfosi
in insetti, immagini di imitazione delle macchine.
Possiamo trovare iconografie di ogni genere, ma oggi nel femminismo
esiste una egemonia della immagine transessuale che non mi sento di
condividere. È solo per via della mia genealogia, del mio essere
profondamente e concretamente incarnata in un corpo, del mio sentirmi
molto femmina. Mi preoccupa: perché dovrebbe essere questo il
paradigma della ridistribuzione dell’identità sessuale? Perché il
modello deve essere questo, e non quello di una trasformazione in
insetti, che significherebbe uscire dal puramente umano? Può essere
un po’ provocatorio, ma io la inserirei tra le possibili immagini.
È in corso una lotta a proposito di quale sarà l’immagine sessuale
che finiremo per innestare su queste forme radicali di nuova
incarnazione.
Mitchell: Non credi che la gente sia già arrivata a un qualche
insieme di cambiamenti immaginati? Voglio dire: sesso e procreazione
sono sempre stati separati. Ma oggi noi attraversiamo questo confine
secondo modalità diverse. La gente ha sempre immaginato figure
androgine, chimere e grottesche. Nella Metamorfosi di Kafka,
Gregor Samsa è una specie di scarafaggio. Come sapete, esiste una
lunga storia di modalità di immaginare i cambiamenti genetici. In un
certo senso, quel che c’è oggi di diverso è il fatto che
possediamo gli strumenti tecnologici per realizzarli, per attraversare
i confini tra generi e specie. Nel suo discorso, Donna ha parlato di
questo tema in termini di genoma canino e di donna/cane. Questi temi
sono oggi, di fatto, tecnologicamente possibili.
Haraway: La salute è una delle fonti principali di nuova
ricchezza. Non si tratta solo di mezzi tecnologici, per quanto in
questo settore vengano investite enormi quantità di denaro. La
riformulazione della bio-materia come forma di ricchezza è un tema
già grandissimo, destinato a diventare ancora più grande. Questo
significa che non è solo questione di possibilità tecnologica; ci
sono anche interessi estremamente seri su questo, dal punto di vista
delle nuove forme di accumulazione di capitale.
Braidotti: Direi che abbiamo nuove tecnologie, ma stiamo
innestando su di esse le immagini sbagliate. Il problema è che non
abbiamo le immagini adatte al genere di incarnazioni che già viviamo,
e al tipo di tecnologie che noi stessi abbiamo inventato: perché
queste tecnologie, di fatto, vengono da noi. Abbiamo quindi un ritardo
del nostro immaginario e delle leggi a questo riguardo. Dobbiamo
riscrivere il copione dell’immaginario, perché la nostra realtà
materiale incarnata è in una fase di transizione. Non tutto il nostro
mondo è un mondo alieno. Perché allora dobbiamo servirci di un
immaginario del XIX secolo, per una situazione del XXI secolo? Perché
non inventiamo nuovi paradigmi? In filosofia, questa è una domanda
cruciale da 50 anni a questa parte: noi non stiamo rappresentando
queste realtà a noi stessi, all’interno della nostra creatività.
Di conseguenza, ce ne usciamo con vecchi copioni. E allora, ecco
sempre lo stesso racconto gotico dell’Ottocento, mentre noi ci
troviamo invece sull’orlo di qualcosa di completamente altro. Il
fatto è che ci manca il repertorio.
Mitchell: Vorrei tornare su questo tema citando il mio lavoro
clinico di consulente in un ospedale inglese. Nel mio reparto ho a che
fare con molte persone che si vogliono sottoporre ad esperimenti di
cambiamento transessuale. Mi trovo dunque di fronte anche ad una
quantità enorme di documenti. Tuttavia c’è una necessità assoluta
di opporsi a quel che sta facendo la gente. Vi è quindi anche questa
specie di guerra contro i cambiamenti di sesso.
Braidotti: Stai sostenendo allora che l’immaginario transessuale
potrebbe non essere, in realtà, il corpo transessuale?
Mitchell: Be’, in effetti volevo dire proprio questo. Ma è
anche il suo contrario. Il nostro immaginario ci può essere, ma in un
certo senso la tecnologia limita questo immaginario rendendolo
possibile e reale. E ciò in certo modo limita l’immaginario in sé.
Braidotti: Allora secondo te il principio di realtà è all’interno
della tecnologia?
Mitchell: Sì, esatto.
Reset: Pensate che l’immaginario visionario sia oggi utile? E
perché? Potrebbe esserlo anche l’utopia?
Haraway: Le fantasie di speranza sono sempre utili. Ma non credo
in realtà che le utopie siano necessarie oggi. Penso piuttosto a
qualche genere di percezione di come le cose potrebbero stare
altrimenti. Abbiamo bisogno di persone in grado di immaginarlo per noi
- realizzandolo, mettendolo in pratica. Credo che ne abbiamo bisogno
come parte del nostro lavoro congiunturale, e allo stesso modo ci
occorrono immaginazioni fervide, in grado di percepire come il mondo
non dovrebbe essere. Ci occorrono immaginazioni al di fuori delle
determinazioni. Non è la stessa cosa dell’aver bisogno di un’utopia.
Sono stanca della trasgressione fine a se stessa.
Scott: Siamo arrivati storicamente a un punto in cui ogni
possibilità di immaginare intere utopie di trasformazione in grado
davvero di redimere, di cambiare il mondo intero e di renderlo
migliore, è svanita del tutto. Sono perfettamente d’accordo con
Wendy Brown, una politologa americana, che sostiene come sia ormai
venuta meno quell’idea di progresso - appartenente alla visione
ottocentesca della storia - secondo la quale a salvarci sarà il
cammino della storia sempre rivolto verso il progresso, verso un mondo
migliore. Ed è venuta meno per una serie di motivi, tra i quali c’è
il fallimento della possibilità comunista come alternativa al
capitalismo. Quindi la diffusa fiducia della gente nella storia come
progresso, e nel fatto che la storia ci porterà qualcosa di meglio
rispetto all’esistente, è ormai finita. E ciò solleva un’altra
domanda: come è possibile immaginare il futuro?
In mancanza di un quadro completo del futuro, che è stato
estremamente negativo ma anche estremamente positivo, nella sua
capacità di mobilitare politicamente tante persone, che cosa possiamo
fare? Come potremo capire verso quale direzione stiamo andando? Come
potremo comprendere i cambiamenti, se non pensiamo di avere una
direzione storica necessaria? Credo che sia questo il dilemma della
politica del XXI secolo.
Reset: Abbiamo quindi a che fare con nuove iconografie, dovute
anche alla fine di forme tradizionali di pensiero teleologico. Ma per
tornare alla tecnologia, all’immaginazione e alla sperimentazione,
vorrei ritornare all’intervento di Haraway fatto qui a Bologna, in
merito al rapporto tra i cani e gli esseri umani, alla possibilità di
mischiare organismi, macchine e genere. Mi sembra si tratti più che
altro di una specie di quadro visionario, di fantasia più che di
realtà.
Haraway: Invece è lavoro quotidiano per molti laboratori in tutto
il mondo. È una fantasia già molto realizzata. Penso che abbiamo
sopravvalutato l’immaginario, e sottovalutato la pratica materiale
mondana. La prassi di inserire pezzetti di un organismo in un altro
organismo, con uno scopo preciso, è diventata ormai del tutto
normale. Frammenti di genoma del lievito sono stati trapiantati negli
organi di una pecora allo scopo di produrre determinate
immunoglobuline destinate a essere vendute per una particolare nicchia
di mercato, collegata a certe malattie del metabolismo. E questo è
solo il procedimento di un progetto particolare, ma questo tipo di
prassi è ormai comune e diffuso. In realtà coinvolge molti
interessanti tipi di nuove discipline, procedure di laboratorio e
problemi di marketing. Sbaglieremmo di grosso a considerare questo
fenomeno come una sorta di mondo fantastico.
Quel che cercavo di spiegare nella mia conferenza, era la necessità
di insistere sul mondano, sul comune e consueto. La necessità di
comprendere e afferrare il quotidiano. Stiamo sopravvalutando la
natura del fantastico nel nostro mondo, e sottovalutando la realtà.
Il gioco che dobbiamo giocare già si chiama così, e non è né buono
né cattivo: per potervi partecipare, è necessaria la nostra miglior
capacità immaginativa, il massimo dei nostri sforzi fisici e dei
nostri interessi intellettuali. Capite quel che sto cercando di fare?
Sto cercando di rendere meno apocalittiche queste nuove realizzazioni.
Reset: Mi piacerebbe riprendere la domanda sull’utopia, l’immaginario,
la realtà e la fine della teleologia nella storia. Ma ciò significa
anche la fine della filosofia della storia per il movimento femminista
in quanto soggetto politico compatto. Oggi abbiamo scuole di pensiero
differenziate, storie e culture differenziate. Abbiamo diverse
modalità di femminismo: esperienze provenienti dall’Europa, dall’America
ma anche da paesi in via di transizione o di sviluppo. All’inizio
del nostro dibattito abbiamo cominciato col dire che al di là delle
differenze culturali e generazionali, il pensiero e il movimento
femminista resta sempre trasversale rispetto ai confini nazionali e
culturali. Ma rimane non soltanto in quanto pensiero politico e
critico, ma anche in quanto riflessione teoretica ed epistemologica,
capace al tempo stesso di riformulare la tradizionale teoria della
conoscenza e di comprendere lo sviluppo delle nuove tecnologie. Come
possiamo concludere questa conferenza? Forse semplicemente chiedendo:
che facciamo ora? E dopo?
Braidotti: Non si può fare. Sarebbe impossibile concludere una
conferenza come questa, stabilendo una linea. Quel che speriamo di
riuscire a fare è di offrire una buona cartografia delle tendenze
attuali, di quello che sta accadendo, di quali siano le forze in
gioco. Esiste certamente una generazione del rinnovamento. Siamo
certamente alla fine di un certo tipo di modo progressista teleologico
di guardare al movimento sociale del femminismo. Siamo certamente alla
fine della differenza sessuale essenzializzata della femminilità, che
in Italia ha prodotto un impatto enorme. Siamo certamente in presenza
di un nuovo rapporto con le tecnologie. Ma speriamo che ci sia anche
un nuovo dialogo con le femministe americane, e queste sono alleanze
transatlantiche, transnazinali, davvero importanti. Sarebbe comunque
molto ingiusto considerare Joan Scott e Donna Haraway semplicemente
come «le americane».
Sono così vicine a noi, così in sintonia con noi, che questa è
davvero un’etichettatura che dovremmo evitare. Il nostro obiettivo
era di delineare una mappatura, una sorta di lettura, l’istantanea
di una situazione, sapendo che è un po’ come una mappa
meteorologica, destinata a cambiare già domani perché la situazione
si evolve con una rapidità vertiginosa. Se riuscissimo a far capire
con chiarezza ai media che stanno accadendo tante cose nuove; se
riuscissimo a far vedere che cosa sta succedendo tra le giovanissime,
che si considerano ancora come femministe anche se voi operatori dei
media e noi, vecchie femministe, possiamo non riconoscerle come tali.
Se questo messaggio riuscisse a superare i confini di questa
conferenza, potremo dire che è stata un successo. Nel corso della sua
performance durante questa conferenza, il gruppo Next/Genderation,
composto da donne più giovani, ha ben chiarito questo punto:
«Vogliamo questa etichetta, vogliamo questa categoria, ma intendiamo
ridefinirlo in modo tale, che voi rischiate di non riconoscerlo». Il
femminismo sta andando avanti, e quanto più diventa diverso, tanto
più può diventare migliore.
(Traduzione di Anna Tagliavini)
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