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Il problema della differenza



Eva Cantarella con Laura Barletta



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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it


Eva Cantarella è nata nel 1936 a Roma, Eva Cantarella si è laureata in Giurisprudenza nel 1960 presso l'Università di Milano. Ha compiuto la propria formazione postuniversitaria negli Stati Uniti all'Università di Berkeley e in Germania all'Università di Heidelberg. Ha svolto attività didattica e di ricerca in Italia presso le Università di Camerino, Parma e Pavia e all'estero all'Università del Texas ad Austin ed alla Global Law School della New York University. È professore ordinario di Istituzioni di diritto romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Milano, dove insegna anche Diritto greco.

Partendo dalla ricostruzione delle regole giuridiche, le ricerche di Eva Cantarella, sia in campo romanistico che grecistico, tendono da un lato a individuare la connessione tra le vicende politiche ed economiche e la produzione normativa, e dall'altro a verificare la effettività delle norme stesse, analizzando lo scarto tra diritto e società, la direzione di questo scarto e le ragioni di esso.

Della produzione di Cantarella ricordiamo: Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Giuffrè, Milano, 1979; L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana, Editori Riuniti, Roma, 1981; Tacita Muta: la donna nella città antica, Editori Riuniti, Roma, 1985; Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma, 1988; I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano, 1991; Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano, 1996; Pompei. I volti dell'amore, Mondadori, Milano, 1998; (con l. jacobelli) Un giorno a Pompei, Electa, Napoli, 1999.

Professoressa Cantarella, può spiegarci in che senso parliamo di “genere sessuale” e qual è il rapporto - tema che ha suscitato molti dibattiti - con l’idea di “sesso”?

“Genere” in italiano ha in effetti molti significati, perché può essere il genere grammaticale, il genere letterario, il genere umano, il genere sessuale. Il genere di cui parliamo oggi è il genere sessuale, cioè è la parola che traduce la parola inglese gender; in inglese il genere umano è chiamato invece kind e il genere letterario genre.

La parola gender è stata introdotta dalle femministe per segnalare che la differenza sessuale, fondamentalmente biologica, ma non solo, era qualcosa di diverso dalla differenza che viene costruita socialmente, culturalmente o, secondo alcune tendenze del femminismo moderno, anzi post-moderno, semioticamente; quindi il termine gender è nato per segnalare che il genere sessuale è costruito e quindi variabile nel tempo e nello spazio, mentre allora, quando fu introdotto il termine, il genere sessuale era ritenuto immutabile in quanto strettamente legato alla biologia. Direi che prima che venisse introdotto questo termine, il concetto è stato introdotto da Simone de Beauvoir nel '49 con “le deuxième sexe”, quando ha insegnato a generazioni di donne, con questo libro tutt'ora fondamentale, che donne non si nasce, ma si diventa.


Il termine gender dunque è stato introdotto dal femminismo, ma l'idea che tra sessi vi fosse una differenza non solo biologica, anche se costruita sulla differenza biologica, è ben più antica del femminismo. A quando risale?

È antichissima; noi ci limitiamo a parlare dell'Occidente e dobbiamo quindi risalire al mondo greco. Nel mondo greco furono proprio formulate delle teorie dei generi sessuali nel senso moderno del termine. I greci cominciarono a discutere di questo problema a partire dalla questione su quali fossero le virtù delle donne - per virtù intendevano capacità, attitudini, forma di ragionamento -, con l'idea sempre che ci sussistesse una differenza, legata in ultima analisi alla biologia, fra le virtù femminili e le virtù maschili. Il primo a mettere in dubbio che la differenza tra le virtù maschili e femminili fosse legata alla biologia fu, per quello che ne sappiamo, Socrate. Abbiamo varie testimonianze di questo: nel Simposio di Senofonte Socrate guarda una giocoliera e di fronte alla sua abilità dice che quello che lei fa è la dimostrazione che la donna non è naturalmente inferiore all'uomo.

Nell'Economico di Senofonte c'è un altro discorso molto interessante: Socrate dice che gli uomini dovrebbero insegnare alle donne a non essere le persone con cui loro, gli uomini, hanno minor dialogo, dovrebbero educarle, quindi dando per scontato che le donne possono essere educate; la differenza non è solo biologica. Potremmo dire che poi tra la teoria e la pratica nel caso di Socrate, come spesso, non vi era accordo, perché, perlomeno a quanto sappiamo dalle poche testimonianze sui suoi rapporti con la famosa moglie Santippe, questi non erano tali da far pensare che l'avesse educata. Nel Fedone, ad esempio, quando Socrate sta per morire e discute, discetta con i suoi discepoli sull'immortalità dell'anima, arriva Santippe in lacrime e lui, senza neanche guardarla, dice ai discepoli: “Portatela via, allontanatela e riconducetela a casa”.

Non è solo Senofonte la testimonianza di questa attitudine particolare di Socrate. Platone nella Repubblica fa un discorso molto interessante: “Le donne - dice - possono essere guardiane” e a quel punto introduce un discorso fra Socrate e Iracone; Socrate chiede: “Ma tu pensi che le cagne debbano fare la guardia come i cani maschi oppure che debbano starsene in casa, perché siccome partoriscono e devono allevare i piccoli, non possono collaborare?” e la risposta è: “No, io penso che debbano assolutamente collaborare”. Socrate controbatte: “Va bene, ma allora perché collaborino, bisogna che noi le educhiamo in qualche modo, le alleniamo, tenendo conto della loro differenza, del fatto che devono partorire e accudire i piccoli” e la risposta è: “Certamente!”. Allora Socrate conclude: “Vedi, questo vale anche per le donne, allora anche le donne devono e possono essere educate”. Questo è la posizione di Socrate, molto particolare, come sempre, anche in questo.

Gli allievi di Socrate non sono come lui, lo stesso Senofonte, in un passo famosissimo dell'Economico, discute delle virtù delle donne. È Escomaco che parla; egli deve educare la giovane moglie, che ha appena quattordici anni; la moglie chiede a Escomaco: “Cosa devo fare per essere una buona moglie?” e allora lui le spiega: “Gli Dei ti hanno fatta diversa, perché sei una donna e quindi la natura femminile è diversa da quella maschile, in quanto le donne hanno più tenerezza per i bambini e quindi le donne devono allevare i bambini, occuparsi degli schiavi malati e via dicendo, mentre per l'uomo ci sono le cure esterne”. Senofonte aveva, come si evince da questo discorso, delle posizioni molto chiare e anche molto tradizionali, molto più abituali di quelle di Socrate.

Quali sono invece le posizioni di Platone e di Aristotele di fronte alla questione della differenza sessuale tra l’uomo e la donna?

Platone pone veramente dei problemi. Egli è stato considerato, singolarmente, molto spesso un femminista: si racconta che a Roma durante la Repubblica, nel secolo dell'emancipazione, le donne sventolassero la Repubblica di Platone, perché in questa opera Platone sostiene che anche le donne possono essere guardiane. In realtà, in altre opere la posizione di Platone è radicalmente diversa: ne Le leggi, dove ritorna in primo piano la famiglia - nella Repubblica infatti la famiglia non esiste più, è abolita - ritorna anche la subalternità femminile e Platone dice esplicitamente che in casa la donna deve obbedire, deve essere controllata dallo Stato e dal marito, dal capo di casa.

Che la differenza sessuale per Platone implichi l’inferiorità femminile, è evidente soprattutto dal famoso discorso del Timeo, quello sulla reincarnazione: gli essere umani scendono dall'astro, vivono in terra e poi tornano all'astro proprio - dice Platone -, ma se non hanno vissuto bene, cioè se sono stati ingiusti o codardi, si reincarnano in una donna, e se ancora nella seconda vita hanno vissuto male, si reincarnano nella specie ferina. Quindi direi che su Platone femminista, volendo, potremmo aprire un grosso discorso.

Passiamo ad Aristotele, perché egli rappresenta veramente il momento fondamentale della riflessione sul “genere”; le sue teorie hanno avuto un peso sul quale è inutile insistere. Aristotele formula una teoria del genere a partire dalla riproduzione. Qui bisogna aprire una piccola parentesi. I greci discutevano da tempo su un problema a proposito della riproduzione: la donna contribuisce o non contribuisce alla riproduzione? Ippone e gli Stoici, per esempio, dicevano di no; Empedocle, Anassagora, Ippocrate ed altri pensavano, al contrario, che la donna sia compartecipe. Possiamo dire che l'opinione più diffusa era quella che la donna non fosse in grado di contribuire alla riproduzione: se andiamo a vedere fonti di tipo diverso, fonti letterarie importanti come Eschilo, nell'Orestea e in particolare nelle Eumenidi, questo viene confermato.

Eschilo fa pronunziare ad Apollo un famoso discorso in difesa di Oreste, il quale ha ucciso la madre Clitennestra per vendicare la morte del padre Agamennone ed è perciò accusato di matricidio. Apollo lo difende dicendo che non è la madre la generatrice di quello che viene chiamato suo figlio, generatore è solo il padre; lei è custode del seme e il figlio, ospite ad ospite, cresce in lei se un dio non lo distrugge. Quindi l'opinione per cui il contributo della donna alla riproduzione non era essenziale era evidentemente molto diffusa.

Aristotele invece riteneva che la donna contribuisse alla riproduzione e spiega in che modo. Il figlio nasce dal seme paterno e dal sangue mestruale materno, però il contributo del seme e del sangue mestruale sono diversi. Sia il sangue che il seme sono il prodotto elaborato del cibo che non viene espulso dall'organismo, sennonché la donna, essendo più fredda dell'uomo, non riesce a compiere l'ultima trasformazione e quindi il suo sangue non diventa seme, e il figlio nasce quando il seme “cuoce” - dice Aristotele - nel residuo femminile. Da ciò deriva una cosa fondamentale, che il contributo dell'uomo alla procreazione è attivo, l'uomo è spirito e la donna è invece la materia alla quale lo spirito dà forma. Il contributo dell'uomo è attivo, il contributo della donna-materia è passivo.

Su questa teoria della riproduzione Aristotele costruisce la teoria della subalternità sociale della donna, certamente codificando quella che era la pratica ateniese. Egli dice che è naturale che l'uomo comandi, perché l'uomo è per natura adatto al comando, salvo alcune eccezioni contronatura. L'uomo comanda nell'oikos - e l'oikos è il punto centrale del progetto politico aristotelico -: l'uomo comanda sugli schiavi, sulla donna e sui ragazzi, perché né le donne, né gli schiavi, né i ragazzi hanno il buleutikon - cioè la capacità di deliberare -, o, meglio, gli schiavi ce l'hanno ma in misura inferiore, le donne ce l'hanno senza autorità e i ragazzi ce l'hanno ma in via di formazione. È quindi è naturale che l'uomo comandi.

Essendo i sottoposti diversi, perché ciascuno ha una sua forma di capacità e di volere diversa, sono diversi i rapporti fra il capo dell'oikos e i suoi subalterni. Il rapporto con la moglie - dice Aristotele - è un rapporto politico, è il rapporto in cui è coinvolto un capo politico, ma con una differenza: cittadini si alternano al potere politico mentre nel rapporto tra marito e moglie, fra donna e uomo, non c'è alternanza, perché è “naturale” che l'uomo comandi. Nell'antichità noi abbiamo quindi una serie di posizioni sul genere sessuale che culminano e portano a questa teoria di Aristotele, la quale poi ha segnato per secoli le teorie in materia. Tutte le volte, da Aristotele in poi - salvo naturalmente negli ultimi anni, in cui è apparso il femminismo - che si è teorizzata una differenza nel genere sessuale, questa è stata formulata in termini di subalternità e di inferiorità del femminile rispetto al maschile.


Abbiamo parlato di Eschilo. In campo letterario esistono altri autori interessanti per quanto riguarda il nostro argomento?

Ne esistono moltissimi, non abbiamo che da scegliere. Direi che un autore molto interessante è Esiodo; egli ci narra la storia della nascita della prima donna, Pandora, la “Eva greca”, come è stata definita. Pandora viene mandata sulla terra per punire gli uomini della loro tracotanza; viene generata da Efesto come una casta vergine bellissima e tutti gli dei le danno un dono. A Pandora viene data la seduzione, le vengono dati tutti i beni, tutte le bellezze; ma Pandora purtroppo è un kalon kakon, un “male bello”, perché tra i doni ci sono delle cose che la rendono molto pericolosa: per esempio riceve le parole e i discorsi ingannatori, l'animo di cane, una mente infida, tutta una serie di caratteristiche - “virtù”, direbbero i filosofi greci - che fanno di lei, come dice Esiodo, una “trappola alla quale non si può sfuggire”.

Pandora - questa è una cosa molto interessante - è fatta di acqua e di terra, quindi per la prima volta emerge la materialità della donna. Aristotele poi teorizzerà che la donna è materia ma già in Esiodo essa donna è costituita dall’elemento della terra; le viene ispirato il soffio vitale e va tra gli uomini seminando disastri. La cosa forse più rilevante a questo proposito, oltre all'idea che, in generale, i greci hanno appunto delle donne, è il fatto che, come dice Esiodo, da Pandora nascono il ghenos gynaikon ovvero il “genere delle donne” e poi le “tribù delle donne”. Il genere - notiamo la parola ghenos - delle donne è un genere a parte, radicalmente diverso da quello maschile; singolare è che in Esiodo le donne sembrano riprodursi da sole senza il contributo maschile.

Qual era in Grecia la situazione sociale del rapporto tra uomo e donna?

Direi di fermarci ad Atene, perché non possiamo fare un discorso che riguardi tutta la Grecia; a Sparta la situazione è diversa, così some in tante altre città. Quando diciamo Grecia, intendiamo Atene, nel senso che questa è la città sulla quale abbiamo più informazioni. Atene è certamente una città più misogina della Grecia e le donne, nella società ateniese, sono certamente segregate. Si parla spesso di donne antiche, ma si tende a volte a confondere la condizione delle donne greche con quella delle donne romane, c'è un abisso! Le donne romane erano senz'altro discriminate sotto alcuni profili, ma rispetto alle donne greche erano assolutamente libere; queste invece erano veramente subalterne. Vediamo alcuni punti fondamentali.

Cominciamo col dire che, come leggiamo in una famosa orazione di Demostene, un uomo ha tre donne: ogni uomo ha la gyné, che è la moglie, “per la procreazione dei figli legittimi” come dice Demostene. L’uomo ha anche una pallaké ovvero la concubina; il concubinato è una situazione che ha una qualche tutela giuridica. La concubina è spesso una straniera che non può essere sposata, ma è una donna che viene considerata dal diritto ateniese, ma non perché le si concedano degli effettivi diritti, ma perché le si danno dei doveri: se la concubina tradisce il concubino, è punita come la moglie poiché commette un reato che si chiama moikeia. La terza donna dell'uomo ateniese è l'etera, la “compagna”; questa donna, a differenza delle altre due, era istruita, perché la sua funzione era accompagnare l'uomo greco nelle occasioni sociali in cui né la moglie né la pallaké potevano seguirlo, ad esempio ai banchetti. L'etera riceveva dunque un minimo di educazione ed il rapporto con lei non era solo occasionale; ciò non toglie che l’etera fosse retribuita per le sue prestazioni.

L’uomo greco aveva una gamma di possibilità di rapporti, alle quali bisogna aggiungere - perché è molto importante - il suo giovane amante. In Grecia l'educazione dei giovani era affidata al rapporto con un adulto, a un rapporto pederastico fra un amante e un amato; per un uomo adulto era normale avere anche un giovane da educare, al quale insegnare a diventare un cittadino. Mentre l'uomo viveva molteplici rapporti, la donna invece, ovviamente, non ne aveva nessuno e se tradiva il marito, commetteva un reato chiamato moikéia; a questo era soggetta, come detto, anche la concubina, la quale quindi non aveva diritti ma veniva punita come una moglie. Deve essere ricordata, tra le tante, almeno un’altra cosa molto significativa: la donna greca non ereditava, a differenza della donna romana.

Alla morte del padre la donna romana partecipava alla divisione del patrimonio ereditario insieme ai fratelli in completa parità, questo rende la condizione della donna romana poi molto diversa nel corso del tempo: la donna romana può perseguire la sua emancipazione. La donna greca non eredita; il problema nasce quando in famiglia non ci sono maschi, quando si è di fronte a quello che i greci chiamano noikos eremos, cioè l'oikos senza discendenti maschi. Alla morte del padre il patrimonio non può andare alla figlia, perché lei non ha la possibilità di essere titolare di un patrimonio; la figlia diviene il tramite per cui questo kleros familiare si trasmette a suo figlio, al suo primo figlio maschio: questa donna viene perciò chiamata epikleros.

È una istituzione che si trova anche in altre città greche, anche nelle zone doriche, a Sparta, dove si chiamava in altro modo; esisteva allora questa figura di “ereditiera”, che era in realtà il tramite per cui in realtà il patrimonio si trasmetteva al figlio maschio. Questa ereditiera, perché il patrimonio non passasse in mani estranee, doveva sposare il parente più stretto in linea maschile, che è in genere il fratello del padre. In età ellenistica abbiamo tutte le commedie con la ragazza che deve sposare il vecchio zio, il quale vuole il matrimonio perché, essendo lei è una epikleros, può quindi aggiudicarsi il patrimonio. Ho usato il verbo “aggiudicare” non a caso; siccome ad Atene non esistevano i registri di stato civile, se una epikleros ricca era contesa da più parenti - in quanto ciascuno sosteneva di essere il parente più stretto -, si dava luogo a un particolare procedimento per cui la epikleros veniva assegnata al parente più stretto a seguito di un'azione giudiziaria, la epidikasia, che era un'applicazione dell'azione a tutela del diritto di proprietà.

Aggiungerei un'ultima cosa, perché finora abbiamo parlato della epikleros ricca, ma non di quella povera, che nessuno voleva sposare. Ci sono delle leggi attribuite a Solone, due in particolare, poste a tutela dell'epikleros: una a tutela di quella che, pur essendo ricca, non aveva particolari attrattive; questa legge è stata promulgata forse perché era giuridicamente stabilito che chi ha sposato una epikleros deve avere rapporti sessuali almeno una volta al mese con lei. C'è il problema di quella povera, che talvolta il parente più stretto non vuole sposare; in questo caso, per legge, le deve dare una dote per assicurare che in qualche modo si sposi. Ci sarebbe da dire ancora di più, perché la epikleros, se quando muore il padre è già sposata, può essere richiesta in moglie dal parente, che la sottrae quindi al marito. Quanto detto può dare un’idea di come erano strutturati i rapporti, assolutamente non paritetici, tra l’uomo e la donne nella evoluta, per molti altri aspetti, società greca, ateniese.

Proseguendo nel tempo la prospettiva sulle differenze di genere è poi rimasta la stessa oppure in qualche modo è cambiata?

È cambiata col femminismo, ma per molti secoli è rimasta praticamente inalterata. Direi che se vogliamo fare un salto cronologico molto ampio, possiamo vedere qualche esempio in un momento molto interessante, quello della Germania dell'Ottocento, cominciando da un autore che nasce sulla fine del secolo precedente, Josef Görres. Egli, vedendo tradite le speranze rivoluzionarie - della Rivoluzione Francese ovviamente -, in pieno clima romantico si dedica alla mitologia, alla cosmologia e formula una teoria della differenza sessuale che addirittura attraversa l'universo. Görres pensa che la differenza sessuale sulla terra sia il riflesso della differenza sessuale che percorre il cosmo, il quale è nato da un cataclisma; questa differenza sessuale produce delle equazioni che sono: maschile=nature spirituali, luce e libertà; femminile=nature materiali, gravitazione e necessità. Quindi il discorso è quello di sempre, né le cose cambiano molto se da Görres passiamo ad un altro esempio: sempre in Germania, nell’Ottocento, Jacob Grimm, uno dei famosi fratelli Grimm, formula una teoria della differenza sessuale in campo linguistico e dice che le vocali più elementari sono femminili, le consonanti, che sono il frutto più elaborato della riflessione, sono maschili, la forma attiva del verbo è maschile, la forma passiva del verbo è femminile. Niente è cambiato.

Un terzo esempio ottocentesco, molto importante, anche perché poi citato dalle femministe, ma secondo me molto spesso a sproposito, riguarda uno storico del Diritto Romano in particolare, Johann Jakob Bachofen. Bachofen nel 1861 scrive un famosissimo libro che si chiama Das Mutterrecht, nel quale formula la teoria che tutti i popoli, in tutti i tempi, devono passare attraverso degli stadi di sviluppo - non dimentichiamo che siamo nell'Ottocento, Darwin scrive negli stessi anni, quindi pieno evoluzionismo -; si tratta di una teoria dell'evoluzione storica appunto universale. Le fasi dell'evoluzione storica sono queste: in un primo momento c'è una fase che Bachofen chiama “afroditismo” o “eterismo” che è la fase di natura, dello stato di natura, in cui gli uomini comandano sulle donne perché hanno una superiore forza fisica. A questo stato di cose le donne reagiscono dapprima, dice Bachofen, tentando al guerriglia - lui vede il riflesso di questo in miti come quello delle amazzoni -, ma questa fallisce perché le donne non possono vincere con la forza.

Le donne possono vincere solo con la loro religiosità; con essa riescono a imporre il matrimonio monogamico e col matrimonio monogamico il matriarcato; Bachofen usa la parola “ginecocrazia”, Mutterrecht, ma normalmente si traduce “matriarcato”, anche se la traduzione non è perfetta. Quindi c'è un'epoca che Bachofen descrive come un'epoca felice, l'epoca del Mutterrecht, in cui - qui siamo al punto che ci interessa - trionfano i valori femminili, che sono la fratellanza, la giustizia, l'eguaglianza, tutti i valori che derivano dal fatto che la donna si identifica con la terra, che la donna è madre e quindi tutti gli uomini sono fratelli.

È molto interessante questa teoria di Bachofen, perché all'affermazione della femminilità in campo sociale collega l'affermarsi di una serie di valori e principi che sono ispirati alla differenza sessuale; per esempio la notte è femminile mentre il giorno è maschile, la luce quindi - questo c'era già in Görres - è maschile e il buio è femminile, la destra è maschile e la sinistra è femminile naturalmente e via dicendo. Il periodo, che Bachofen definisce “la poesia della storia”, il matriarcato - per questo è stato poi cos“ amato dalle femministe, per la descrizione poetica della storia -, viene però superato dal patriarcato, che si impone perché la donna, essendo legata appunto alla materia, non è in grado di far nascere lo stato e, con lo stato, il diritto. In epoca matriarcale ci sono le consuetudini, ma quando l'uomo, che è spirito, riesce a imporsi sulla materia, allora nasce lo stato con le leggi.

Questa prospettiva del pensiero di Bachofen, secondo me, è stata sempre dimenticata da chi ha ritenuto che egli fosse un precursore delle teorie femministe. Bachofen rimane comunque molto importante al di là del fatto che a lui si sono naturalmente ispirati i marxisti - Engels lo ha citato nella prefazione alla quarta edizione de L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato -, in quanto l'idea che la società patriarcale fosse solo un momento nello sviluppo storico coincideva con l'idea marxista per cui la famiglia borghese era destinata a tramontare. L’importanza di Bachofen consiste soprattutto nell'influsso che le sue teorie hanno esercitato sulla psicoanalisi. Erich Neumann in particolare, in un famoso libro, Die grosse Mutter, ha sviluppato, proprio basandosi su Bachofen, l'idea della diversità tra le strutture psichiche maschili e quelle femminili. Direi che, come si è si visto da questi esempi, ma molti altri potrebbero essere fatti, le teorie della differenza sessuale, dei generi sessuali, sono state per molti e molti secoli sempre le medesime.

Dopo il femminismo, in che senso invece le cose sono cambiate? Nel senso forse che oggi la teorizzazione della differenza ha smesso di svalutare il femminile?

Sì. Una precisa risposta alla domanda risulta però più complicata: certamente le teorie femministe della differenza non svalutano più il femminile, ma la questione è che il problema dei generi sessuali attraversa molte discipline, che vanno dalla teoria politica alla filosofia, alla biologia e quindi all'interno di ciascuna di queste discipline c'è chi lo affronta con un approccio femminista e chi lo affronta in un modo completamente diverso. Quindi ancora oggi ci sono delle teorie in materia che sono tutt'altro che femministe e direi che forse l'esempio più interessante, anche perché ha fatto enormemente discutere, è quello di Richard Possner. Richard Possner è un giurista americano che nel 1992 ha pubblicato un libro che si chiama Sex and reason, in cui ha avanzato una teoria “economica” della sessualità.

La spiegazione economica della famiglia era qualcosa di cui avevamo già sentito parlare, ma l'idea che i comportamenti sessuali avessero una spiegazione economica è assolutamente nuova. Possner ci tiene molto, giustamente, a indicare questo e cerca di spiegare i comportamenti sessuali, diversi a seconda che siano maschili e femminili, a partire della teoria dell'“attore razionale”, che è colui che fa le sue scelte a seconda dei benefici e dei costi. Egli allora sostiene che le scelte dell'attore femminile e dell'attore maschile sono diverse, perché la donna è diversa dall'uomo biologicamente e l'uomo ha un impulso sessuale, lui lo chiama sex drive, molto più forte di quello delle donne, perché il contributo dell'uomo alla procreazione si concentra in un momento, il concepimento, mentre il contributo della donna, naturalmente, dura di più nel tempo, nei nove mesi della gravidanza. Inoltre c'è il problema dell'allevamento dei figli, quanto meno nei primi tempi e allora, dice Possner, questo fa sì che la donna sia più selettiva nel cercare il partner, perché hanno bisogno di un uomo che, dopo che le ha fecondate, - lui usa il termine stick around - non si allontani, le stia vicino e quindi la aiuti in qualche modo in questo periodo.

La differenza sessuale, di comportamenti sessuali, viene spiegata da Possner appunto razionalmente, come spiegazione economica basata puramente sulla biologia. Tra l'altro - devo dire che le femministe lo hanno, giustamente, molto criticato - la teoria in questione questa si basa anche su veri propri errori: per esempio, l'idea di identificare la capacità sessuale con la capacità riproduttiva e non con la capacità, l'idoneità ad avere rapporti sessuali, è chiaramente sbagliata, perché l'impulso sessuale non è solo riproduttivo. Ciò porta Possner a poi sostenere tesi molto criticabili, perché siccome per lui appunto l'impulso sessuale è quello riproduttivo, allora tutte le scelte sessuali non riproduttive, diciamo “devianti”, sarebbero solo sostitutive. Ovviamente Possner è stato, a ragione, molto criticato anche da questo punto di vista, ma è stato ed è criticabile anche per un altro motivo: essendo la sua definizione del genere sessuale puramente biologica, egli costruisce un soggetto femminile unico, universale, monolitico, con un comportamento che è sempre lo stesso.

L'individuazione dell'identità di genere, anche se per lo più non basata esclusivamente sulla biologia, è stato uno degli obiettivi del femminismo negli ultimi anni. L'individuazione di un attore sessuale monolitico, dunque, non è di per sé antifemminista. Non è così?

Certamente non è di per sé antifemminista, anche se negli ultimi tempi queste teorie, per cui appunto si cerca di individuare un'identità di genere, sono state superate. Se vogliamo cercare di ripercorrere molto rapidamente l'atteggiamento del femminismo a questo proposito, direi che possiamo individuare varie fasi. In una prima fase le donne femministe scelgono una strategia che si può chiamare la “strategia del rifiuto”, cioè rifiutano la differenza sessuale e il riferimento al corpo come sede delle differenze viene inteso come un marchio di inferiorità, direi non a caso dopo quello che abbiamo detto sulle teorie, attraverso i secoli, sulla differenza sessuale. Questa è la fase emancipatoria del femminismo, in cui appunto si dice: non siamo diverse, siamo uguali agli uomini - strategia del rifiuto -, quindi chiediamo di essere trattate come gli uomini.

Questa prima fase viene però superata da una seconda fase, che ribalta completamente la situazione: chi assume questa posizione, la negazione della differenza, viene accusato di essersi omologata agli uomini, di avere accettato i loro valori, di non riconoscere appunto una fondamentale differenza; si passa allora alla fase dell’esaltazione delle differenze. Le donne non devono negare la differenza sessuale, ma piuttosto che sia quella che gli uomini hanno immaginato e costruito; il punto fondamentale è che solo le donne possono definire questa differenza. Per la seconda fase del pensiero femminista possiamo citare un'autrice, molto importante e molto nota, Carol Gilligan, la quale ha scritto un libro intitolato In a different voice. Nel libro si sostiene che appunto esistono praticamente mondi diversi maschili e femminili e che per esempio le donne parlano e ragionano con un'altra voce, che non è tanto la voce della giustizia astratta, la voce della ragione, ma la voce della care, - termine che viene tradotto in italiano un po' infelicemente con “cura”, ma non saprei come tradurre altrimenti -, e quindi propongono un'etica e una razionalità diverse. Si afferma quindi questo movimento femminista che è stato chiamato “femminismo culturale”, perché le sue rappresentanti tendono a proporre una controcultura femminile.

Possiamo fare qualche esempio di questa controcultura femminile?

Potremmo fare moltissimi esempi, ma io direi che uno dei più interessanti, anche perché è oggetto di un dibattito in corso, è quello che è stato definito l'“assalto alla ragione” da parte delle femministe. Sulla scia di Carol Gilligan, ma portando molto più in là il discorso, una serie di femministe statunitensi - Ruth Ginsberg, ad esempio - hanno scritto appunto che il modo di ragionare femminile è diverso. In particolare Ruth Ginsberg ha scritto che il “modus ponens”, che è una delle regole logiche fondamentali, è uno strumento inventato dal patriarcato per opprimere le donne, perché per le donne il ragionamento formale astratto è qualcosa di alieno; le regole della retorica tradizionale apparterrebbero al mondo maschile e sarebbero frutto del patriarcato che vuole opprimere le donne di cui non si riconosce la diversità.

Questa posizione radicale è stata ed è, ovviamente, oggetto di un dibattito molto interessante: Martha Nussbaum, per esempio, recensendo un libro sulla “New York Review of Books”, ha proprio reagito contro questo che lei chiama “l'assalto femminista alla ragione” e ha detto, come tante altre femministe, che invece la ragione e l'obiettività dovrebbero essere le nuove armi della donne e non qualcosa contro cui esse si trovano a combattere. Sempre in questo filone di rivalutazione della ragione, c'è stata un’interessante, anche se secondo me discutibile, rivalutazione del pensiero di Aristotele: in realtà Aristotele non avrebbe ignorato il ruolo delle emozioni e contrapposto ragione ed emozioni, ma avrebbe invece contemperato e armonizzato questi due aspetti della vita umana. Assistiamo così ad una singolarissima rivalutazione di un autore che, al contrario, è uno dei più misogini della storia occidentale.

L'esaltazione della differenza è comunque sottoposta a critica: in America si dice che le femministe che esaltano la differenza siano “gender essentialist”, cioè che immaginino, credano che ci sia una “essenza” della donna. Questa presunta essenza della donna è considerata, a mio pare giustamente, qualcosa che inchioda la donna appunto a questa stessa essenza, dalla quale non si può liberare seguendo il processo della propria emancipazione. Questo tipo di femminismo in realtà ripropone il discorso della differenza, sia pur ribaltato, ovvero non svalutando ma esaltando il femminile, e rimane così di fronte al vecchio problema. Ci sono state molte femministe allora che hanno detto che non solo è inopportuno ma è addirittura impossibile identificare un “genere femminile”.

Qual è la situazione del dibattito sulla questione della definizione del “genere” e che conseguenze ha avuto l'avvento del femminismo post-moderno?

Che non sia desiderabile, lo ritengono molte femministe appartenenti a filoni diversi del femminismo. In Italia è ancora molto forte il filone dell'esaltazione della differenza; direi che negli Stati Uniti la situazione è diversa. Che sia impossibile definirlo, è una cosa che hanno sostenuto le femministe post-moderniste. C'è un filone del femminismo che si ispira al post-strutturalismo, si ispira ad autori quindi come Lacan, Derrida o Foucault, che, al di là delle differenze enormi, hanno forse in comune questo: tutti e tre, come molti altri, pensano che il soggetto, che l'Umanesimo riteneva si potesse individuare, recuperare, come fondamento, sotto le sovrastrutture culturali e sociali, sia in realtà un prodotto di una prospettiva superata.

Le femministe, applicando questo discorso che io naturalmente ho proposto in modo schematico, sostengono che la differenza sessuale non è la base sulla quale si costruisce il gender, la differenza di genere, perché la differenza sessuale è a sua volta un prodotto sociale. Ribaltando i termini della questione, affermano che è il genere che produce la differenza sessuale, in quanto le pratiche sociali e culturali influiscono sulle strutture psichiche e quindi influiscono sulle differenze sessuali. Questa è, per esempio, la posizione di una delle femministe più interessanti che fanno capo a questo filone, Joan Scott.

Per quanto concerne il femminismo post-moderno, si deve dire che questo avuto certamente conseguenze importanti; tra l'altro ha segnato una frattura tra gli studi sulle donne e gli studi sul genere. Tradizionalmente nella storia delle donne si studiava, si cercava di individuare l’identità e le esperienze proprie della donna; dopo il post-femminismo, il post-modernismo e il post-strutturalismo si è detto invece che non si possono studiare queste identità ed esperienze, ma si possono studiare solo rappresentazioni che sono presenti o assenti nei testi e quindi non si può studiare il soggetto femminile perché esso è un soggetto indeterminabile. Julia Kristeva, che forse è l'esponente che porta più di tutti alle conseguenze logiche questo ragionamento, dice che la donna “non è” e che quindi la politica femminista è una politica che si può fare solo in negativo: rimane solo la possibilità di opporsi a quello che c'è, ma non si può definire e costruire qualcosa in positivo.

Quindi questo ha avuto conseguenze molto importanti sul piano storiografico e sul piano politico, perché il post-strutturalismo conduce ad una specie di paralisi politica, poiché, se la soggettività è costruita dal discorso - il discorso, come è ben noto, è il prodotto delle istituzioni nelle quali secondo Foucault risiede il potere, la famiglia, la scuola, l'ospedale, la fabbrica, il carcere - allora non esiste un centro di potere contro il quale combattere, perché il potere è diffuso e generalizzato. La conseguenza di ciò è che, dal punto di vista della politica, l’individuazione di un movimento politico femminista si scontra con difficoltà e problemi molto seri.


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