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Appunti sulla situazione


Michele Salvati




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Appunti sulla situazione del Centro-sinistra


Lo scopo di questi appunti è soltanto quello di contribuire al dibattito in corso nel Centro-sinistra. Volutamente, quindi, alcune affermazioni e proposte sono più forti di quanto mi sentirei di sostenere in un diverso contesto: asserzioni nette, persino schematiche, sono più utili di perifrasi sfumate e diplomatiche. Gli appunti sono divisi in due segmenti, il primo relativo a temi di “contenitore” (di architettura delle forze politiche), il secondo a temi di “contenuto” (di programma, messaggio, policies). Comincio dal primo, anche se invito a sospendere il giudizio sino a lettura ultimata di entrambi: per ragioni di chiarezza espositiva la divisione è opportuna, ma nella realtà i due segmenti sono intrecciati e non saprei dire quanta parte della spiegazione del cattivo stato del Centro-sinistra oggi dipenda dall’uno o dall’altro.

Contenitori

Se vogliamo insistere su un confronto bipolare, su una politica dell’alternanza tra due opposti schieramenti di centrodestra e centrosinistra (CS e CD), su un premier e un governo scelti dagli elettori (obiettivi che qui assumo e non discuto, ma che sono cruciali per il ragionamento successivo e del tutto discutibili), allora il principale problema di “contenitore” è quello di (ri)costruire un CS degno di questo nome, facile da capire per gli elettori, semplice nei suoi principi ispiratori anche se plurale nelle sue espressioni partitiche. E per capire bene quali sono i problemi che affliggono il CS, la cosa migliore è analizzare le ragioni di forza del CD.

Forza Italia è partita subito, dal 1994, con il grosso vantaggio strutturale di essere, insieme, il partito più importante e più centrista della sua coalizione (se non si considera il piccolo CCD), un partito che lasciava verso destra gli alleati indispensabili per vincere, Lega e AN. Poi le cose sono andate come è ben noto: la Lega ha ribaltato e il CS ha vinto nelle elezioni del ’96, anche grazie all’Ulivo, ma soprattutto grazie alle divisioni nel campo avversario. Merito indubbio di Berlusconi (e demerito delle forze politiche del CS, per non avere ostacolato la sua strategia) è stato quello di avere pazientemente ritessuto e rafforzato la tela che l’aveva portato a vincere nel 1994: con la (involontaria?) collaborazione del CS, egli ha reso politicamente (quasi) inagibile l’obiezione del conflitto di interessi; si è fatto legittimare dal PPE; ha rintuzzato la sfida di AN; ha riconquistato la Lega, cosa, quest’ultima, niente affatto scontata fino a buona parte dell’anno scorso.

Oggi quindi Berlusconi può trarre pieno profitto dal vantaggio strutturale che FI aveva fin dalla nascita (e di cui all’inizio forse non era neppure consapevole),  avendo costruito una coalizione di CD che riesce a raccogliere tutto quanto sta a destra (e all’estrema destra) dello schieramento politico senza perdere  capacità competitiva verso il centro, presidiato appunto dal partito più forte e dal suo leader.

Naturalmente si tratta di un CD all’italiana, anche se ovunque  un CD di successo è costituito da una miscela di ingredienti eterogenei: di ingredienti liberali, di ingredienti conservatori e talora reazionari, di ingredienti populisti. Ma vediamo meglio gli ingredienti del CD nostrano. (a) Quello liberale è molto scarso, ma è scarso anche nel CS perché è debole in Italia, per ragioni storiche che affondano molto indietro nel tempo. (b) Molto abbondante è invece quello conservatore, nelle sue diverse componenti. C’è anzitutto la componente di natura religiosa (il “dio e famiglia” della triade  “dio, patria e famiglia”). Predominante è però la componente opportunistico-corporativa, di pura difesa dello status quo e di (alcuni) interessi privilegiati dalla legislazione e dalle pratiche sociali e istituzionali in essere. Essa fa a pugni con la componente liberale: ma si tratta di un contrasto presente anche nel CS e inevitabile nel nostro paese. (Nel CD che Berlusconi va costruendo, tuttavia, non si scorgono proprio i Ciampi, i Visco, i Giarda che hanno sventato l’assalto alla diligenza in questi ultimi anni e si intravvede invece, dalle pagine del Giornale, la preoccupante figura di Cirino Pomicino: scommettiamo che, se vince Berlusconi, il Tesoro non sarà affidato ad Antonio Martino?)

E c’è infine la componente nazionalistica con venature nostalgiche (il”patria” della triade conservatrice): dati i tempi che corrono, non riesco proprio a vederla con antipatia ed anzi mi dispiace che sia piuttosto debole. (c) Un ingrediente importante, qualcosa di più di una goccia di angostura, è quello populistico nella sua variante localistica: la Lega trasmette lo stesso messaggio xenofobico, semi-razzista e anti-cosmopolitico dei movimenti di estrema destra europei. La differenza con Haider & Co. –e una differenza significativa, sia di per sé, sia perché consente a Berlusconi un’alleanza che sarebbe altrimenti impossibile- è che non condisce questo messaggio con salsa fascista,  indigesta in una parte del paese in cui, specie a livello popolare, la parola fascista è un insulto. (d) C’è infine, nella misura in cui non è catturata interamente dalla Lega (e non lo è), un’atmosfera più che un ingrediente specifico, un contesto in cui la destra si muove con maggior agio della sinistra: un contesto fatto di paure, di irrazionalità, di antipolitica, di richiesta di  decisioni spicce, di fastidio per le procedure democratiche (non solo per le procedure bizantine della nostra burocrazia). L’appeal del capo, dell’autorità indiscussa che semplifica i problemi, della persona forte, viene da qui.

Questo è il CD all’italiana: sicuramente una formazione meno civile dei conservatori inglesi o dei cristiano-democratici tedeschi o dei due grandi partiti del centro-destra francese, ma questo perché noi non siamo “civili” come gli inglesi o i tedeschi o i francesi. Si tratta però di una formazione che copre la stessa rappresentanza di interessi e lo stesso spettro ideologico-politico di quei partiti, anch’essi caratterizzati da una miscela, sia pure in proporzioni diverse e con diversi stili nazionali, di ingredienti liberali, conservatori e populisti. E si tratta di una formazione particolarmente efficace, perché è egemonizzata da un partito con una leaderhip forte e percepito da gran parte dagli elettori come partito di “centro”: i moderati non hanno paura di votare insieme a leghisti ed ex-fascisti, perché si sentono sicuri che il potere è saldamente nelle mani di Berlusconi. Nello stesso tempo, questo partito di centro riesce a rastrellare tutto ciò che c’è a destra nello schieramento politico, cosa che né i francesi, oltretutto divisi in due, né i tedeschi riescono a fare.

Berlusconi, l’uomo Berlusconi, proprio il grande tycoon in vistoso conflitto di interessi, è essenziale nel cementare questo blocco, nel rassicurare i moderati e insieme soddisfare la domanda di autorità e le pulsioni antipolitiche di non pochi italiani. Non voglio ovviamente sostenere che si tratti di una configurazione priva di tensioni o particolarmente solida: vi abbiamo già accennato, vi torneremo e poi lo vedremo alla prova del governo, se il CD vincerà le elezioni. Voglio solo dire che si tratta della più efficace configurazione che il CD poteva assumere nel nostro paese, imperniata su, e dominata da, un vero partito e un vero leader politico. Non un partito soltanto mediatico, e neppure un partito radicato e di massa, come vorrebbe Asor Rosa, perché partiti di questo tipo non sono più possibili. E’ un partito vero perché esprime un messaggio (più che un progetto) politico, facilmente leggibile dagli elettori più sprovveduti ma accettabile anche da quelli più smaliziati. Questo però lo capiremo meglio parlando di contenuti.

La situazione del CS è quasi speculare a quella che ho appena descritta. Laddove nel CD, fin dall’origine, esisteva una condizione di vantaggio strutturale, nel CS fin dall’origine si dava una condizione di svantaggio strutturale, che Prodi e l’Ulivo avevano ricoperto con uno spesso strato di stucco e intonaco, ma che poi è riemersa aprendo crepe profonde nella costruzione della coalizione. Laddove nel CD il partito dominante occupa una posizione spostata verso il centro dello schieramento politico e relega alla sua destra (se si esclude il piccolo CCD) gli altri e meno forti partiti, nel CS il partito dominante è un partito ex-comunista, ancora percepito dagli elettori come un partito di sinistra e non di “centro che guarda a sinistra”, mentre i partiti che si collocano verso il centro dello schieramento sono piccoli, numerosi, rissosi, taluni di essi oscillanti nella loro lealtà (incerti se guardare a destra o a sinistra), impari a Berlusconi nella loro capacità di attrarre gli elettori centristi per la natura del loro messaggio (e rinviamo di nuovo al segmento sui contenuti per sviluppare questo punto).

Mentre gli elettori centristi possono ragionevolmente ritenere che Berlusconi e Forza Italia siano in grado di “tenere a bada” ex-fascisti e leghisti, c’è qualcuno che possa ragionevolmente ritenere che popolari e socialisti, diniani e verdi, democratici e mastelliani, oltretutto in lite tra di loro, possano tenere a bada gli ex-comunisti (ora divisi in tre diversi partiti)? C’è bisogno di altro motivo per spiegare la determinazione ossessiva con cui Berlusconi cerca di inchiodare i diessini al loro passato comunista? E poi dov’è l’uomo forte, il leader vero? Come Urano, il CS sembra solo capace di divorare i suoi figli, i suoi leader emergenti, prima che possano crescere. E infine: Lega e AN si sono piegate al progetto di Berlusconi, mentre Rifondazione sembra essere un osso assai più duro per qualsiasi progetto di CS, giacché ne rifiuta l’assunto fondamentale, la costruzione di una coalizione per governare. In una competizione bipolare la capacità d’attrazione sull’elettore mediano, nello spazio moderato e centrista dell’elettorato, insieme alla capacità di rastrellare tutto ciò che esiste verso il lato estremo del proprio schieramento, sono requisiti strutturali per il successo (al di là delle possibili grandi oscillazioni, verso destra o sinistra, dell’opinione pubblica). Berlusconi li possiede entrambi, il CS nessuno.

Sempre a prescindere dalle grandi oscillazioni d’opinione (che ogni tanto avvengono, ma sulle quali non si può fare un gran conto), e prescindendo anche dal ragionamento sui contenuti che aggiungeremo fra poco, a me sembra evidente che uno degli obiettivi di fondo del CS dev’essere quello di eliminare le condizioni di svantaggio strutturale che esso manifesta nei confronti del CD. E quindi deve costruire qualcosa di simmetrico a Forza Italia: una formazione politica (forse basterebbe una federazione, ma percepita come soggetto unitario) di centro che guarda stabilmente a sinistra, e sicuramente egemone nei confronti del resto della coalizione. Quanto più la coalizione riesce a raccattare alla sua sinistra, tanto meglio: per vincere va bene anche Bertinotti, anzi forse è essenziale come lo è la Lega per il CD, se il grosso degli elettori si convince che il partito egemone riesce a “tenerlo a bada”. Ma il pivot della formazione dev’essere spostato verso il centro e, nello stesso tempo, deve “guardare” a sinistra stabilmente e senza tentennamenti, proprio come Forza Italia guarda stabilmente e credibilmente a destra. Insomma, il meglio sarebbe un vero e grosso partito di centrosinistra, e con un leader forte, proprio come Forza Italia è un credibile partito di centrodestra con un capo indiscusso.

Fermiamoci un momento, prima di proseguire nell’analisi e trarne delle conclusioni politiche. Propongo alla discussione quattro problemi. Primo e preliminare: Forza Italia è veramente percepito come un partito di “centro”, sia pure orientato a destra? E’ veramente un partito così forte e competitivo perché è in grado di attrarre elettori moderati, elettori indecisi tra il voto al CS e al CD? Insomma, si può applicare al nostro caso quella teoria dell’elettore mediano che si applica con successo ad altri sistemi bipartitici o bipolari? E insieme: è il partito dei DS ancora percepito come un partito lontano dal centro, come un partito nettamente di sinistra, come il vero erede del vecchio PCI? Se si dà una risposta negativa a queste domande cade buona parte dell’analisi dei contenitori che abbiamo avanzata, e soprattutto cade la proposta del “nuovo Ulivo” che faremo più avanti. Non si tratta di domande retoriche, con risposta positiva incorporata: si tratta di domande vere, che invitano a riflettere. A riflettere, anzitutto, sulle percezioni degli elettori, sulle collocazioni che essi danno dei diversi partiti nell’asse destra-sinistra. E a riflettere sulla natura del messaggio di FI: si tratta veramente di un messaggio moderato? Questa seconda area di riflessione riguarda i contenuti e qualcosa diremo in seguito.

Ma è importante: si potrebbe infatti sostenere che l’origine della competitività di FI non sta affatto nella sua natura centrista, ma nella sua capacità di promuovere-interpretare una vera e propria ondata di destra nell’opinione pubblica italiana, e che dunque la risposta che suggeriamo (la costruzione di un partito simmetrico a quello di Berlusconi, un partito percepito come partito di centro, seppure orientato a sinistra) non coglie il problema. A me sembra, invece, che lo colga, e che sia utile distinguere il problema dei contenitori da quello dei contenuti: collocarsi al centro del sistema politico non significa necessariamente essere “moderati”, ma essere anche capaci di cogliere-promuovere ondate di opinione che coinvolgono una grande massa di elettori, e nulla mostra meglio questa affermazione che la vittoria della signora Thatcher, nella seconda parte degli anni ’70, contro i moderati del suo partito.. La successiva vittoria elettorale non sarebbe stata possibile se la Thatcher fosse stata leader di un partito da sempre percepito come partito ideologico di destra, e non invece di un partito capace di interpretare i sentimenti di una gran massa di elettori.

Anche il secondo problema, già menzionato, è di natura preliminare: tutta l’analisi regge se ci si mantiene fedeli all’obiettivo di costruire una democrazia dell’alternanza, una democrazia bipolare i cui soggetti sono il CD e il CS e sono gli elettori a scegliere il governo. In altre parole, l’analisi regge se, incassato il risultato del referendum, lo si considera come la semplice reiezione di una delle possibili modalità tecniche con la quale si pensava di rafforzare la democrazia bipolare, e non la reiezione dello stesso obiettivo. Nella democrazia parlamentare in cui ancora viviamo, i soggetti sono pur sempre i singoli partiti, le maggioranze si formano in parlamento e il governo non lo scelgono gli elettori: il CD e il CS come li abbiamo descritti, soggetti stabili e coerenti che si perpetuano da una elezione all’altra, semplicemente non esistono. Per farli vivere bisogna volerli intensamente e perseguire, nella prassi politica, nel costume e nei regolamenti parlamentari e possibilmente mediante riforme elettorali e costituzionali, un disegno non facile e pieno di ostacoli.

Vale la pena di perseguirlo? Credo che sarebbe opportuno dedicare qualche attenzione a questo problema perché incertezze e ripensamenti cominciano a manifestarsi anche tra le file della sinistra di governo e l’articolo di Pirani (Repubblica, 16 giugno) ne è una manifestazione esemplare: ormai non sono più soltanto Rifondazione, comunisti e alcuni partiti di centro a rimpiangere l’assetto della prima repubblica e a considerare il bipolarismo una iattura per la sinistra, ma una parte non piccola degli stessi DS. Il bipolarismo, dunque, non può essere più assunto come un orizzonte accettato da tutti, ma dev’essere ridiscusso e rimotivato nelle circostanze di oggi.

Il terzo problema riguarda gli errori di strategia politica del CS e dei DS in particolare (degli errori di policy e di messaggio diremo parlando dei contenuti). Con il senno di poi alcuni sono così evidenti (la sostituzione di D’Alema a Prodi senza andare alle elezioni) che la discussione potrebbe sembrare inutile e soltanto acrimoniosa. Non è così: un giudizio largamente condiviso sul recente passato è parte integrante di una strategia rivolta al futuro e se, per quieto vivere o per riluttanza a identificare responsabilità personali, ci si astiene da tale giudizio, ci si preclude anche la possibilità di perseguire in modo convinto e convincente una strategia corretta. All’interno dei DS, “Ulivo” e “partito socialdemocratico” erano due strategie non banali, entrambe caratterizzate da (diversi) aspetti positivi e negativi, e la stessa gestione di entrambe poteva avvenire in modi differenti. Se gestite in modo idoneo, entrambe potevano essere intese come modalità alternative di risolvere il problema dello svantaggio strutturale del CS, l’assenza di una formazione di centrosinistra egemone sugli alleati e attraente per l’elettore mediano.

Entrambe furono mal gestite, e lo fu in modo particolare quella del partito socialdemocratico, sia perché non venne fatto alcuno sforzo adeguato per trasformare dall’interno i DS in un partito di riformismo liberal-socialista; sia perché –nella mancanza o nell’insufficienza di questo sforzo- i partiti del centro alleati con i DS non furono in grado di costruire loro stessi, fondendosi e trasformandosi, un partito avente queste caratteristiche, e tutti quanti -DS, partiti di centro e comunisti- si accontentarono di tirare avanti come una normale coalizione da prima repubblica (quattro governi e tre presidenti del consiglio in una legislatura), così accentuando lo svantaggio strutturale nei confronti del CD. Materiale per discutere, episodi da interpretare, opinioni da confrontare ce n’è in abbondanza, e questa non è la sede dove ciò possa essere fatto, anche perché preme il quarto problema, il vero problema di “contenitore” che abbiamo di fronte da quando è crollato il primo Ulivo: un secondo e “nuovo Ulivo”, o un CS a “due gambe”, una di centro e una di sinistra?

La propensione della sinistra interna ai DS per la seconda soluzione  è implicita nell’obiettivo di fare dei DS un partito nettamente di sinistra (anche se non mi è del tutto chiaro che cosa questo voglia dire, e i riferimenti a Lafontaine o Jospin confondono più che aiutare): in un contesto bipolare, ciò implica una alleanza complementare e specializzata, con il centro che fa il centro e la sinistra che fa la sinistra, il che rende a entrambi la vita più agevole con il “proprio” elettorato. Ma, com’è ben noto, la sinistra interna accetta il bipolarismo fin che questa è l’opinione prevalente nel partito e non ne è certo una sostenitrice entusiasta: il suo obiettivo è il partito in se stesso e i rapporti di questo con i comunisti e Rifondazione, il vecchio insediamento del PCI, e a tale fine un sistema proporzionale e da prima repubblica le va anche meglio di un sistema bipolare. Ora, in un contesto bipolare –se è questo che si continua a volere- non ci sono obiezioni di principio nei confronti di un “CS a due gambe”, purché la gamba di centro sia egemone, ben diretta e guardi stabilmente e per ragioni di principio a sinistra (personalmente, in questo caso, non saprei in quale gamba stare, ma questi sono problemi miei).

Le obiezioni sono di fatto: proprio non si vede come dall’insieme dei partiti che contornano i DS verso il centro possa saltar fuori un soggetto politico capace di agire come un efficace dirimpettaio di Berlusconi, perché è assai dubbio che, senza il contributo di almeno una parte dei DS, potrebbe formarsi un soggetto forte quanto è necessario (ovviamente il “dirimpettaio” non potrebbe esserlo i DS da soli, se rinsaldassero i loro rapporti con i comunisti e Rifondazione). Quella possibilità non si vede perché non c’è: non c’è né dal punto dei contenitori (ci stanno provando, con esiti che sono sotto gli occhi di tutti); e non c’è dal punto di vista dei contenuti, perché sarebbe difficile costruire un soggetto forte e, insieme, stabilmente ancorato alla sinistra, proprio come Berlusconi è stabilmente ancorato alla destra. Non rimane dunque che l’altra strada, quella del “nuovo Ulivo”, o comunque lo si voglia chiamare.

Il nuovo Ulivo

Anche questa non è una strada agevole e temo che analizzarla solo sotto il profilo dei soggetti  esistenti, dei partiti e delle sigle politiche che ci sono e di una loro eventuale sommatoria, non consenta di scorgere né le potenzialità, né i rischi che il tentativo comporta. Il nuovo Ulivo, il “dirimpettaio” di Forza Italia –dovremmo ormai averlo appreso- dev’essere un soggetto politico dotato di grande forza ideologica ed elettorale. Dev’essere, come l’Ulivo voleva essere e in alcuni momenti è sembrato essere, una sintesi coerente delle grandi tradizioni riformistiche italiane: di quelle aventi come matrice il socialismo e il movimento operaio, di quelle cattolico-popolari (assolutamente essenziali nella miscela), di quelle laico-repubblicane, forse di quelle ambientalistiche, anche se quasi ovunque, e per ragioni comprensibili, i verdi preferiscono stare da soli. E dev’essere qualcosa che, nella sua leadership e nella sua dirigenza, non possa essere ricondotto prevalentemente ai leaders e ai dirigenti dell’ex-PCI e dell’ex-FGCI.

Non voglio dire che i diessini non debbano partecipare alla costruzione del nuovo Ulivo, al contrario: data la debolezza degli attuali socialisti, sono i DS che oggi rappresentano nel nostro paese la tradizione del movimento operaio, ovunque predominante nei vari CS europei; e poi, di fatto, i DS rappresentano tuttora la più grossa e più organizzata concentrazione di forze riformistiche e liberalsocialiste oggi esistente. Voglio dire due cose: che per costruire il nuovo soggetto egemone del CS all’italiana (il “dirimpettaio” di Forza Italia, come l’abbiamo chiamato) sarebbe opportuna una ulteriore, forte e credibile sterzata del partito, che lo mettesse in maggior sintonia –come vedremo meglio in seguito- con orientamenti innovatori e riformisti; e poi che la direzione effettiva della nuova formazione politica dovrebbe essere composta da persone con una pluralità di origini, radicate nelle diverse tradizioni del riformismo italiano, possibilmente con un leader non  ex-comunista (quantomeno nel prossimo futuro: questo è importante –più che per gli elettori o per sventare la propaganda di Berlusconi- per rassicurare le deboli forze politiche che devono essere parte del nuovo soggetto). Insomma, ci deve essere una discontinuità.. So benissimo che in Europa le cose stanno diversamente, che le tradizioni laiche e religiose orientate a sinistra sono parte integrante dei partiti socialdemocratici: questa era l’idea-forza che stava dietro la Cosa2. E so benissimo che molti partiti socialdemocratici europei hanno al loro interno forze di sinistra estrema. Ma il PCI non era un partito socialdemocratico e la Cosa2 ha partorito un topolino: tutti conosciamo le ragioni, lontane e prossime, che hanno condotto a questo esito.

Se si ha il coraggio di rischiare, questa è la prospettiva, assai più vicina al Partito Democratico che all’Ulivo, se esso è inteso solo come una alleanza o una confederazione lasca. Oltre a quella dei DS, sono tre le segreterie di partito che devono rischiare: le segreterie dei popolari, dei democratici, dello SDI (la partecipazione di altri, laici e cattolici, è sollecitata, ma questi mi sembrano essenziali). Il rischio è quello di rivolgersi ai propri militanti ed elettori ed innescare un processo costituente che parta dal basso e che coinvolga una platea più vasta che non i militanti in senso stretto. Insomma, un processo di statu nascenti simile a quello che ha caratterizzato alcuni momenti iniziali dell’Ulivo, ma più azzardato e coinvolgente. Come allora, il CS è alle soglie di una elezione difficile, più difficile di allora, e l’obiettivo è ancora più alto: quello di fondare un partito vero (in forme federate o tentando addirittura una fusione?), identificare un gruppo dirigente, scegliere insieme il segretario della federazione e il candidato premier, perché è perfettamente vero che il candidato premier dev’essere il leader del partito maggiore, …se il partito è quello giusto.

Elezioni primarie come quelle delineate dalla proposta D’Amico-Targetti possono essere uno dei tanti modi per innescare il processo, ma altri vanno inventati: purché si tratti di un processo che coinvolga tutto il popolo riformista che si oppone al CD di Berlusconi, e non un accordo romano di cooptazione di vertici, com’è stata la Cosa2. Se le segreterie dei partiti che ho menzionato vogliono rischiare (e chi rischia di più è quella dei DS, che metterebbe sul piatto il patrimonio maggiore, ne ricaverebbe il beneficio minore in termini di visibilità e di potere, e forse andrebbe incontro ad una ulteriore lacerazione, perché faccio fatica a vedere come possa la sinistra interna assecondare questo processo), il treno può partire, subito. Temo che il treno non partirà, e che solo i Democratici saranno d’accordo con questa proposta. Spero di sbagliarmi, ma non lo saranno i popolari, ingrediente essenziale del processo, per l’orgoglio identitario che li contraddistingue e per la scarsa volontà a mischiarsi con i laici: per loro, temo, la caratterizzazione religiosa e/o il retaggio di una grande tradizione politica fanno premio su quella di sinistra moderata. Non lo saranno i DS perché hanno troppo da dare e troppo poco da ricevere, e poi il rischio di una scissione comprensibilmente li spaventa, dopo averne già subita una e così traumatica.

E non lo sarà lo SDI, che pure darebbe poco e riceverebbe tanto, perché il risentimento è ancora troppo forte. Peccato. Perché se il tentativo che ho descritto è azzardato, le alternative sono ben poco entusiasmanti. Un “nuovo Ulivo”, come accordo tra i vertici dei partiti che ho menzionato, più i verdi e i comunisti (e ammesso che tutti ci stiano), non è proprio il “dirimpettaio di Forza Italia” che il CS dovrebbe costruire ed una eventuale sconfitta lo manderebbe in frantumi: in ognuno dei singoli partiti, all’opposizione, prevarrebbero forze centrifughe od estremistiche e faccio fatica a vedere chi prenderebbe in mano, come ha fatto Berlusconi, il bandolo della matassa per ritessere la tela di una formazione di governo alternativa. Uno dei grandi vantaggi della proposta “azzardata” è che, anche all’opposizione, il pivot del futuro governo già esisterebbe, e per sua natura sarebbe al riparo da tentazioni estremistiche. Non parliamo poi di un regresso dell’intero sistema politico nel proporzionalismo della prima repubblica: qui le speranze per la sinistra di tornare al governo o non esistono o sono lasciate all’opportunismo di Berlusconi, che potrebbe trovare (bontà sua) troppo alto il prezzo che richiede il forno della Lega o di Alleanza Nazionale e decidere di rivolgersi al forno delle sinistre.

Contenuti

Gli appunti sulla “situazione del Centro-sinistra” potrebbero finire qui, perché quanto ho da dire sui contenuti aggiunge spessore e integra quanto ho detto sui contenitori, ma non altera la proposta che ho derivato dall’analisi precedente: i contenuti sono molto più stabili dei contenitori e la botte del CS (che deve estendersi dal centro a Bertinotti, e non può fare a meno del sostegno – o nella non-ostilità- dei sindacati) dà il vino che ha: un vino che un governo forte e un premier autorevole (di nuovo: questione di contenitori) possono migliorare e che sicuramente può essere presentato meglio di quanto è avvenuto, ma che non può trasformarsi da un buon barbera in un grande Chateau. Un vino con ingredienti migliori di quelli del CD, ne sono convinto, ma, quando si scende dai grandi principi alle uve effettivamente pestate nella tinozza, un enologo avrebbe parecchio da ridire. E’ per questo che non mi soffermerò sui principi, sui motivi di fondo per i quali io sarò sempre un uomo della sinistra, sulla miscela tra “libertà di” e “libertà da” che mi sembra desiderabile e sugli interventi pubblici che ritengo necessari al fine di costruire una società decente, come direbbe Margalit. Darò solo una rapida occhiata alle uve effettivamente pestate nella tinozza della sinistra italiana in questi anni di governo, tentando un affresco altrettanto spassionato di quello che più sopra ho dedicato alla destra.

Anche la sinistra italiana ha un ingrediente liberale, che le viene da una bella tradizione rinverdita in  anni recenti e che costituisce l’indispensabile ponte che connette destra e sinistra in tutti i paesi capitalistici progrediti. Come per la destra, si tratta di un ingrediente scarso e debole, in un confronto con alcuni altri paesi europei e soprattutto con i paesi anglosassoni. E come la destra miscela il liberalismo con ingredienti conservatori-tradizionalistici (“dio, patria e famiglia”), la sinistra lo mischia con ingredienti solidaristico-egualitari, cui il riformismo cattolico, nel nostro paese, aggiunge un’attenzione particolare per almeno due dei termini della triade di più sopra. Gli ingredienti appena descritti, nei fatti, conducono alla difesa degli assetti di welfare e delle forme di tutela del lavoro dipendente raggiunte all’apogeo del grande sviluppo fordista del dopoguerra e ad un pregiudizio favorevole nei confronti dell’intervento dello Stato come correttivo delle tensioni sociali, delle vere e proprie ingiustizie, a volte delle stesse inefficienze causate dall’operare libero del mercato. Queste difese, tutele e pregiudizi, in sé comprensibili e in misura controllata perfettamente giustificati, si mischiano però con un terzo ingrediente della “sinistra che c’è”, un ingrediente simile a quello che opera nella destra, anche se si rivolge a interessi e settori sociali in parte diversi: l’ingrediente corporativo-opportunistico.

Il nostro è un paese di interessi e di corporazioni forti e invece di regole, stato e governi deboli: ciò conduce la sinistra (o almeno ha condotto il governo di centro-sinistra) a compromissioni evidenti, talora in contrasto con gli stessi ingredienti che abbiamo prima indicato, sia quello liberale, sia quello solidaristico-egualitario: il welfare che abbiamo non è soltanto difficilmente sostenibile, è soprattutto ingiusto. E quante volte il governo si è piegato di fronte alla rivolta degli interessi, e non soltanto (e neppure principalmente) a quelli dei sindacati. Consiglio a tutti la lettura di un libro appena pubblicato (Paolo Glisenti, La fine dello stato padrone) perché è una rassegna molto ampia della lotta tra iniziative riformatrici e interessi, dove si può apprezzare (anche se non sempre) la buona volontà e l’intensità dello sforzo, ma soprattutto la resistenza e troppo spesso la vittoria degli interessi e delle corporazioni. Ma con queste osservazioni siamo arrivati alle ragioni di fondo che giustificano, anche dal punto di vista dei contenuti, la situazione non brillante del CS alla vigilia della prova elettorale decisiva.

Tra governo e opposizione, in una prova elettorale, c’è una evidente asimmetria: le forze di governo giocano in difesa, quelle di opposizione in attacco. Che lo vogliano o no, le forze che hanno sostenuto il governo sono costrette a difenderne l’operato, e argomenti del tipo “faremo meglio la prossima volta” ben di rado risultano convincenti, giacché sembrano confermare le critiche dell’opposizione. Le forze di opposizione non hanno alcun comportamento e risultato concreto da difendere (certo, c’è il loro comportamento come opposizione, ma è assai meno vincolante) e sono libere di scegliere terreno di gioco e modalità di attacco. Quando i risultati della legislatura sono percepiti dall’opinione pubblica come criticabili (o decisamente negativi o al più come “bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto”), l’opposizione può limitarsi ad approfondire il solco che si è scavato tra governo e opinione pubblica e confezionare un messaggio che in questo si incunea.

Più sopra dicevamo che Berlusconi è un vero leader politico e Forza Italia un vero partito: al di là dell’apprezzamento per le capacità strategiche che Berlusconi ha rivelato, il riferimento era alla forza del messaggio del “polo delle libertà”, che cattura le insofferenze dei ceti produttivi sia per le insufficienze e i ritardi dell’azione riformatrice del CS, sia, invece, perché tentativi riformatori ci sono stati e hanno creato allarme; promette futuri radiosi (anche per i ceti più svantaggiati) se soltanto lacci e laccioli saranno rimossi; e soprattutto lascia nel vago a quali libertà si riferisce, se le libertà dei veri liberali o la licenza dei potenti e i privilegi delle corporazioni. Se a ciò si accompagna un corteggiamento incessante nei confronti degli interessi elettoralmente influenti e il boicottaggio delle esitanti, ma preoccupanti, iniziative anticorporative del CS (dai professionisti ai commercianti, dai tassisti al pubblico impiego), si può apprezzare in pieno la forza retorica e politica del messaggio. Naturalmente una cosa è un messaggio efficace, una diversa un vero programma. Questo però lo si potrà sperimentare solo se il Polo vincerà le elezioni (discorsi seri di programma hanno un ruolo assai limitato in campagna elettorale) e non ho dubbi che le contraddizioni insite in quello schieramento creerebbero problemi non piccoli ad un governo di centro-destra. Sarà però troppo tardi e il CS dovrebbe ingegnarsi da subito per far capire nel modo più semplice possibile che il messaggio di libertà (licenza? privilegio?) è un messaggio ingannevole e che governare è una cosa ben diversa che assecondare, dall’opposizione, tutte le forze che protestano contro il governo. (Nel frattempo il Polo può anche fare degli errori, come ha fatto col giuramento padano di Formigoni ed esasperando il tema federalista; ma se n’è accorto subito.)

Ho affermato che i risultati della legislatura sono percepiti dall’opinione pubblica come criticabili, al più come un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, e che su questa percezione si basa la campagna elettorale del CD. Qualcuno obietterà che non è vero, che i dati elettorali e di sondaggio mostrano soltanto una leggera erosione dell’elettorato dei partiti che sostengono il governo. Anche se credo che questa sia una interpretazione dei dati troppo rassicurante, accettiamola pure e riformuliamo la domanda: perché un governo che ha “portato a casa” il risanamento della finanza pubblica e l’Euro, che ha attuato riforme importanti e ne ha messo in cantiere –e sono in un buon stato di avanzamento- altre e ancor più significative, sembra non aver tratto alcun beneficio da una legislatura che si avvia alla sua conclusione naturale (già questo un risultato non piccolo)? Una parte significativa della risposta ha a che fare con i problemi strettamente politici cui abbiamo accennato trattando dei “contenitori” (quattro governi in una legislatura, l’affossamento dell’unico che aveva ricevuto una legittimazione popolare, i continui litigi tra i partiti della maggioranza, errori nella gestione del “problema Berlusconi” e simili). Ma la parte più importante ha a che fare con i contenuti, con le riforme fatte o non fatte, e questo esito va attentamente studiato da chi sperava ieri (e teme oggi) che l’avere in mano il governo dia ad uno schieramento politico un grande vantaggio nei confronti dell’opposizione. Non è così.

Innanzitutto non è vero che l’elevato numero di governi a prevalenza di sinistra o con componenti di sinistra verso la fine degli anni ’90 (i famosi 13 governi su 15, nell’Unione Europea) segnassero la fine di una fase politica internazionale che aveva visto quasi ovunque il centro-destra al potere: i problemi rimanevano gli stessi, immutati gli aspetti di fondo delle politiche economiche, che derivano da un regime internazionale sul quale nessun governo può influire in isolamento, modeste le prospettive di sviluppo dell’Europa, pericolosamente al traino del grande boom statunitense. Quel che è avvenuto nella seconda parte degli anni ’90 è che gli elettori hanno punito i governi che non li avevano soddisfatti, in prevalenza di centro-destra (ma anche di sinistra, come il caso della Spagna mostra chiaramente). E quel che avverrà nella prossima tornata elettorale sarà lo stesso: quei governi di sinistra che non avranno soddisfatto gli elettori saranno sostituiti dalle forze di opposizione e se i casi saranno numerosi qualcuno certamente parlerà di una “nuova fase politica” di centro-destra: ma è probabile che non sarà così, che alcuni governi di centro-sinistra saranno rimossi ed altri confermati. Il governo di CS italiano sembra essere tra quelli a maggior rischio di rimozione. Torniamo allora alla nostra domanda: perché?

Per rispondere, oltre a tener presenti i caratteri effettivi del CS che abbiamo sommariamente delineato più sopra -caratteri che hanno ridotto l’incisività e la coerenza del soggetto riformatore- occorre riconoscere l’estrema difficoltà del compito che il governo affrontava e che avrebbero messo a dura prova anche il “riformatore ideale” (se avesse voluto ottenere, oltre alle riforme, anche il consenso dell’elettorato): la pulitura delle stalle del re Augia da parte di Ercole è stata piccola fatica rispetto al compito cui si sono accinti i governi degli anni ’90. In estrema sintesi, e limitandoci alle politiche economico-sociali, due sono stati gli indirizzi di riforma principali, entrambi necessari ed entrambi potenzialmente molto costosi in termini di consenso: un indirizzo di risanamento macroeconomico, fiscale e finanziario; e un indirizzo di trasformazione strutturale (micro-istituzionale e micro-economica), indispensabile per mettere in grado il nostro paese di affrontare con successo la più intensa competizione economica a cavallo del millennio.

Brevemente sul primo: poteva il CS far meglio di quanto ha fatto, risanare con minori tasse e minori perdite in termini di sviluppo e occupazione? Ovviamente c’è sempre un meglio “astratto”; forse c’era anche un meglio “possibile”, possibile per la stessa coalizione di CS, e il dibattito è aperto: per farsi un’idea dallo scontro tra tesi opposte consiglierei di leggere il libretto di Spaventa e Chiorazzo (Virtù o Fortuna?, Donzelli) e quello di Baldassarri e collaboratori (Il secondo miracolo possibile, Sole24ore). Per parte mia  sono convinto (Occasioni mancate, Laterza) che le cause della scarsa capacità di sviluppo dell’economia italiana non siano rimediabili in tempi brevi ed esclusivamente attraverso misure macroeconomiche, perché risiedono in un difetto di competitività dell’industria (e dell’intero sistema paese) che si è venuto accumulando per molto tempo e che solo riforme strutturali profonde possono, lentamente, rimediare. Due conclusioni soltanto, a proposito delle conseguenze del risanamento macroeconomico e dell’entrata nell’Euro sul consenso politico. La prima è che un’operazione di ripiano dei disavanzi pubblici delle dimensioni italiane, e che in ogni caso deve mantenere per molti anni a venire la spesa primaria parecchio al di sotto delle entrate, non è proprio il compito che un politico in cerca di consenso vorrebbe trovarsi di fronte. La seconda è però che questa operazione ha trovato di fatto, per la chiarezza del suo obiettivo, per la sfida che lanciava, per la capacità comunicativa del governo, una larga approvazione nell’opinione pubblica: mai governo di CS fu popolare come il governo Prodi tra la fine del 1997 e la primavera del 1998. I guai sono cominciati dopo.

I guai sono cominciati quando, raggiunto l’obiettivo di risanamento, il consenso venne a dipendere soprattutto dal secondo indirizzo di riforma, quello di natura micro-economica e strutturale. Tutti i cantieri erano stati aperti prima, e i più importanti addirittura dal governo Amato del 1992-93: in questi ultimi due anni il grosso dei cantieri andava chiuso e si dovevano cominciare a percepire i risultati in termini, se non di un grande sviluppo, quanto meno di una maggiore efficienza nei servizi pubblici, di maggiore soddisfazione degli utenti e consumatori, famiglie e imprese. Si doveva sapere (ma purtroppo non lo si era capito fino in fondo) che questo indirizzo di riforma era più difficile e ingrato del primo (Salvati, La sinistra, il governo, l’Europa, Mulino, 1997, in particolare l’ultima parte): incidere con il bisturi nella carne degli interessi concentrati, come si deve fare con le riforme strutturali, è assai più costoso politicamente che tagliare con la sciabola delle tasse sugli interessi diffusi, come si era fatto nella fase di risanamento.

E’ vero che dovrebbero sortirne effetti di maggiore competitività, maggiore sviluppo e crescita dell’occupazione, migliori servizi e una più elevata soddisfazione per gli utenti e per la generalità dei cittadini (di nuovo: si tratta di interessi diffusi): ma questi effetti sono piccoli (per ogni singolo cittadino), diluiti nel tempo e non facilmente riconducibili alle riforme, che intanto hanno messo in agitazione gli interessi concentrati,… medici, commercianti, tassisti, dirigenti e dipendenti e sindacati delle imprese pubbliche investite da processi di privatizzazione e liberalizzazione, professori, impiegati dello stato e degli altri enti pubblici, pensionandi di anzianità, e chi più ne ha, più ne metta (un’ampia rassegna sta nel libro di Glisenti prima citato).

Questa è politologia elementare, si dirà. Certo: dubito però che i governi e soprattutto i politici della sinistra l’avessero ben appresa, e il dibattito sulla “seconda fase” che si aprì dopo l’ingresso nell’Euro converte questo dubbio in una certezza negativa. “Finalmente –questo era il senso di quel dibattito- i sacrifici sono finiti, adesso è il momento di raccoglierne i frutti” Non era così: erano finiti i piccoli sacrifici per molti, dovevano continuare, ed anzi accentuarsi, i grandi sacrifici per pochi. Non poi così pochi, come è evidente dalle categorie che ho appena ricordato, e soprattutto molto influenti, ben organizzati e avvezzi ad un rapporto stretto (di scambio implicito, quando non palese) con i partiti politici. Un socialista liberale, come chi scrive, fa molta fatica a riconoscere questo sgradevole dato di fatto: ha passato una vita a predicare agli eredi del PCI che non dovevano coprire di vesti marxiste la loro predilezione per i “produttori”, che bisognava guardare agli interessi degli utenti e dei consumatori, ai cittadini con bisogno di cure e non ai medici e agli infermieri, agli studenti e alle loro famiglie e non ai docenti e al personale della scuola, a coloro che richiedono servizi pubblici e non agli impiegati che li forniscono e via continuando, e che questo era il modo migliore per ottenere insieme efficienza e giustizia sociale. Lo è.. Solo che ora, eliminato l’argomento marxista che giustificava l’interesse dei politici per i “produttori” (o almeno per il produttore per eccellenza, il lavoratore salariato), il povero liberal se lo trova moltiplicato per cento dalla più “borghese” delle scienze sociali, sotto la specie del binomio tra interessi diffusi e concentrati.

Non ci sono facili vie d’uscita e la politica è arte. Di fronte alla necessità (per rendere il paese sia più concorrenziale sia più giusto) di riforme liberalizzatrici e modernizzatrici, che urtano molti e potenti interessi, il politico deve adottare una vera e propria “strategia delle riforme”.. Non basta elaborare riforme corrette, ma trovare sequenze e modi per farle passare senza perdere un largo consenso, da vecchi stratagemmi come il divide et impera o “Orazi e Curiazi”, a nuove forme mediatiche che spieghino a utenti, consumatori, cittadini il senso del disegno complessivo. Se pure i governi di CS hanno elaborato riforme giuste (e per taluna ho qualche dubbio), sicuramente la loro “strategia delle riforme” non è stata delle migliori. Anzitutto è mancato ogni messaggio forte sul disegno complessivo, ciò che costituisce la forza di Blair e dei suoi spin doctors: Visco e la Bindi, Berlinguer e Bersani, bravissimi per carità, sembravano andare ognuno per conto proprio, e non come capi di dicasteri essenziali per il consenso al governo, e ciò si è accentuato dopo la caduta del governo Prodi. E poi, e soprattutto, se si propone un disegno modernizzatore la reazione degli interessi va prevista: certo, non bisogna provocarli inutilmente, tutte le mediazioni possibili vanno esperite, ma se ad una prova di forza si finisce per arrivare, guai a tirarsi indietro. E’ un caso che dei quattro ministri prima menzionati nessuno è al suo posto? E chi non ricorda gli scontri col sindacato e le brusche ritirate?

Contenitori e contenuti

Se ora si intersecano i due segmenti che abbiamo appena descritto, si dovrebbe ottenere un quadro realistico e spassionato della situazione del CS alla vigilia delle elezioni. E’ un quadro molto incompleto, specie sotto il profilo dei contenuti, dove abbiamo accennato soltanto ad alcuni temi di natura economico-sociale e ne abbiamo omessi altri di grande importanza elettorale (si pensi soltanto a sicurezza, criminalità, immigrazione, giustizia, federalismo…). Non è un quadro esaltante, ma neppure disperato, soprattutto se misurato sulle reali forze dell’avversario: con una convincente accentuazione della drammatica situazione di partenza, dei bicchieri riformatori pieni e mezzi pieni, della situazione di forte sviluppo in cui il paese si trova (it’s the economy, stupid), delle contraddizioni del centro-destra, non dovrebbe essere difficile disegnare una campagna elettorale semplice e convincente. Non è il proposito di questo scritto, che mira soltanto a organizzare e disciplinare la discussione autocritica che è in corso nella sinistra. Vorrei dunque concludere con una osservazione che tende un ponte tra il discorso dei contenitori e quello dei contenuti.

La proposta di costruzione dal basso, subito, di un partito o di una federazione democratica, e di una designazione dal basso del suo leader e insieme candidato premier, è poco più di una provocazione, perché il coraggio e il senso di urgenza necessari a intraprendere questa strada non mi sembrano presenti. I vantaggi politici (in senso stretto, di contenitore) di questa iniziativa, se si vuole restare in una prospettiva bipolare, li ho descritti ampiamente e non vi ritorno. Vorrei soltanto sottolineare un vantaggio ulteriore, e non piccolo, in tema di contenuti. Se il CS inteso come sommatoria di partiti ha perso mordente nella seconda parte della legislatura, come è credibile che gli stessi partiti possano fare meglio nella prossima? Da dove può derivare quel “più” di coraggio innovativo che sembra necessario per migliorare e portare a termine le tante riforme avviate? Un “nuovo Ulivo” inteso come la confederazione lasca sulla quale si sta lavorando oggi non credo sia sufficiente: è soltanto un tenue legame tra vecchi partiti ed è molto meno che l’Ulivo originale di Prodi. Soltanto un nuovo soggetto politico, che nasca dal basso e si accompagni alla scomparsa di precedenti partiti (o alla loro trasformazione in componenti interne di una federazione stretta), con un leader e candidato premier designato attraverso un forte coinvolgimento di tutti i riformisti del CS, può rendere credibile un rinnovato slancio riformatore.





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