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Un progetto per l'Italia


Massimo D'Alema




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Questa è l'introduzione all'incontro di Frascati e che appare sul sito della Fondazione Italianieuropei .

Nel ringraziare tutti coloro che hanno accolto il nostro invito, vorrei precisare che l'interruzione prevista per le ore 18 per l'incontro di calcio Italia-Olanda dipende, naturalmente, dalla nostra volontà. Com'è del tutto evidente, il voyeurismo nazionale avrebbe fatto comunque del modo in cui il seminario affrontava la partita il centro della discussione: il dubbio era se andare avanti, sbagliando, e ritrovarci nei commenti come la solita Sinistra che si macera, oppure interrompere i lavori ed essere considerati nei commenti come un gruppo di gitanti che anziché discutere guarda la partita. Considerando che, comunque, dovremo sopportare delle critiche, allora è meglio compiere lo sbaglio che faranno alcune decine di milioni di italiani. Questa è già una scelta politica, perché significa che cerchiamo di metterci in sintonia con la maggioranza del Paese.

Vorrei sottolineare un punto, anche per spiegare il carattere della mia introduzione. Questo seminario vuole segnare l'avvio di un lavoro che ha come finalità esplicita di concorrere a definire un "progetto per l'Italia".

Questo progetto, al quale la Fondazione intende lavorare sviluppando un impegno comune con altre istituzioni e centri culturali e un dialogo con le forze politiche del centrosinistra, viene esplicitamente preparato in vista delle elezioni politiche del 2001.

Tutti sanno che la Fondazione Italianieuropei si riconosce in un'area culturale di centrosinistra. Tuttavia, fino a questo momento la Fondazione ha svolto un'attività assai intensa, significativa, sotto la guida di Giuliano Amato, ma non così esplicitamente legata a una scadenza di carattere politico-istituzionale.

Io credo che sia giusto porre in modo esplicito il senso di un programma di lavoro. Noi sentiamo il bisogno di offrire questo strumento, affinché forze intellettuali e forze significative della società civile, delle professioni, dell'impresa concorrano a compiere un bilancio dell'esperienza riformista di questi anni e a delineare un progetto di rinnovamento e di trasformazione della società italiana per gli anni futuri.

Siamo persuasi che il passaggio che il Paese ha di fronte a sé sia di grandissimo rilievo. Nessuno può sottrarsi, a nostro avviso, dal dare un contributo perché possa continuare, con rinnovato slancio e con chiarezza di obiettivi, un cammino di rinascita, di riforme, di crescita del nostro Paese e della sua funzione in Europa e nel mondo.

È un cammino che rischia di interrompersi anche, io credo, per le debolezze, le incertezze, talora le divisioni, nel campo delle forze democratiche e riformiste. È, quindi, giusto mettere in chiaro il senso di questo percorso.

Si tratta di un percorso che, ovviamente, impegna in primo luogo i protagonisti politici - molti dei quali sono qui con noi, e li ringrazio -, ma che interroga anche altri interlocutori.

Naturalmente, noi non pretendiamo che tutti coloro che sono in questa sala e tutte le persone che via via entreranno in questo dialogo con noi - così come è già avvenuto nell'incontro tenuto nelle scorse settimane sul sistema elettorale o nella riflessione, molto interessante, che abbiamo svolto sul fenomeno dell'astensionismo - condividano questo progetto politico.

Anzi, noi vogliamo interrogare la parte più viva e significativa della cultura e della società ma nella chiarezza del progetto che perseguiamo. E la ragione per cui ci interroghiamo è proprio per raccogliere consigli e indicazioni che ci aiutino a camminare meglio verso il futuro democratico del Paese.

Devo anche dire che la domanda diffusa di partecipazione e, in conseguenza di ciò, le presenze qui, oggi, hanno fatto sì che il nostro incontro assumesse una dimensione diversa rispetto alle aspettative iniziali e al carattere seminariale, ma non per questo vorrei cambiarne il taglio, che è quello di un confronto aperto.

Noi abbiamo chiesto, in particolare a un gruppo di intellettuali, di preparare dei contributi su singole questioni - non sono relazioni - che nel corso del dibattito potranno fornire un'ossatura problematica alla discussione, posto che, naturalmente, chi vuole può dire la sua.

La discussione, avendo l'obiettivo di raccogliere opinioni, potrà anche risultare un po' confusa. Ma lo scopo, del resto, non è di presentare un progetto definito, bensì indicare un percorso, un cammino da completare. Naturalmente prendendo le mosse dal lavoro fatto in questi anni di esperienza di governo; lavoro del quale, io credo, la classe dirigente del Paese deve sentirsi orgogliosa e di cui è giusto rivendicare i risultati non scontati e di grande importanza nella storia d'Italia.

Il punto di partenza, come ricorderete, era assai pesante: la crisi del sistema democratico e dei partiti e la contemporanea crisi della finanza pubblica avevano spinto il nostro Paese sull'orlo di un collasso drammatico, ai margini del processo di costruzione europea e di fronte al rischio di una drammatica crisi delle istituzioni democratiche.

È in questo scenario che si è mossa una nuova classe dirigente e si è venuto costruendo un nuovo centrosinistra.

Questo processo, che è cominciato attraverso una progressiva assunzione di responsabilità, prima nei confronti del Governo Amato e del Governo Ciampi, poi, dopo la parentesi Berlusconi, nel sostegno che la sinistra diede al Governo Dini, trovò, nell'Ulivo, nel risultato elettorale del 1996 e nell'avvento del Governo Prodi, il suo compimento.

Credo che il riformismo italiano, nelle sue diverse famiglie e tradizioni culturali, abbia offerto una prova importante di coraggio, di determinazione e di senso dello Stato, guidando non solo una stagione di risanamento, ma una vera e propria rinascita del Paese.

Tornerò su questo tema, perché credo che uno dei messaggi più significativi da lanciare al Paese sia quello del ruolo dell'Italia in Europa e nel mondo.

Non c'è dubbio che il corso degli eventi di questi anni abbia contribuito a cambiare e ad elevare la percezione del nostro prestigio e della credibilità dell'Italia in una dimensione internazionale.

Un risultato non scontato, reso possibile da un rapporto positivo tra le diverse componenti della coalizione; forze tra le quali vi era sicuramente una tradizione di collaborazione democratica, ma non una tradizione di cooperazione di governo, almeno non con tutte.

Lo abbiamo fatto sulla base di una cultura riformista, vale a dire non subendo passivamente l'evoluzione della società e dell'economia, non assecondando tendenze spontanee del Paese, ma, al contrario, guidando il Paese verso scelte difficili.

Il traguardo del risanamento si è potuto raggiungere attraverso sacrifici, scelte coraggiose e non certo facili, che hanno fatto prevalere, anche per la scelta delle grandi organizzazioni sociali, il senso dell'interesse nazionale contro gli interessi settoriali, clientelari, corporativi, contro rendite parassitarie consolidate che noi sappiamo quanto pesino nel nostro Paese, in particolare dal punto di vista degli interessi che mobilitano e delle forze e dei consensi che mettono in campo.

L'idea che ha mosso il centrosinistra è stata di rendere più europea l'Italia, sia dal punto di vista del funzionamento della sua amministrazione, del suo sistema politico - in fondo, l'Europa democratica ha sistemi politici che si ispirano, con modalità e tecniche diverse, al principio dell'alternanza -, sia dal punto di vista di una piena assunzione del ruolo di Paese guida dell'integrazione politica ed economica.

Dalla previdenza alla pubblica amministrazione, al fisco, alla formazione, alla sanità, all'assistenza, il centrosinistra ha avviato un processo di riforma di grandissima portata, naturalmente con tutti i problemi che questo comporta.

Nulla è più pericoloso che trovarsi nel momento in cui si avviano le riforme. Le riforme, infatti, contrariamente a quanto si pensa, non sono processi indolori; sono processi che suscitano resistenze, contrarietà, che mobilitano interessi contrari, ma che spesso, scontando una difficoltà in termini di consenso nella fase iniziale, producono effetti nel tempo.

Questa è una delle ragioni per cui in particolare i riformisti hanno bisogno di stabilità politica, per poter misurare in un periodo medio, ragionevole, gli effetti delle loro scelte.

Tuttavia, io credo che noi dobbiamo rivendicare l'ambizione di questo disegno, di questo progetto riformista incompiuto, che comunque ha avviato una trasformazione del Paese di cui oggi cominciamo a raccogliere i primi frutti.

Parlano le cifre: nell'anno in corso il disavanzo pubblico sarà il più basso da oltre tre decenni. Lo stesso debito pubblico, scendendo sotto il 111% del PIL, consolida la tendenza positiva degli ultimi quattro anni; avremo una crescita intorno al 3% nel 2000, e nel prossimo quadriennio con un ritmo tre volte superiore agli anni '90. Cresce l'occupazione in modo significativo e per la prima volta i dati registrano una crescita importante dell'occupazione anche nel Mezzogiorno.

Naturalmente è legittimo sostenere, come si sostiene da più parti, che queste tendenze si stanno dispiegando, grosso modo, in tutta Europa, che c'è un mutamento della congiuntura internazionale e che nel nostro Paese queste tendenze si manifestano in una misura che può apparire inferiore rispetto a quella di altri Paesi europei.

Si può sostenere che questa crescita in Italia produce un tasso di inflazione - per ragioni anche strutturali, legate alla dipendenza del nostro Paese, in modo particolare, per quanto attiene alle materie prime - che è superiore a quello, pure crescente, che si registra in altri Paesi europei.

Certo, è legittimo sostenere che non basta, che si potrebbe fare di più. Tuttavia, credo che noi dobbiamo fortemente rivendicare che il fatto che l'Italia si sia agganciata a un trend europeo non era affatto scontato. Anzi, è stato proprio questo il cuore della sfida. Dobbiamo sottolineare che se le scelte prevalenti fossero state altre, noi non avremmo avuto nessuna garanzia che la ripresa europea avrebbe investito il nostro Paese.

Insomma, io ritengo che ci sia, nelle reazioni - di determinati ambienti e poteri - a questi dati, un elemento di conformismo politico, un investimento su possibili nuovi equilibri più che una valutazione serena dei risultati del Paese.

Ripeto, però, che noi dobbiamo fortemente rivendicare, pur non nascondendo i problemi (ad alcuni dei quali ho fatto cenno), che l'aver agganciato il nostro Paese alla crescita europea è stato il frutto non della spontaneità delle cose, ma di scelte assai impegnative e coraggiose che sono state compiute nel corso di questi anni. E' bene sottolinearlo, perché credo sia sbagliata una certa "critica" da sinistra.

Qualche giorno fa, con alcuni dei maggiori esperti di questi problemi, abbiamo discusso sul fenomeno dell'astensionismo. Una delle tesi - a mio giudizio, in realtà, è una tesi consolatoria - che circolano nel dibattito politico è che le difficoltà elettorali del centrosinistra derivino dalla disaffezione dell'elettorato di sinistra alla politica.

La considero una tesi consolatoria, perché, come mi sforzerò di dimostrare, nasconde il vero dato, cioè il carattere strutturale e non di breve periodo della forza della destra nel Paese.

Tra l'altro, questa tesi consolatoria non ha un fondamento scientifico. L'analisi vera rivela un dato diverso. È inutile dire che le ricerche sull'astensione non sono il frutto di sondaggi o altro: basta andare nei seggi e verificare la percentuale dei non votanti, quindi sono ricerche che hanno una base scientifica molto solida.

Il trend di riduzione dei votanti, in Italia, è il 7,2%, contro una media europea del 6,9%. Quindi, noi siamo esattamente dentro la tendenza europea. La tendenza, ovviamente, è legata all'invecchiamento della popolazione: questo è un dato molto significativo, perché il picco dell'astensione riguarda i più anziani.

Certo, venuto meno il periodo della grande mobilitazione, ossia quell'Italia in cui le parrocchie e le sezioni del Partito Comunista portavano tutti a votare, per cui ogni elezione era una drammatica sfida di civiltà, siamo rientrati dentro un trend europeo.

Ovviamente, questo non è un fatto positivo, ma dal punto di vista scientifico la cosa deve essere valutata nei suoi termini reali.

Questo è un fenomeno che, grosso modo, tocca tutte le forze politiche. La valutazione, dal 1994, è che su circa 4 milioni di elettori che sono venuti meno 1 milione e mezzo appartengono all'area degli elettori progressisti, ma gli altri no.

Quindi, è vero che c'è un astensionismo intermittente, più congiunturale, che può di volta in volta penalizzare, a seconda della qualità dell'offerta (parliamoci chiaro) e che può anche penalizzare noi, in determinati momenti. Ma non credo che sia questo il fondo della questione.

Dico questo anche perché credo che dobbiamo rivendicare che il processo di risanamento è avvenuto con uno sforzo di tutela delle fasce più deboli della popolazione, con una difesa del potere d'acquisto dei redditi del mondo del lavoro e direi anche con politiche sociali di tipo inclusivo e innovativo.

Considero questo uno dei settori in cui si sono fatte alcune cose nuove importanti - naturalmente, esse dispiegheranno i loro effetti nel tempo -, che hanno consentito anche una qualche riduzione dell'area della povertà.

Non mi pare che in questi anni si siano perseguite politiche di austerità socialmente inique, tali da respingere un certo mondo popolare. I dati non dicono questo. D'altro canto, è una delle idee forti di un Governo di centrosinistra: lavorare per conciliare le ragioni del dinamismo economico con le ragioni della socialità e della solidarietà.

Credo, quindi, che se questa è inevitabilmente e, direi, orgogliosamente la base su cui costruiamo un discorso sul futuro, noi non possiamo nasconderci che l'esperienza riformista, pur con i suoi risultati, appare come un processo incompiuto.

Un processo incompiuto, intanto, perché, come ho già sottolineato, una parte importante di queste riforme è ancora in mezzo al guado. Si tratta di riforme i cui effetti si misureranno nel tempo.

La scuola, la pubblica amministrazione, il fisco, la sanità, le professioni: ognuna di queste riforme ha suscitato determinate reazioni contrarie, perché non c'è dubbio che si sono toccati interessi e privilegi consolidati.

Ad esempio, nel mondo della scuola, l'aver avviato una riforma molto imperniata sul tema della qualità e della valorizzazione della professionalità, ha sicuramente generato paura e resistenza in una parte del corpo insegnante che, secondo me, anche per errore della sinistra, si è formata ad una cultura egualitaria, nel senso del livellamento verso il basso. Comunque, gli effetti di questa grande riforma si misureranno nel tempo.

Non c'è dubbio che il cambiamento nella pubblica amministrazione abbia suscitato problemi, resistenze.

Non ho mai pensato che le riforme generino entusiasmo. Quando si dice, giustamente, che bisogna pagare tutti per poter pagare di meno, intanto si paga tutti, ed è poco probabile che quelli che non pagavano siano entusiasti di questo cambiamento.

Dobbiamo sapere che in parte noi ci troviamo di fronte a resistenze che vengono da gruppi sociali, da interessi che sono stati incalzati, sfidati dopo decenni di pigrizie, di tolleranze. Questo ha riguardato la responsabilità di chi ha governato il Paese ma anche, in parte, di chi, anche dall'opposizione, ha avuto un grande peso nella formazione del senso comune, delle abitudini, della cultura di settori importanti della società italiana.

Ma non è solo per questo, io credo, che si deve parlare di riformismo incompiuto. È ovvio che, trattandosi di un processo, c'è bisogno di tempo. Vi sono, tuttavia, altre incompiutezze che, invece, derivano da un difetto di impostazione e di coraggio.

In particolare, è accaduto per due punti cruciali. Il primo riguarda il sistema delle istituzioni. Non c'è dubbio che il centrosinistra si è presentato alla guida del Paese senza un progetto di coraggiosa e radicale riforma delle istituzioni e del sistema, ed anzi con una difficoltà di fondo a indicare su questo terreno una strada unitaria.

L'altro terreno di ritardo è rappresentato dalla trasformazione del lavoro con le conseguenze che si stanno progressivamente determinando. E' chiaro, infatti, che se la grande rivoluzione della cosiddetta new economy è innanzitutto una rivoluzione che mette in discussione il modello sociale, nazionale ed europeo, il problema è di tale portata che richiede un'azione di cambiamento assai più radicale e coraggiosa di quella che si è sviluppata fin qui.

Noi sappiamo anche quali sono i rischi di questo cambiamento e li condividiamo con il riformismo europeo. Rischi connessi al fatto che un processo di innovazione sociale così radicale determina inevitabilmente una tensione con il proprio insediamento sociale tradizionale, senza per altro offrire la garanzia, nel breve periodo, di conquistare altri consensi.

Il riformismo europeo è sospeso in queste drammatiche condizioni di incertezza e transizione tra "vecchio" e "nuovo".

Pensiamo a una delle esperienze più innovative, quella di Tony Blair, che è stato battuto a Londra da sinistra, segno chiaro di un disagio di forze intellettuali, di forze sindacali tradizionalmente legate al Partito Laburista, ma allo stesso tempo nel resto della Gran Bretagna ha visto i conservatori in minorità.

È evidente che un processo di innovazione radicale espone a rischi molto gravi. Tuttavia, credo che non vi siano alternative, pena il rischio peggiore, vale a dire una condizione di immobilismo con la conseguenza che la domanda di modernizzazione troverà necessariamente un'altra risposta.

In condizioni normali si potrebbe anche pensare che questo bisogno di cambiamento, di modernizzazione possa essere interpretato nella dialettica dell'alternanza.

Ma io non credo che in Italia ci sia una forza di destra in grado di guidare il processo di modernizzazione del Paese; in grado di prometterlo, sì, ma in grado di guidarlo seriamente ho forti dubbi che ci sia.

Credo, quindi, che quando si parla di un riformismo incompiuto del centrosinistra ci si riferisca non soltanto alle riforme avviate e che daranno i loro frutti, ma anche a due grandi nodi, quello della decisione del sistema politico-istituzionale e quello del nuovo patto sociale su cui noi abbiamo scontato una difficoltà di impostazione, di cultura, di determinazione, non riuscendo a dare una risposta a bisogni profondi del Paese che pure si erano manifestati.

Vorrei fare un passo indietro, anche nel tempo. La mia tesi è che, tutto sommato, le tendenze elettorali con le quali noi ci misuriamo non debbano essere lette fondamentalmente sulla base di un criterio di analisi contingente, ma sono tendenze di medio periodo.

I risultati elettorali delle ultime elezioni regionali sono del tutto simili a quelli del 1994 e, poi, del 1996.

E' sempre bene non rimuovere, almeno sul piano elettorale, i dati reali. La somma dei voti del Polo e della Lega - questo è il punto che non va rimosso se non si vuole distorcere la verità storica dei rapporti di forza nel paese nel corso dell'ultimo decennio - è sempre risultata una maggioranza rispetto ai consensi raccolti dalla coalizione di centrosinistra.

In realtà, noi scardinammo questo predominio nel '96 ma, come noto, grazie alla divisione tra Polo e Lega, oltre naturalmente alla forza della proposta politica e ad una accorta campagna elettorale. In quanti collegi del Nord, però, abbiamo vinto con la maggioranza assoluta del voto, ossia battendo la somma Polo- Lega?

In realtà, la maggioranza assoluta dei cittadini delle regioni più avanzate, più moderne del Paese, ha continuato a votare per Bossi, Fini e Berlusconi, esattamente come nel '94. Ed è a tutti noto che in un sistema bipolare con il 39% si perde brutalmente.

Detto questo, dal punto di vista dell'analisi della società, degli orientamenti, noi siamo di fronte a qualcosa che non è un fenomeno di ora, non è un dato congiunturale, non può essere esaminato sulla base dell'ultimo provvedimento che abbiamo preso.

Evidentemente c'è una forza, una solidità di un orientamento che colpisce tanto più perché investe, indubbiamente, le regioni più avanzate, più sviluppate.

Anche nel Mezzogiorno, badate, è interessante notare questa tendenza. Non appaia campanilistica la mia osservazione - non voglio togliere nulla ad altre regioni meridionali -, ma non c'è dubbio che la più "moderna" delle regioni del Mezzogiorno, la Puglia, la più investita dai processi di modernizzazione, presenta trend elettorali che non sono dissimili.

C'è un dato sociale, un dato culturale: di fronte ad una doppia crisi - crisi della democrazia dei partiti, della rappresentanza, da una parte, e crisi di un vecchio blocco sociale, grande industria e lavoratori dipendenti, dall'altra -, che è stata particolarmente forte nelle aree in cui la modernizzazione ha determinato un cambiamento del mix sociale e culturale, la risposta della destra è apparsa più persuasiva.

La destra ha risposto a due domande che possono apparire tra loro contraddittorie, ma che, invece, non lo sono affatto: una domanda di autorità e una domanda di libertà.

In uno schema in cui la tendenza è verso la personalizzazione della politica - parlo da politologo, con il distanziamento critico necessario -, l'offerta politica della destra è impregnata di una subcultura d'impresa: certezza di comando (si sa chi è il proprietario dell'impresa, che è anche il Presidente del Consiglio di amministrazione con deleghe) e valorizzazione dei talenti (giovani amministratori delegati con compiti specifici in determinate aree, e così via).

Il messaggio di forza è questo. Ci potremmo chiedere, questo sì, se esso corrisponde alla realtà. La mia risposta è no, ma adesso questo conta poco.

Il centrosinistra propone ai cittadini un'offerta politica che appare, invece, dominata da una subcultura burocratica, non d'impresa: incertezza di comando, frammentazione, una certa tendenza a considerare i talenti più come un pericolo che come una risorsa (non per cattiveria, ma perché, tutto sommato, essi sono una minaccia rispetto a un equilibrio, a un'esigenza di pluralismo).

Tutto questo appare molto arcaico, ci parla di un'altra società; appare come un sistema vecchio, non efficace, non in grado di rispondere ai bisogni.

Badate, questi bisogni si sono persino acuiti, perché uno dei meriti che noi abbiamo avuto è stato quello di aver portato la società italiana a una sfida. In fondo, nel corso di questi anni, abbiamo tolto al sistema Italia la difesa delle svalutazioni competitive (non si può più pensare di esportare svalutando la lira). Abbiamo tolto al risparmio la certezza degli interessi garantiti dallo Stato, che lo tenevano al riparo dai rischi del mercato. Abbiamo, giustamente, portato la società, l'economia italiana, il Paese a una sfida della globalizzazione, senza difese, senza barriere protettive, che per certi aspetti ha reso ancora più acuto, nei settori più moderni, quel bisogno di autorità politica e di libertà sociale che è esattamente il messaggio che la destra comunica.

È la ragione per cui ha fatto blocco una parte della società dell'Europa. Io credo che dobbiamo misurarci con questi bisogni. Possiamo anche demonizzarli e dire che questa è una spinta autoritaria. Indubbiamente, essa ha anche connotazioni autoritarie - chiusura nei confronti dell'immigrazione, intolleranza -, ma c'è anche un bisogno moderno di stabilità, di responsabilità personale, di un qualcosa che, non a caso, è in linea con le tendenze della politica in ogni parte del mondo avanzato.

Questo bisogno di libertà sociale, di rottura di vincoli giuridici e fiscali, contiene anche una spinta pericolosa, la spinta a rompere pure vincoli di solidarietà sociale, vincoli geografici (il nord che non vuole più saperne della solidarietà verso il Mezzogiorno).

O noi siamo in grado di cogliere, come diceva un grande intellettuale italiano, il nocciolo di verità che c'è in tutto questo, e di dare a questi bisogni sociali una risposta diversa da quella che dà la destra, ma comunque in grado di appropriarsi di volontà di modernizzazione, oppure io temo che noi non rovesceremo dati che mi appaiono abbastanza di fondo e che, ripeto, neppure i risultati positivi di questi anni hanno cancellato.

L'Euro non è la soluzione del problema, è il diritto di partecipare a una sfida. Il problema è la capacità competitiva del sistema Italia.

È chiaro che la risposta alle esigenze di competitività non è soltanto sul terreno della libertà economica, della deregulation. Questa è una visione sbagliata. Ci sono essenziali politiche pubbliche: le infrastrutture, la cultura, la formazione.

Non è vero che la grande trasformazione americana si è compiuta soltanto sotto la spinta della deregulation, si è compiuta anche sotto la spinta di grandi scelte pubbliche: le autostrade informatiche, e così via.

Credo che un punto sul quale noi dobbiamo mettere l'accento è quello delle politiche pubbliche per l'innovazione come una delle scelte fondamentali di un progetto riformista per il futuro.

Tuttavia, io ritengo che questo non sia sufficiente se noi non affrontiamo, nello stesso tempo, i due nodi che ho ricordato. Credo che queste siano le due questioni intorno alle quali lavorare, non per uno scambio di accuse e di responsabilità.

Se il tema vero della trasformazione della società italiana è quello di un nuovo progetto riformista, di un nuovo modello sociale, questo non si costruisce soltanto attraverso il Governo.

L'idea che il riformismo sia soltanto una sequenza di buoni provvedimenti presi dall'alto è un'idea sbagliata. Il progetto riformista comporta una partecipazione attiva, consapevole, un movimento nel Paese, senza il quale un progetto riformista difficilmente può vincere. C'è anche l'esigenza di mettere più in fase il Governo e il complesso delle forze della democrazia, che non sono soltanto i partiti, ma anche i sindacati, le associazioni. Occorre creare una sintonia culturale, progettuale - è ovvio che poi ognuno fa la sua parte -, un comune sentire.

Questo non c'è stato. Anzi, in diversi momenti e con diverse responsabilità noi abbiamo lavorato sempre ciascuno per conto proprio. Credo che in questi termini un progetto di cambiamento non possa vincere.

Sotto il profilo più squisitamente programmatico, il primo dei temi da affrontare riguarda il sistema politico, le Istituzioni, la legge elettorale.
Io considero che questa questione sia arrivata a un punto persino rischioso, sul quale forse varrebbe la pena di fare un discorso più solenne ed allarmato. Il rozzo bipolarismo che si è avviato nel Paese ha prodotto dei risultati; tuttavia, si sono determinati tali squilibri e, soprattutto, un tale contrasto tra Costituzione materiale e Costituzione formale del Paese da portare il sistema a punti di rischio democratico.

L'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Province e delle Regioni, con uno spostamento di potere di fatto verso la periferia (ne abbiamo avuto manifestazioni recenti), senza avere contemporaneamente né definito il nuovo quadro costituzionale in grado di garantire i meccanismi di solidarietà e senza avere rafforzato il Governo e le Istituzioni centrali garanti dell'unità dell'Italia, in un paese come il nostro, a scarsa coesione nazionale, significa avere portato ad un punto di rischio il sistema.

Io dubito che possiamo risolvere questa questione attraverso un inseguimento un po' "codista" delle forme più estremiste del federalismo: posizione, questa, che si è rivelata scarsamente utile anche dal punto di vista elettorale, ma che comunque, politicamente, secondo me, non risponde alla vera esigenza di federalismo.

Il vero federalismo consiste nel ridisegnare i rapporti tra centro e periferia, in un quadro che abbia una sua organicità e una sua solidità.

Per quanto riguarda l'Istituzione centrale, noi viviamo in una condizione in cui il contrasto tra una convinzione dei cittadini di eleggere il Presidente del Consiglio e il fatto che questo non sia vero dal punto di vista istituzionale e costituzionale, ha rappresentato in diversi momenti un elemento serio di frattura tra opinione pubblica e sistema politico.

Sotto questo aspetto continuo a ritenere un limite il non aver perseguito quella che era una risposta al problema contenuta nel programma dell'Ulivo, che è stato considerato più un contributo culturale che non un punto di riferimento cogente per quelle forze che pure, sulla base di quel programma, avevano vinto le elezioni.

Lì c'era una risposta, quella di andare verso un sistema elettorale uninominale, maggioritario, a doppio turno, con l'indicazione scritta sulla scheda del candidato Primo Ministro.

Resto convinto che quella fosse la risposta più adatta al nostro Paese. Non avere perseguito questo obiettivo ha portato, via via, a una caduta di fiducia, anche da parte dell'opinione pubblica sull'efficacia del cambiamento delle regole elettorali al fine di consolidare il bipolarismo.

Noi rischiamo di rimanere prigionieri di un sistema elettorale misto che, a mio giudizio, ha dimostrato di essere inefficace, innanzitutto perché sollecita il sistema politico in due direzioni contraddittorie: spinge i partiti ad unirsi nei collegi maggioritari e li spinge a dividersi per contendersi i voti proporzionali.

Il sistema dei partiti è, appunto, un sistema, e come tale deve essere valutato; un sistema che viene sottoposto a delle sollecitazioni.

Esso viene sollecitato in due direzioni contraddittorie, con effetti egualmente contraddittori. Credo che questo sistema misto non sia un'adeguata garanzia di stabilità e porti con sé - lo abbiamo visto - un forte rischio di frammentazione.

È evidente che non dipende solo da noi, perché nei tempi che abbiamo di fronte nel corso della legislatura è difficile che senza una convergenza con l'opposizione si possa fare una riforma che, come è giusto che sia, tocchi, oltre la legge elettorale, anche aspetti della Costituzione e io aggiungo dei Regolamenti delle Camere.

Soltanto una riforma che agisca su questi punti, organicamente, può avere una qualche efficacia. Ma temo - lo dico come preoccupazione personale - che i termini del confronto che si è aperto (un sistema misto con una maggiore quota proporzionale, premio di maggioranza, e così via) difficilmente possano produrre una soluzione convincente.

Mi sembra che, tutto sommato, pur essendo io sostenitore dell'altra proposta, il sistema tedesco abbia almeno il vantaggio di ridurre la frantumazione politica. Accompagnato dalla indicazione, che può essere plurale (anche da parte di più partiti), di un candidato premier che viene investito di questa funzione, a mio giudizio può rappresentare non la risposta ottimale ma la risposta almeno ad alcuni dei problemi che abbiamo di fronte.

Ripeto, tuttavia, che questa è un'indicazione di carattere personale che mi è sembrato giusto proporre qui come tema di riflessione. Il punto su cui mi interessa mettere l'accento, invece, è che noi dobbiamo dare una risposta a questa esigenza di mutamento istituzionale. La mancanza di una risposta comune a questa esigenza ha rappresentato un punto serio di debolezza.

L'altro punto riguarda la struttura della coalizione e la qualità dell'offerta politica. Su questo ho già detto alcune cose, che non voglio ripetere. Credo che sia molto importante il modo in cui si è riavviato un processo aggregativo, anche nei suoi aspetti simbolici, cosa che ha, a mio giudizio, un grande valore. La politica è anche capacità di conquistare un mercato, di legare un consenso, di mettere in campo simboli, bandiere, punti di riferimento.

Io spero che in questo processo sia possibile far sì che all'indicazione di bandiere, di punti riferimento, consegua anche la definizione di una struttura, di modalità operative, una capacità di presentare al Paese, ovviamente quando sarà il momento, una candidatura per il Governo, ma anche, intorno ad essa, una leadership solidale, che è inevitabilmente plurale. Questa è la caratteristica del centrosinistra e non credo che la si possa rovesciare in pochi mesi.

Naturalmente si potrebbe approfondire questo tema di un radicale mutamento delle Istituzioni e di un nuovo patto costituzionale. Io ho messo in luce due punti cruciali - forma di Governo e legge elettorale -, ma ci sono altri aspetti non meno importanti.

Si è molto sottovalutato il rilievo che avevano altri punti del lavoro della Bicamerale. Penso, ad esempio, alla riforma del funzionamento di alcuni organi ausiliari dello Stato (Consiglio di Stato, Corte dei conti) o ai nuovi principi in materia di pubblica amministrazione.

Devo dire che l'esperienza di governo che ho fatto dopo mi ha convinto che quei punti di riforma - penso, ancora, alla magistratura, anche intaccando non l'autogoverno dei magistrati ma una concezione chiusa e corporativa dello stesso - non sono meno importanti ai fini della possibilità di governare il Paese.

Anche su questi punti, in realtà, il centrosinistra non ha mai espresso una determinazione e una volontà comuni.

L'altro aspetto riguarda il grande capitolo del Welfare (molti, sicuramente con più competenza ed esperienza di me, ne parleranno in questa sede). Sicuramente questa è la sfida fondamentale con la quale ci misuriamo e nella quale credo che la società italiana, l'economia italiana, gli italiani tutti hanno delle chances.

La mia convinzione è che nell'economia della rete le potenzialità del Paese siano rilevanti. Non è vero che il sistema delle piccole e medie imprese deve essere considerato un peso e un fattore di arretratezza. Certo, nell'immediato è così, in una certa misura.

Io direi, invece, che la debolezza è quella della grande industria. In prospettiva, però, se cresce un settore di servizi moderni, intesi come servizi tecnologici, finanziari, l'incontro fra l'economia della rete e il sistema delle piccole e medie imprese può essere la chiave di un successo italiano.

Tutto sommato, la rete è la risposta ad alcuni dei problemi strutturali dell'impresa in Europa: rapporto con il mercato, capacità di costruire economie di scala attraverso la collaborazione.

Credo che la rete possa essere, in prospettiva, anche la chiave per un rapporto diverso con il sistema finanziario, un rapporto meno subalterno, meno oppressivo, meno clientelare di quanto non sia stato in questi anni.

Sono, piuttosto, per cercare di vedere le chances del Paese e, tuttavia, credo che noi dobbiamo discutere con molta serietà di cos'altro si deve fare perché queste chances vengano colte pienamente.

Alcune cose le abbiamo fatte: aver ridotto il fabbisogno dello Stato, aver liberato risorse che si sono indirizzate verso il mercato, verso la Borsa, sono stati grandi fattori di modernizzazione.

Aver determinato, attraverso il risanamento, una riduzione dei tassi di interesse, è stato qualcosa che ha liberato le imprese da vincoli oppressivi, consentendo loro di crescere.

Tuttavia, ritengo che qui ci siano alcuni nodi che meritano di essere affrontati, non soltanto perché questa domanda viene dal sistema delle imprese - domanda di semplificazione, di modifica del diritto societario, di riduzione della pressione fiscale - ma perché dobbiamo spostare l'attenzione e la concentrazione delle risorse verso l'alto, in tutti quei settori più avanzati e più dinamici, verso quei lavoratori che hanno una capacità professionale tale da potersi autorappresentare sul mercato del lavoro (magari illudendosi), quindi avvertono forme tradizionali di rappresentanza come un vincolo, come un limite, e verso quel mondo del lavoro che - o perché nelle piccole imprese o perché entra nel lavoro attraverso contratti atipici - non rientra dentro gli strumenti tradizionali di tutela e di rappresentanza.

Dobbiamo sapere che i conti, in termini di costo del lavoro, si fanno sommando le retribuzioni contrattuali da una parte e quello che si dà a un mondo per ragioni di rappresentanza. Ma bisogna pensare anche ai milioni di lavoratori che sono fuori dalle forme normali di tutela e di rappresentanza.

Rimasi colpito quando, incontrando dei lavoratori a Milano, una ragazza mi disse: "Voi parlate di orari, di contratti, tutte cose che non ci riguardano. Sono cose che noi guardiamo come i bambini poveri guardano i dolci nella vetrina di una pasticceria. Tutte le cose di cui parlate voi, per noi non hanno significato".

Anche questo, secondo me, deve essere detto con molta forza ad un ruspante nuovo corso confindustriale: il problema del lavoro, in Italia, non è soltanto il problema delle tutele, che possono apparire eccessive, di una certa parte del mondo del lavoro, è anche l'enorme problema della mancanza di tutele di un'altra parte del mondo produttivo.

Un nuovo patto tra il lavoro e le imprese non può fondarsi se non anche sul riconoscimento dei diritti fondamentali della parte che non è tutelata.

Qui, probabilmente, ci sono due posizioni estreme, entrambe illusorie: una è che il problema si risolverà portando quei lavoratori dentro il sistema delle tutele tradizionali (e non ce la faremo mai); l'altra è l'idea che si deve far diventare atipico tutto il mondo del lavoro, e questo, francamente, penso che né i lavoratori né i sindacati né la sinistra potranno mai accettarlo.

Credo che il problema di come si definisce un quadro di garanzie e di diritti delle persone che sia più inclusivo, ma anche più compatibile con un maggiore dinamismo del sistema economico e produttivo, sia questione aperta. Non voglio dire che è una questione su cui non si è fatto nulla, perché, per la verità, si è avanzati sul terreno della flessibilità, di nuove forme di lavoro, anche attraverso una legislazione che è il prodotto di questi anni. Credo, comunque, che questo sia un processo avviato e che merita di essere portato avanti con coraggio.

Così come resto convinto che il problema del rapporto tra spesa previdenziale e nuova spesa sociale sia un problema serio del Paese e sia, anche questo, un problema del rapporto tra le generazioni e i gruppi sociali che noi rappresentiamo. Un riequilibrio della spesa sociale tra le generazioni e tra i sessi è un obiettivo essenziale di ricostituzione di un blocco sociale popolare del Paese.

Di questi temi si è molto discusso e io non vorrei ritornarci se non per una considerazione che si può ritenere in qualche modo finale di questa parte. Immaginiamo che si debba dire che cosa dobbiamo mettere al centro della nostra attenzione verso la società e verso quale parte della società italiana. C'è una parte della società italiana che si sente largamente trascurata dal centrosinistra e che, infatti, ci corrisponde molto poco dal punto di vista elettorale.

Penso che il più importante messaggio verso il futuro che noi dobbiamo lanciare sia quello di considerare le nuove generazioni come un punto cruciale, di presentarci come quella coalizione, quell'alleanza, quel progetto che sia in grado di aprire in tutti i campi spazi alle nuove generazioni, al loro protagonismo, al loro talento.

Noi appariamo molto poco da questo punto di vista. Questo tema è molto poco centrale nel messaggio che il centrosinistra rivolge al Paese ed io credo che questa sia una delle questioni sulla quale dobbiamo lavorare di più, nel corso di questi mesi, dal punto di vista programmatico ma anche dal punto di vista del linguaggio, della cultura e del rapporto con la società che siamo in grado di promuovere.

In questa prospettiva, vorrei indicare alcuni punti, in conclusione, come temi da approfondire, come appunti su cui lavorare, che credo possano costituire issues su cui puntare, nella comunicazione e nell'approfondimento programmatico.

Il primo punto riguarda un tema di cui si discute pochissimo nella politica italiana, ma io credo che sia arrivato all'attenzione di una grande pluralità. Io credo che il centrosinistra possa legittimamente e debba farsi portatore di un nuovo sentimento di orgoglio nazionale degli italiani.

Questo è un punto sul quale noi siamo assolutamente competitivi. L'idea di un Paese che si è assunto progressivamente le sue responsabilità, che ha un peso e un prestigio in Europa, nel Mediterraneo, nel mondo, che prima non aveva, che è venuto caratterizzando la sua posizione internazionale non soltanto sul terreno della politica internazionale di una media potenza, ma anche sul terreno dell'affermazione di principi e di valori nuovi: difesa dei diritti umani, solidarietà verso i Paesi più poveri (questione del debito).

Quello che si configura è un'idea del protagonismo italiano, naturalmente nella misura in cui questo è ragionevole, nella costruzione di un nuovo equilibrio europeo e internazionale, che è carico di valori positivi e di potenzialità.

Credo che questo sia uno dei temi su cui è possibile fare un'operazione essenziale: muovere non soltanto interessi ma anche passioni e intelligenze; mettere in movimento forze che intendono mettersi in gioco, in un processo nel quale il nostro Paese possa essere guardato con maggiore considerazione e rispetto.

Questo è un tema che ha giocato in modo molto ambiguo e che è stato percepito, nell'elettorato di sinistra, in modo particolare, nell'intellettualità di sinistra, in molti momenti, con una carica di ambiguità e di diffidenza.

Ritengo che questa, invece, possa diventare una delle bandiere della nostra identità.

Un secondo aspetto è legato al capitolo dell'innovazione e della trasformazione tecnologica in corso. A partire dal rilievo strategico che il tema è venuto assumendo e che ha pesato nel determinare quella svolta europea che è stato il Consiglio europeo di Lisbona, da cui sono derivati impegni di grande rilievo e di grande significato.

Mettere l'accento sull'innovazione significa mettere l'accento sulle politiche pubbliche per l'innovazione, per la formazione; significa individuare, al di là di quello che, in parte notevole, è stato fatto, gli obiettivi concreti.

Significa anche, se mi consentite, lanciare un messaggio: siamo noi quelli che vogliono rappresentare la nuova economia, i settori più avanzati, i settori più dinamici, più internazionalizzati.

A ciò si lega l'idea che in questo scenario l'Italia può ritagliarsi uno spazio importante come un grande Paese impegnato nella produzione di contenuti e di cultura.

Anche da questo punto di vista c'è un patrimonio da rivendicare - cambiamenti importanti di crescita dell'attenzione pubblica nel campo della cultura, dell'industria culturale, della valorizzazione del patrimonio del Paese -, ma io credo che ci siano obiettivi e traguardi che possono essere proposti in modo molto concreto e, se mi consentite, anche qui con la volontà di rivendicare la forza di un patrimonio, di una tradizione, di una civiltà.

Infine, collegandomi al tema sociale, vorrei accennare al problema di una nuova etica del lavoro. Non esiste una coalizione di centrosinistra senza un rapporto con il lavoro e con il mondo del lavoro.

E noi dobbiamo affrontare il nodo di come rinnovare questo legame, in termini politici ma anche elettorali. Non si tratta di un problema semplice o marginale, se è vero che in Francia una parte di coloro che votavano per il Partito Comunista sono passati a votare per Le Pen, sotto l'incalzare di razzismo e immigrazione. Non siamo, dunque, di fronte a un fenomeno esclusivamente italiano, ma questo non attenua l'allarme.

Qui c'è veramente un grande problema, che è un problema di programma, ma anche di messaggio e di cultura. Noi vogliamo rappresentare il lavoro, ma anche sapendo che per fare questo bisogna parlare a un lavoro nuovo.

Bisogna anche individuare i contenuti di una nuova etica del lavoro, che per molti aspetti è più individualistica e meritocratica che nel passato. In questo c'è un rischio, ma c'è anche un elemento innovativo positivo.

Mi ha colpito, nel libro di Federico Rampini sulla new economy, il legame (che è anche fisico) tra i protagonisti della new economy e la rivolta studentesca di Berkeley. Rampini dice che i protagonisti di questa grande rivoluzione sono figli di quella rivolta che ha generato, se volete, anche una nuova etica del lavoro, dell'affermazione di sé, della propria intelligenza, del proprio talento, delle proprie potenzialità nel lavoro.

Infine, almeno una parola va spesa, in termini più direttamente politici, su di noi e sulla coalizione del centrosinistra.

È necessario, in particolare se vogliamo affrontare l'ordine delle questioni che ho cercato di indicare, un lavoro serio e rigoroso di preparazione, di definizione programmatica e progettuale. Ma serve anche - lo considero un valore fondamentale - la definizione di un'immagine, di un messaggio, perché una coalizione che si candida a governare il paese o è fortemente coesa oppure non è competitiva.

Se c'è una cosa che abbiamo imparato, è proprio questa. In una terribile ricerca - terribile per i risultati - sull'immagine della politica presso gli italiani, alla domanda: "la politica quale parola le fa venire in mente?", la parola più ricorrente è stata (il 13% delle dichiarazioni spontanee) "confusione".

Seguono, poi, una serie di connotazioni, tutte più negative di questa, che è la più neutra. Alla fine, c'è un gruppo, molto minoritario, di parole positive.

Mi sono chiesto quale dei due schieramenti in campo risponde di più a questa connotazione negativa. Badate, la risposta a questa domanda è decisiva per una analisi corretta del voto (secondo me, l'analisi del voto bisogna farla prima delle elezioni, e lo dico anche in modo autocritico, perché io sono uno di quelli che non l'aveva fatta prima delle elezioni; ma ora siamo nelle condizioni di farla per tempo).

Non c'è dubbio che lo schieramento politico che sarà più individuabile, più esprimibile nella parola "confusione" potrà contenere dentro di sé le proposte più belle del mondo, ma è inevitabilmente destinato a subire uno scacco.

Quindi, ritengo che per il contributo che si può dare in questa direzione, programmatica, di ricerca, è importante se, attraverso tante vie, decidiamo insieme gli appuntamenti comuni, i momenti di sintesi, i momenti in cui viene alla luce una proposta del centrosinistra nella quale, ovviamente, concorrano diverse ispirazioni, ma che si presenti come tale.

Sono convinto che questo elemento coesivo sia molto più importante di quelli coercitivi elettorali. Alla fine, l'unità di una coalizione non è nell'obbligo di stare tutti insieme perché la legge elettorale ce lo impone, ma è nella condivisione di un progetto comune (anche perché abbiamo visto che l'obbligo elettorale può essere evaso dopo le elezioni).

Invece, la convinzione di un progetto comune è un collante più forte.

Grazie.

(c) 1999 Fondazione Italianieuropei



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