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Diario di un'indiana dell'Odin

Angelica Alemanno



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Quello che segue è il resoconto della partecipazione dell'autrice al seminario tenuto da Tage Larsen, al confine fra danza e teatro: tre giorni di confronto, di studio di sé e del rapporto con gli altri.

Primo giorno

Tre maggio, ingresso del Teatro India. Tutti puntuali di fronte al cancello di ferro che impedisce ai veicoli su due ruote di percorrere il vialone di ghiaia: l’entrata dei motorini si trova dall’altro lato. Ci si riconosce subito: spaesati e frettolosi, i giovani attori lasciano il casco obbligatorio legato alla criptonite. Superato il secondo varco, c’è un cancello basso spalancato. Da quest’altra parte l’aria è già diversa. C’è chi ha appena lasciato il caos di Viale Marconi e chi a passo d’uomo ha superato il ponte di ferro: ci si ritrova catapultati in una zona nascosta, inattesa. Sembra una baraccopoli industriale dove la natura urbana riesce ancora ad avere la meglio: ci sono lucertole, erba, papaveri e piccioni. Raccontano che questo spazio veniva chiamato "ex Mira Lanza" anche quando quei capannoni ospitavano i magazzini di attrezzeria teatrale Rancati.

È una mattina di primavera, e fa caldo. Oltrepassato il secondo capannone, si gira a sinistra e si trova il "tavolo dell’accoglienza" dove Patricia Alves, portoghese, smista i ragazzi verso i luoghi dei diversi seminari. Ma sopra al piccolo gruppetto di persone, il Gazometro, vicino e inconfondibile, è imponente. Rappresenta il monumento dell’India e ne è divenuto persino il logo grafico.

Scompaiono subito gli accenti e gli idiomi differenti. La nuova nazionalità è quella del teatro e accomuna partecipanti e guide dei paesi più diversi.

Il gruppo di Tage Larsen è il più numeroso e i venti allievi, tutti giovani, si disperdono nell’ampio spazio che è stato loro assegnato. Si parla poco mentre si aspetta il maestro e per lo più domina l’ansia per quel testo da dover imparare "molto molto bene".

Tutt’intorno ci sono solo foto scattate dal fotografo Tony D’Urso che ritraggono l’Odin e il lavoro degli attori. Quasi lo stimolo a far immergere chi le osserva in quel lavoro, in quel teatro.

Arriva Tage. Ed è diverso dall’idea che si ha di lui. Forse perché a fuorviare è quell’unica foto dell’85 che lo ritrae come un feroce personaggio del Vangelo di Oxyrhincus. Il Larsen che ci si trova davanti, invece, non è molto alto e ha la testa piccola, in contrasto con un collo taurino sul quale cadono capelli biondi raccolti da un elastico. Anche i vestiti sono normali: pantaloni neri larghi modello ‘esploratore’, una cinta in pelle e una maglietta rossa a maniche corte. Non parla bene l’italiano ma si capisce che vuole che gli si consegnino i testi imparati a memoria per l’occasione: il primo, quello di venti righe e l’altro, di quaranta.

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Tage introduce al training. Inizia la corsa in circolo interpretata dai più come un semplice esercizio di riscaldamento. Quasi nessuno tiene le braccia come ci ha mostrato Tage: tese lungo il corpo, con le spalle rilassate ma le mani ad angolo retto (pare che così la resistenza aumenti).

Subito dopo si passa all’esplorazione del potere espressivo di ogni parte del corpo: una spalla per volta, poi il tronco, il bacino, le mani, le ginocchia, persino il mento. Tutto deve divenire il centro energetico del movimento. Rotule e gomiti sono le macchine motrici che guidano il corpo nello spostamento. Non bisogna essere distratti dalle gambe o dalla velocià, tantomeno dalla grazia. Unico pensiero dev’essere il punto esatto che ci spinge: va inividuata la radice della forza.

Il momento del confronto arriva quando quei punti del corpo, da movimento, si trasformano in propulsori dinamici d’energia: a questo punto la forza va trasferita su un altro corpo. Si formano le coppie e ognuno, a turno, ha il ruolo attivo di catapulta. Primo punto di fuga è il petto, sul quale l’altro componente della coppia deve poggiare un piede per essere poi fatto saltare via: il teatro India, in queste occasioni, si trasforma in luogo di lotta pacifica.

Il primo giorno si conclude con un momento creativo in cui va costruita una piccola coreografia in quattro movimenti, ognuno dei quali deve avere come centro energetico una parte del corpo. Difficile svincolare quei movimenti dai gesti quotidiani, difficile memorizzarli.

Secondo giorno

Quattro maggio. Il training coinvolge anche le corde vocali, e durante la corsa iniziale viene inserita una nota fissa interrotta solo per riprendere fiato: è allora che anche il corpo si arresta. Poi si aggiunge il movimento delle gambe: le braccia devono simulare un volo, poi, per aumentare la difficoltà, si deve immaginare che le pareti della sala si restringano, e così, in quaranta metri quadri, venti persone in volo devono sfidare le leggi della fisica per non toccarsi. Qualcuno, in rotta di collisione, si ferma di scatto per poi riprendere di nuovo.

E solo quando Tage invita a sorridere ci si sorprende in una smorfia di terrore. E ci si ricorda che il volo è immaginario e non si rischia affatto di precipitare.

L’esercizio successivo porta a correre velocemente in ordine sparso con la precisa motivazione di ricercare qualcuno a cui rivolgersi: bisogna battere col piede per avvertire l’interlocutore che si sta per pronunciare una frase: tre parole di quelle contenute nel testo da memorizzare. Chi è di fronte deve ricordarle. Era divertente, soprattutto stancante e la stanchezza derivava dal fatto che oltre a banali esercizi fisici - che si è in genere abituati a compiere nel più completo abbandono intellettuale (musica, chiacchiere, compiacimenti di fronte allo specchio, eccetera) - ora ci si doveva concentrare sulla memoria, sull’interlocutore, sulla possibilità di uno scontro frontale.

Poi ci si riunisce di nuovo nel cerchio tribale, con la convinzione che ci si sarebbe finalmente potuti liberare dello Shakespeare di Stefano Benni, delle Rime Petrose o dell’Inferno di Dante.

Nel dubbio si torna a rielaborare le coreografie abbozzate il giorno prima. Ma quello che davvero si comprende è che tutto deve prima passare attraverso il corpo, le braccia, le dita: si inizia a riconoscere quel sangue e quel sudore di cui parlava Barba.

Terzo giorno

Cinque maggio, ultimo giorno. Tage spiega un metodo per memorizzare il testo che ha appreso da un attore ‘tradizionale’: una maniera per dirci che la contaminazione dei teatri avviene, nell’Odin, anche attingendo da chi del baratto non ha mai sentito parlare o da chi non ne fa una pratica artistica. Si tratta dell’associazionismo, elaborato da Ebbinghaus, da Pavlov e altri. E' il principio secondo il quale se si abbina a una parola l’immagine primaria che questa evoca, risulta meno difficile memorizzarla.

Dopo il riscaldamento iniziale inizia un nuovo esercizio basato sull’improvvisazione: la corsa di resistenza inventata da Mejerchol’d. C’è da percorrere il solito perimetro circolare a breve distanza gli uni dagli altri. I passi devono essere brevi, le braccia tese lungo il corpo e le mani ad angolo retto. Poi, a turno, raggiunto un determinato punto stabilito da Tage, la coppia in testa al treno si stacca dal gruppo e percorre una diagonale in cui uno dei due improvvisava movimenti energetici, con mani, gambe e testa, mentre l’altro deve imitarlo fino a rientrare nella fila. La prova è ripetuta fin quando non viene raggiunto un esito soddisfacente: una delle caratteristiche del lavoro dell’Odin è proprio la caparbietà dei suoi attori che non si arrendono tanto facilmente, abituati come sono a superare ostacoli molto più grandi delle diversità linguistiche.

Un altro esercizio utile per la socializzazione è la camminata all’unisono, quella che prevedeva un rapporto dinamico, ma delicatissimo, di equilibri e di tensioni all'interno della coppia.

Infine la performance finale, quella che tutti avrebbero dovuto eseguire ma che, per mancanza di spazio e di tempo, non era possibile fare in venti: unire la coreografia di quattro movimenti al nostro testo di quaranta parole.

Solo in tre sono andati al centro del cerchio tribale.

La dissonanza tra corpo e mente, così come tra parola e azione, è stata importante per comprendere i limiti di ognuno e per riflettere sulla necessità di porre l’extraquotidiano come disciplina dell’attore, come oggetto di studio su sé stessi e sugli altri.


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