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Teatro di frattura, senso del laboratorio

Eugenio Barba



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Questo testo, scritto nel 1964, è tratto dal volume Teatro. solitudine, mestiere, rivolta pubblicato da Ubulibri nel 1996

Ho lavorato con Jerzy Grotowski per tre anni in un’atmosfera speciale, isolato da ogni corrente e moda artistica, in quella piccola sala che è il Teatro-Laboratorium di Opole, una cittadina di 60.000 abitanti a 430 km da Varsavia e 250 km da Cracovia. Le condizioni di lavoro, però, erano chiare. Grotowski dirigeva un teatro finanziato dallo stato ed era relativamente libero da preoccupazioni economiche. Gli attori che aveva ingaggiato avevano terminato la scuola teatrale e accettavano un’austera disciplina. Con Grotowski collaboravano due tra le più interessanti personalità del mondo artistico polacco: il noto ed eccellente critico Ludwik Flaszen e Jerzy Gurawski, un giovanissimo architetto le cui idee originali costituivano un incessante fonte di ispirazione. Personalità di diversi campi artistici seguivano il loro lavoro da Varsavia, Cracovia, Poznan o Lodz, visitando spesso il Teatro-Laboratorium e rappresentando, così, un fronte di "critica" interna.

Il termine "laboratorio" aveva quindi un significato genuino: un gruppo di artisti qualificati si dedicava a una ricerca, basandosi su un’estetica e su un metodo tecnico chiaramente definiti, sostenuti da persone chiave della cultura polacca.

Ritornato in Norvegia, la mia nuova base, la situazione era totalmente diversa. Durante i tre anni trascorsi nell’anonimato di una cittadina seppellita in Slesia, ero stato, nondimeno, nel punto focale di una delle più originali esperienze del teatro contemporaneo. A Oslo, la capitale artistica e amministrativa della Norvegia, mi sono invece ritrovato veramente in "provincia", non dal punto di vista geografico o del costume, ma nel senso d’una "provincia" artistica che vegeta senza ambizioni, soddisfatta di risultati fortuiti non peggiori di quelli degli altri. L’unica creatività di questa "provincia" era la capacità di adornare la propria sterilità con una verbosità intollerante, con dibattiti mani e impudenti prestiti dai più recenti successi dei boulevard di Parigi o del West End di Londra. L’unica iniziativa di questa "provincia" era di fregiarsi supinamente con le piume dei successi altrui o di rallegrarsi degli errori degli altri, senza mai avere il coraggio di assumersi le conseguenze dei propri.

Mettiamo, però, i puntini sulle "i". La provincia norvegese non e in nulla differente da quella di qualsiasi altro paese europeo. La ricerca artistica indipendente, che vuole creare e non solo consumare, che elabora pazientemente visioni e cammini nuovi nell’arte drammatica, è scomparsa dalla maggior parte dei teatri europei. Eppure esiste ancora il bisogno di confrontarsi con un lavoro artistico che presenti la riflessione critica della propria condizione umana. Ma "questo bisogno dello spettatore è calpestato senza cessa da direttori avidi di fama e denaro, e da attori-vedette che adorano solleticare le viscere del loro pubblico profondendosi nello scimmiottare la vita lungi dall’essere membri disciplinati di un ensemble artisticamente creativo. Poi ci sono i registi del ‘realismo’, sommamente ignoranti della finalità dei loro spettacoli, che cercano a tentoni innovazioni eccentriche e brividi inusitati, senza la minima coerenza estetica e incapaci di distinguere tra un effetto formale e uno realistico. Il loro lavoro è sprecato, confonde solo il pubblico e gli attori. Né parliamo dei critici che balbettano frasi vuote nello sforzo spasmodico di comprendere le casuali trovate del regista, lui stesso ignorante del vero senso del suo lavoro".

Questo testo di Witkacy, scritto nel 1938, non sembra per niente datato. Potrebbe essere applicato all’intera "Norvegia theatralis", a tutta quella "provincia" artistica che è l’Europa, contenta della sua forza di inerzia e dei suggestivi miraggi di qualche profeta (Artaud e compagnia). Provincia che sopravvive grazie agli scombussolati finanziamenti dello stato e della città.

Il mio ritorno in Norvegia non è soltanto una forma di proselitismo a favore del metodo di Grotowski. Costituisce anche un interessante esperimento culturale e sociologico. Quale sarà la reazione dei norvegesi di fronte al tentativo di rompere la giovane tradizione del loro teatro nazionale, ben radicato nei naturalismo e nello psicologismo, anche se mascherato da frammenti di altre tecniche artistiche: film, pittura, letteratura drammatica, architettura? Cosa succederà in un paese che non ha vissuto la nascita e lo sviluppo di un proprio movimento di avanguardia, dove Joyce e i Surrealisti, Artaud e le opere complete di Brecht non sono stati tradotti, dove non esiste un teatro di avanguardia e dove l’intera vita teatrale evolve intorno a sei teatri stabili e tre compagnie di giro?



A prima vista le circostanze e il clima culturale non sembrerebbero propizi alla creazione e alla crescita di tin "teatro di frattura", un teatro che attraverso nuovi mezzi espressivi dell’attore propone una nuova funzione sociologica e un nuovo contenuto psicologico, che non descrive stati d’animo dei personaggi, ma sottopone gli spettatori a una scossa emotiva.

Due postulati, però, hanno deciso la mia scelta di rimanere in Norvegia e creare il mio proprio teatro. Il primo è preso in prestito dal "Manuale della guerriglia" di Ernesto "Che" Guevara (!). Dice: "Non si debbono sempre aspettare le condizioni favorevoli per iniziare una rivoluzione. Lo scoppio dell’insurrezione può bastare a crearle".

Voglio essere chiaro: lungi da me l’idea che il teatro debba servire una "rivoluzione". La frase di Guevara combina eroismo e abnegazione che dovrebbero contraddistinguere l’onestà nell’arte. Non è necessario sperare per intraprendere.

Un "teatro di frattura" è il rifiuto di ogni miope pragmatismo e dà vita, con coerenza organica, ai modelli della propria coscienza professionale. Come "guerriglieri" i suoi attori vivono una vita isolata, sempre all’offensiva, braccati dalla pubblica opinione degli ortodossi e degli artisti che, sicuri di sé e fieri dei proprio talento, reagiscono di fronte a questa banda indisciplinata che osa mettere in questione il valore della loro arte.

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Il secondo postulato deriva dal parallelo con il movimento di guerriglia. Un "teatro di frattura" non può basare la sua strategia e la sua tattica sulle tradizionali concezioni dei teatro accademico. La differenza tra questi due teatri risiede nel modo di organizzarsi, nella funzione artistica e sociologica, nei metodi di lavoro e negli obiettivi delle loro attività.. Non si tratta, per il "teatro di frattura", di imporre le sue norme artistiche o di arrivare al potere. Il suo scopo è trasmettere ai propri spettatori la consapevolezza del senso e della missione che il teatro dovrebbe avere nelle loro vite, quali bisogni intellettuali e spirituali quest’arte dovrebbe soddisfare nel loro tempo.

Il "teatro di frattura" si espone all’animosità degli spettatori, contrari a essere disturbati nel loro letargo intellettuale. Si attira l’indignazione dei critici che, bruscamente, vedono appassirsi tra le dita tutte le leziose frasi fatte con le quali etichettano ogni nuova corrente. È una spina nel piede del teatro accademico dall’indolente vocazione all’auto-compiacimento.

La tattica di un simile "teatro di frattura" consiste nel lavorare in completo isolamento, lontano dalle cerchie artistiche ufficiali, dandosi senza cessa compiti sempre più impervi, mai pago dei risultati, accendendosi per superare gli ostacoli della professione. Durante mesi e mesi di lavoro indefesso prepara lo spettacolo con il quale sferrerà l’attacco contro il teatro accademico, non con teorie estetiche, ma con tecnica raffinata e sincerità artistica. Dopo questo confronto, si ritira nell’arduo compito di un nuovo spettacolo che dovrebbe incenerire tutte le etichette applicate allo spettacolo precedente e soffocare ogni germoglio di dogmatismo nel proprio metodo di lavoro. Il "teatro di frattura" non sottostà a idee prestabilite: si sottomette allo sviluppo incarnato da un gruppo di attori con un’affinità artistica.

E quindi un teatro che si fonda sul sacrificio di ogni suo singolo componente che è pronto a darsi totalmente e dedicarsi al gruppo fino al limite delle sue forze. È un collettivo artistico dove ogni attore non si sente alienato come accade nella vasta macchina amministrativa e commercializzata del teatro accademico, con i suoi intrighi, le sue cricche e congreghe, la sua aberrante pubblicità. Si sviluppa grazie alla contiguità estetica dei suoi componenti, ma allo stesso tempo è una scuola di etica per l’attore in quanto individuo.

Gli attori di un simile teatro debbono provenire dall’ambiente dei "dilettanti": sono giovani che non sono passati per la demoralizzante esperienza di una scuola di teatro e non hanno appreso l’inoperosità dei palcoscenici accademici. Il "teatro di frattura" allena lui stesso i suoi attori e questa preparazione possiede due aspetti distinti: uno è interno e consiste nel training; l’altro è esterno, è lo spettacolo che racchiude i frutti del training. Ma questo teatro rimarrà una scuola durante tutta la sua esistenza e non cessera mai di confrontare i suoi attori con compiti che mettono alla prova le loro possibilità fisiche e psichiche.

Dopo alcuni anni questo teatro-scuola avrà elaborato degli strumenti di ricerca che eleveranno il lavoro a un livello superiore: i risultati saranno periodicamente presentati sotto forma di spettacolo. Possiamo immaginare la transizione di questo teatro in un Istituto di Ricerca o in un Laboratorio quando i suoi membri avranno affinato un approccio metodologico e sviluppato le necessarie capacità tecniche. Questo è possibile dopo almeno una decina di anni di lavoro in comune.

Il talento non è necessario in questo teatro. Il talento non esiste in teatro. Esiste solo una volontà di impegnarsi e di dare tutto se stesso al proprio lavoro. Per dare validità a questa affermazione è sufficiente ricordare l’attore dei teatri classici di Oriente dove dei bambini di sei, otto, dieci anni sono immessi nella professione e dopo dieci anni di intenso apprendistato e disciplina severa emergono come artisti la cui espressività suggestiva diventa il sogno più grande di ogni grande attore europeo. Il "teatro di frattura" seleziona i suoi componenti non in base al loro talento, ma alla loro capacità di consacrarsi al lavoro.

Tutto questo, però, non basta. Questi giovani debbono essere consapevoli della dura missione che stanno intraprendendo: debbono considerare un onore l’esperienza di partecipare a questa avventura teatrale. Gli attori finanziano il loro teatro di tasca propria durante una prima fase o in assenza di spettatori. Il loro credo artistico si riduce a due principi:

1. Signore, ti prego, dammi la forza di scegliere sempre il cammino più difficile

2. Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono

Posso immaginare il sorriso ironico del lettore leggendo questi "comandamenti" di etica professionale dall’aroma di ascesi, miraggio o sogno di un ingenuo idealista. È quindi il momento di rivolgerci a fatti concreti.

In una tranquilla stradina di Oslo esiste un teatro sconosciuto a tutti: 0din Teatret. Qui uno sparuto gruppo di attori si prepara a mettere in pratica la visione "idealista" appena abbozzata.

Il gruppo è stato selezionato tra i giovani che non hanno superato la prova di ammissione alla Scuola Nazionale di Teatro. Lavorano dalle 9 alle 16 e dalle 17 alle 20. Il training è pratico: acrobazia, ginnastica, sport, balletto classico, ritmica, plastica, improvvisazione, scene realistiche, igiene vocale ed esercizi di concentrazione (psicotecnica). Ognuno di loro dirige un settore specifico del training, naturalmente in collaborazione con il direttore artistico del teatro. Non vi sono pedagoghi che vengano da fuori a insegnare. Ogni studente è il maestro di se stesso e anche degli altri sotto la guida del regista.

Pedagogia significa studio cosciente del proprio corpo, dei meccanismi muscolari, delle leggi psicofisiche che determinano questi meccanismi, dei modi di controllarli e trasformarli in mezzi d’espressione artistica.

L’economia del teatro è assicurata dalle contribuzioni settimanali di ogni membro alla cassa comune. Nessuno può prendere un lavoro temporaneo in un teatro, in un film o alla televisione senza il consenso degli altri. È possibile ottenerlo a queste condizioni:

1. Il lavoro deve essere considerato tecnicamente utile per l’attore;

2. L’attore deve lavorare un tempo supplementare nel proprio teatro per compensare le ore di training trascurate;

3. Deve versare la metà del guadagno al teatro.

Un altro modo di incrementare l’economia del gruppo è di lavorare tutti una settimana fuori dal teatro e versare il salario guadagnato nella cassa comune. Cerchiamo di evitare il più possibile questa soluzione per non interrompere il ritmo del training.

L’Odin Teatret esiste già da qualche mese. Nonostante la disciplina inflessibile e le difficoltà economiche non mostra nessuno dei sintomi endemici che affliggono i teatri accademici. Gli attori pensano, con calma e buon umore, ai lunghi anni di training che li aspettano. Hanno completamente accettato la singolare atmosfera di lavoro dove anonimato e sacrificio sono la regola comune. Si comincia già a notare lo sviluppo di una forma di integrità professionale dove l’unica istanza critica è la propria coscienza.

Non abbiamo molti contatti con l’esterno, ma da ciò il teatro ricava lo stimolo a fare da sé. Il fatto che il noto e polemico autore norvegese Jens Bjornehoe abbia offerto gratuitamente un suo testo inedito, Ornitofilene, per il primo spettacolo, o meglio per segnare "lo scoppio delle ostilità", è per noi una prova di fiducia e una fonte di incoraggiamento. La prima avrà luogo solo quando il gruppo sarà sicuro che, nell’attuale fase delle sue possibilità tecniche, non può offrire di più.

Che probabilità di sopravvivenza ha un simile teatro nello stato-provvidenza scandinavo dove gli standard materiali di vita hanno sostiuito i bisogni spirituali? Credo profondamente che esisterà sempre un numero ristretto di giovani alla ricerca di un rifugio, o meglio, di un cammino che conduca a una protesta articolata e a una rivolta aperta, ma disciplinata, contro una società in cui si sentono estranei. Si tratta di saper dirigere questa rivolta attraverso un’attività che può essere utilie alla società e che, per l’attore, diventa una scuola di autodisciplina morale.

Non è questione di una corretta preparazione professionale, ma di far sorgere una nuova etica del mestiere. Per noi è naturale che tecnica ed estetica siano le conseguenze di un’attitudine etica determinata. Perché voglio diventare attore? Che rappresenta il teatro per me e cosa dovrebbe rappresentare per gli spettatori a cui mi rivolgo? Che senso ha il teatro e che compito deve svolgere in un’epoca dove nuove forme di intrattenimento hanno assorbito le sue precedenti funzioni sociali?

Ecco le domande che debbono trovare risposta nel lavoro di questo gruppo di giovani la cui ostinazione disinteressata è diagnosticata come follia da una società sana.

Sì, è follia. Però ha un metodo.


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