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Governi solidi come meringhe


Giancarlo Bosetti

 

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Confermato. C’e’ sempre una piccola differenza che separa i governanti italiani da quelli degli altri grandi paesi. In generale il premier americano, tedesco, inglese, francese e’ uno che sa di stare li’, a rappresentare il potere politico del suo paese, perche’ eletto secondo certe procedure, piu’ (Usa, Germania, Inghilterra) o meno (Francia) dirette, e sa anche di avere davanti a se’ una durata garantita uguale almeno a una legislatura. Se fara’ bene, guadagnera’ anche la seconda e, dove si puo’, persino la terza.

Il capo del governo italiano, invece, anche se interloquisce alla pari (apparentemente) con i suoi colleghi, anche se siede allo stesso tavolo, con accanto a volte la consorte, e con la disinvoltura (apparente) che si addice a questi casi, e’ sempre un miracolato dalla grazia delle circostanze. Si dice di lui: e’ il premier. Si dice di lei: e’ la first lady. D’accordo, continueremo a dirlo. Ma sono soltanto formule di cortesia. Rispetto agli altri, l’italiano ha un handicap: non sa mai quanto durera’.

Non e’ veramente un premier. E’ un ospite di fortuna tra i governanti del mondo, chiunque sia. Se e’ li’, ci e’ arrivato per lo piu’ fortunosamente, attraverso le piu’ complicate ingegnerie della politica nostrana. Quando, come raramente e’ accaduto, come e’ accaduto anzi soltanto due volte - a Berlusconi e a Prodi - arriva in quella posizione direttamente dalle elezioni, si sa che non ci restera’ se non per un anno o poco piu’, perche’ la avventurosa accozzaglia messa insieme per eleggerlo (sposando diavolo e acqua santa, Bossi e Fini, Bertinotti e Dini e cosi’ via) si sfalda comunque al primo giro di boa.

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Ogni volta noi italiani fingiamo di non saperlo, i giornali evitano di ricordarlo sempre per cortesia, ma la verita’ e’ inoppugnabile: il governante italiano e’ di rango inferiore rispetto agli altri non perche’ sia meno bravo, ma perche’ ha un biglietto di ingresso come quelli che allo stadio una volta davano diritto solo a posti in piedi. Il premier italiano dunque deve sempre stare in punta di piedi per vedere la partita, gli altri comodamente seduti sulle poltrone.

Le dimissioni di D’Alema confermano in una maniera che in francese si direbbe écrasante questa condizione di inferiorita’. Il carattere umiliante della faccenda, quel che denuncia la nostra assoluta impotenza, e’ che si tratta, appunto, di una conferma scontata, che fa semplicemente seguito a tutte le altre degli anni passati. Abbiamo quindi maturato la assoluta certezza che il sistema politico italiano non funziona, che non esiste furbata in grado di aggirare una micidiale legge elettorale, la Mattarella, la quale fa regolarmente cascare i governi dopo un po’ che sono su.

Si dira’: ma questa volta D’Alema se ne va perche’ ha perso le elezioni regionali. Certo. Ma anche il nesso tra le elezioni locali e il governo centrale e’ un bizantinismo figlio della precarieta’ delle maggioranze parlamentari e dunque della Mattarella. Voglio dire che il premier uscente ha fatto bene ad andarsene dopo il voto del 16 aprile, non poteva restare; ma il voto regionale contrario alla sua maggioranza ha avuto questo effetto perche’ D'Alema non era un premier con poteri pieni. Ne’ il presidente americano, ne’ i governanti inglesi o tedeschi se ne vanno dopo risultati contrari alle elezioni di mezzo termine o nelle regioni. Non ci pensano neppure a interrompere il loro mandato. D’Alema non aveva una piena investitura, come sarebbe stata quella di Prodi, uscito vincitore dalle elezioni.

Dunque, quella piccola, ma poi non tanto piccola, "differenza" non riguarda solo l’autorevolezza con cui ci si siede al tavolo dei G7 (dove una riunione si’ e una no, noi cambiamo comicamente il nostro uomo, senza che ci siano state elezioni), ma, come si vede, anche l’autorevolezza con cui il nostro uomo si siede sulla poltrona di capo del governo in casa nostra. Il suo potere e’ friabile. Possono buttarlo giu’ i malumori dell’ultimo partitino della maggioranza come i colpi di vento delle elezioni locali. Si capisce che, in queste condizioni, chi va a Palazzo Chigi non puo’ veramente governare, ma deve contentarsi di presidiare la prestigiosa posizione impedendo ad altri di occupare il suo posto. Una soddisfazione assai modesta, spendibile e gratificante solo nella cerchia degli amici.

Fanno eccezione i governi tecnici (Amato, Ciampi gli ultimi memorabili) che hanno impostato e svolto la maggior parte del lavoro economico. Ma, a onor del vero e per evitare illusioni, bisogna ricordare che quei governi operavano prima dell’entrata in funzione della mitica Mattarella, erano ancora figli del sistema proporzionale. La nuova legge arrivo’ nel 1994 e ci regalo’ il tonfo di Berlusconi causato da Bossi (pronto ora a ripetere lo spettacolo) e quello di Prodi causato da Bertinotti (anche lui si sta preparando al bis, se gliene daranno la possibilita’).

Se Amato ora ci riprova, speriamo che questa volta la sua abilita’ gli consenta almeno un risultato: una nuova legge elettorale che ci risparmi la prosecuzione dello spettacolo di governi friabili come meringhe. Gli dobbiamo essere ancora grati per avere iniziato nel 1992 il risanamento del bilancio dello Stato, vorremmo essergli grati, d’ora in poi per sempre, per avere regalato all’Italia, con l’aiuto del referendum del 21 maggio, una legge elettorale che metta fine a questa pena. Non l’unica, per carita’, tra quelle che ci affliggono. Ma delle altre parleremo la prossima volta.


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