Un nesso fra filologia e immaginazione
Maurizio Bettini
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Si era verso il 1977, allorché ci imbattemmo in un libro "Adelphi" dalla
copertina arancione. Almeno in quegli anni, un giovane classicista diffidava
necessariamente di un libro dalla copertina arancione, e doppiamente ne diffidava se
l'autore era uno psicoanalista americano. Eppure il titolo di quel libro indicava che esso
ci riguardava: si chiamava Saggio su Pan, e lo aveva scritto James Hillman. Come mai uno
psicoanalista americano si interessava tanto al "nostro" dio Pan?
E questo era ancora nulla. Aprimmo quel libro, e un nome balzò immediatamente ai nostri
occhi. Un nome indiscutibilmente "nostro", quello di Wilhelm Heinrich Roscher,
il filologo classico a cui dobbiamo uno dei frutti migliori della "scienza
dell'antichità" nella Germania della fine del secolo scorso: il grande Lessico
esaustivo della mitologia greca e romana (Ausführliches Lexicon der griechischen und
römischen Mythologie). Un'opera enciclopedica, monumentale, in cui i migliori specialisti
del mondo classico attivi nella Germania di allora - e ce n'erano di straordinari - sotto
l'occhio vigile e scrupoloso di Roscher avevano raccolto le fonti, letterarie e
iconografiche, dei miti e delle credenze che erano circolate nel mondo classico:
fornendone interpretazioni quasi sempre di grande ricchezza.
Passi dunque per il dio Pan. Ma che ci faceva il dottissimo Roscher nel libro arancione di
uno psicoanalista americano? Secondo Hillman, l'autore del Lessico non era stato solo un
enciclopedista e un erudito, ma un uomo animato da una grande passione. Il suo interesse,
biografico prima ancora che scientifico, per soggetti quali il sonno, l'incubo, il lupo
mannaro, la numerologia, lo aveva guidato in tutto il suo monumentale lavoro di ricerca,
fino a fare della sua opera un'impresa paragonabile a quella di suoi contemporanei quali
Freud o di Charcot. In pratica, il Lessico di Roscher si rivelava a Hillman come
un'esplorazione del "profondo" psicologico attraverso strumenti che, se erano
diversi da quelli della psicoanalisi, avevano prodotto risultati di cui questa disciplina
poteva ampiamente servirsi.

Eravamo classicisti e filologi, restammo abbastanza scettici (e lo siamo ancora) di fronte
alla possibilità di trasformare i miti greci in archetipi della psiche, e gli scoli a
Nicandro, o anche l'Antigone di Sofocle, in strumenti terapeutici. Ma fummo colpiti
dall'accenno alla "passione" di Roscher. Soprattutto quando leggemmo questa
frase (p. 30): "il valore della filologia non va ... giudicato soltanto per il
contributo che dà all'intelletto ma anche per il contributo che dà all'immaginazione.
Questo dovrebbe essere tenuto in mente quando si legge Roscher ... Spesso i moderni
filologi classici vedono le esorbitanti fantasie dei loro predecessori come deficienze
intellettuali. E non vedono che il contrario sta accadendo a loro stessi: la povertà
della fantasia, le ingenuità psicologiche, la grande aridità emotiva che accompagna le
loro imprese intellettuali rivelano insufficienze immaginali non meno gravi".
Eravamo classicisti, d'accordo, ma eravamo giovani. Come non entusiasmarsi di fronte alle
parole di uno psicoanalista americano che chiedeva alla filologia classica un contributo
all'immaginazione? Ecco che Nietzsche aveva ricominciato ad ammonirci.
Quelle frasi del Saggio su Pan mi sono tornate in mente quando, nell'aula magna
dell'Università di Siena, ho ascoltato le parole di James Hillman. La situazione
riproduceva in qualche modo la "scena primaria" - se così si può dire per
restare in tema - ossia quella del classicista che apre il libro arancione dello
psicoanalista americano. La scala di questa scena però si era di molto accresciuta.
Stavolta infatti lo psicoanalista americano era lì in carne ed ossa (mi par di ricordare
comunque che i fogli della conferenza fossero raccolti in una cartellina arancione ...), e
al posto di quell'unico classicista ce n'erano parecchi, un intero "Centro di
antropologia e mondo antico": quello che a Siena da molti anni si occupa di
discipline che certo sarebbero piaciute a Wilhelm Roscher, e che su di esse ha aperto un
programma di Dottorato da cui sono già usciti numerosi e interessanti giovani studiosi.
Anche in questa occasione, dunque, Hillman ha ristabilito quel nesso fra filologia e
immaginazione che già raccomandava oltre venti anni fa. La sua lode della diversità,
specie quella metaforica, iperbolica, di autori come Tasso o Shakespeare; il suo timore
che la lingua universale (l'inglese di Internet, l'inglese commerciale) finisca per
cancellare la ricchezza delle lingue locali; le sue ironie sullo stupidario degli acronimi
e sulla genericità del "politically correct". Tutto questo costituisce anzi
qualcosa di più che un invito a ricongiungere fra loro filologia e immaginazione. Le
parole di Hillman ci ricordano che in un mondo senza lingue particolari, senza
"localizzazione" delle culture e senza figure retoriche - in un mondo insomma
senza Babele - la filologia non avrebbe semplicemente più niente di cui occuparsi.
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