Chi è Vittorio Hosle
Nato a Milano nel 1960, Vittorio Hösle dal 1977 al 1982 ha studiato filosofia, storia
della scienza, indologia e filologia greca a Regensburg, Tübingen, Bochum e Freiburg. Nel
1982 ha completato un dottorato di ricerca. Nel 1986 ha conseguito l'abilitazione
all'insegnamento e nel 1988 è divenuto Associate Professor alla New School for Social
Research di New York. Dal 1987 fino al 1993 ha fruito di una borsa di studio presso
l'Università di Heidelberg. Attualmente è professore ordinario all'Università di Essen
e membro del centro di ricerca Kulturwissenschaften Institut del Nordrhein-Westfalen. Ha
trascorso periodi di ricerca e di insegnamento in Italia, Svizzera, Olanda, Norvegia,
Russia, Stati Uniti, Brasile ed India. Dal 1987 tiene regolarmente corsi presso l'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli.
Gli interessi storico-filosofici di Hösle sono vasti e vanno dalla filosofia antica
(Parmenide, Platone) alla filosofia moderna (Machiavelli e Vico) fino all'idealismo
tedesco. Da un punto di vista più strettamente teoretico e sistematico, la sua
riflessione ha toccato temi e problemi di carattere metafisico ed etico-politico. Nelle
opere più recenti è impegnato in una ricostruzione critica dell'idealismo oggettivo e
nel tentativo di elaborazione di un'etica capace di rispondere ai problemi del mondo
tecnologico.
Queste le opere pubblicate in Italia:
Verità e storia, Guerini, Milano, 1998; Il compimento della tragedia nell'opera tarda
di Sofocle, Bibliopolis, Napoli, 1986; La legittimità del politico, Guerini, Milano,
1990; Hegel e la fondazione dell'idealismo oggettivo, Guerini, Milano,1991; Filosofia
della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1992.
Professor Hösle, lei ha avuto l'opportunità di insegnare in molti atenei in Europa,
in Unione Sovietica, in Brasile, in India. Ci può dire qual è l'impressione che ne ha
ricavato sullo stato di salute dell'università nel mondo?
Credo che l'università si trovi in una crisi assai profonda. Da una parte si ha sempre
l'impressione, quando la gente o le istituzioni parlano della propria crisi, che lo
facciano anche per catturare un po più di attenzione pubblica. Chi oggi non è in
crisi, non risulta molto interessante. Però nel caso dell'università la crisi è reale e
credo che abbia a che fare con la sensazione profonda, sviluppata da sempre più persone,
che la scienza, la quale è nata con la promessa di rendere la vita migliore, più facile
per l'uomo, con le sue applicazioni tecnologiche stia per tramutare il mondo in un
inferno. Essendo l'università l'istituzione che ha portato il trionfo della scienza nella
società, la crisi della credibilità della scienza si riflette necessariamente
sull'università stessa.
L'università, lo dice il nome stesso, è nata con la pretesa dell'universalità del
sapere, dellorganicità, talvolta in contrapposizione all'organicità stessa della
teologia. Oggi invece si è ridotta ad essere la sommatoria di tanti specialismi, di tante
discipline particolari. In che misura questo incide sulla sua crisi?
In maniera molto profonda. L'idea di università, che è stata sviluppata in Europa nel
Medioevo, è basata, come lei diceva giustamente, su qualcosa di totale. All'inizio con la
res cogitans non si intendeva ancora la universitas studiorum, cioè l'insieme di tutti
gli studi, ma il vivere insieme dei professori e degli studenti. Il momento di
universalità dell'università aveva dunque prima di tutto a che fare con un rapporto
esistenziale, pedagogico tra i professori e gli studenti e solo in secondo luogo con
l'interezza del sapere. Nel Medioevo l'università era strutturata in maniera gerarchica.
Si assumeva che esistesse un ordine naturale del sapere e l'ordine era quello della
filosofia come facoltà, per la quale dovevano passare tutti, anche i medici e i giuristi,
e dove si acquisiva un sapere generale dell'ente creato. Come quarta facoltà si erge
sopra le altre la teologia. Infatti, secondo il concetto medievale del sapere e
dell'università, è Dio che dà l'unità ultima al sapere.
Come ho già detto, la crisi odierna all'interno dell'università ha a che fare con la
crisi della scienza moderna. La scienza moderna non esisteva ancora al tempo delle
università medievali, poiché è un risultato di profondi cambiamenti nelle categorie e
nei valori degli uomini che si verificano nel Seicento: il Seicento è l'era in cui sorge
la scienza moderna. E' molto importante notare che la scienza moderna si è sviluppata al
di fuori delle università, e questo perché le università, come molte altre istituzioni
a quel tempo, erano molto inerti e non avevano nessun interesse a farsi mettere in
discussione dal nuovo sapere. I più grandi filosofi che hanno formato la scienza moderna,
come Descartes, Spinoza, Leibniz, non hanno avuto niente a che fare con le università,
anzi, quando hanno ricevuto proposte di incarico, le hanno sempre gentilmente rifiutate
perché erano convinti che queste istituzioni non fossero favorevoli allo sviluppo del
tipo di sapere che loro perseguivano.
E' stato la grandezza di von Humboldt all'inizio dell'Ottocento, ma anche quella di
altri filosofi che si sono occupati della legittimazione dell'università, come Schelling,
a riproporre unidea di ateneo che fosse all'altezza del sapere del tempo. Von
Humboldt concepisce l'università come il luogo del sapere in cui c'è unità tra ricerca
e insegnamento e in cui il sapere raccolto dalle nuove scienze, dal Seicento in poi, viene
integrato sulla base della funzione formativa ed educativa del singolo. Se nella filosofia
medievale è Dio che dà unità al mondo e garantisce l'unità del sapere, nella filosofia
moderna e nell'epoca dell'idealismo tedesco è il concetto dell'Io a trovarsi in primo
piano.
Il concetto della formazione dell'Io è diventato sempre più implausibile. Nella
cosiddetta epoca "postmoderna" si parla sempre del fatto che il soggetto si è
estinto, che è stato superato non si sa da che. Se analizziamo la cultura di questo
secolo vediamo che, intorno alla sua metà, i grandi Bildungsromane, fra cui il primo è
stato il Wilhelm Meister di Goethe, terminano. Terminano perché il soggetto non è più
in grado di esperire il proprio sviluppo come ununità che si volge verso un telos
ben determinato: esso esperisce invece se stesso e il mondo come una somma infinita di
singoli fattori connessi causalmente e privi di una unità organica e di un principio
organizzativo. Tutto questo è manifesto oggi nella frustrazione totale che si avverte
nelle università, le quali hanno perso la visione di un sapere integrativo e di una
formazione, di una Bildung, dell'individuo.
Ci può descrivere più nel dettaglio come si manifesta la crisi delle università,
soprattutto riguardo al rapporto tra studenti e insegnanti?
Praticamente un rapporto tra studenti e insegnanti non c'è. La maggior parte degli
studenti vede il professore rare volte, lo vede in aula, ma non riesce ad avere contatto
personale con lui e se anche riesce ad averlo è un contatto limitato da formalismi, dal
senso della gerarchia che sono sempre esistiti nella storia umana, ma che oggi mancano di
quella ragion d'essere che hanno avuto in una società più meritocratica di quella
odierna. Devo dire che sono stato molto colpito dal sistema dei college americani che
hanno la fortuna di essere situati fuori delle grandi città, - a New York evidentemente
è più difficile che ciò si verifichi - dove è normale che il professore alcune volte
la settimana vada a mangiare alla mensa insieme agli studenti.
In questi college io vedo ancora una possibilità di condividere una forma di vita,
attraverso anche il ruolo di modello personale che il professore o studenti più anziani
possono rivestire per lo studente giovane: tutto ciò è andato perso in Europa. Il
paradosso del mondo attuale è che alcune idee molto profonde alla base del concetto di
università europea, un concetto che si è sviluppato nel Medioevo, sono oggi molto più
presenti in America, e in generale nei Paesi angloamericani, che nel resto d'Europa.
Questo ha naturalmente a che fare anche con un problema di numeri: è chiaro infatti che
non si possono avere rapporti personali con migliaia di studenti, nessuno riesce a gestire
un tale numero di relazioni. E chiaro allora che, se vogliamo ritornare a un
rapporto pedagogico più intenso tra insegnanti e studenti, è inevitabile limitare almeno
in certi seminari, in certe istituzioni, il numero degli iscritti.
Introdurre una sorta di numero chiuso non rischia di sfavorire determinate classi
sociali nellaccesso all'università? Non c'è la possibilità di avere
un'università che funzioni anche se vi accede un grande numero di persone?
Io distinguerei molto chiaramente tra il numero chiuso e la discriminazione sociale. E'
chiaro che ogni forma di discriminazione sociale è inaccettabile e incompatibile con
l'idea dell'università. Già nel Medioevo è interessante vedere quante borse di studio
esistevano per studenti non ricchi. L'idea dell'università è un'idea trans-nazionale e
trans-sociale. Questo lo si può già vedere, come dicevo, nel Medioevo dove le barriere
sociali erano minori di quanto oggi si immagina, a causa di un particolare sistema di
gestione delle borse e del carattere estremamente internazionale delle università. In
ognuna delle grandi università medievali si potevano trovare studenti provenienti da
tutti i Paesi dell'Europa cristiana. Ripeto, dunque, che se c'è il pericolo di una
discriminazione sociale, io sono sempre contro il numero chiuso.
Ma non sono sempre sbagliate le selezioni basate su fattori intellettuali. Non tutte le
persone infatti hanno la stessa capacità e la stessa voglia di imparare e non credo che
sia illegittimo fondare istituzioni dove vengono ammesse solo persone che hanno dimostrato
un certo livello di capacità. Si possono immaginare due modelli: il modello tedesco per
limitare gli studenti e il numero chiuso dove unistituzione centrale sul piano
nazionale regola quali studenti, ad esempio, vengono ammessi a studiare medicina. Un'altra
forma è quella che esiste negli Stati Uniti, per cui le singole università hanno il
diritto di scegliere gli studenti che vi accedono. Personalmente credo che il sistema
americano sia molto più umano di quello tedesco, perchè se uno è rifiutato da una
università, e spesso il rifiuto può basarsi su fattori contingenti, può tentare di
accedere ad una seconda università, mentre in Germania, se uno ha avuto un responso
negativo dallamministrazione centrale, almeno per quell'anno non può accedere a
nessun ateneo. Perciò ritengo che il diritto da parte delle singole università di
scegliersi i propri studenti, se non è basato su selezioni sociali, rappresenti qualcosa
di ragionevole.
Un importante filosofo come Benedetto Croce ha usato toni durissimi nei confronti
dell'università, in particolare dei professori: ha parlato addirittura di
"teppa", di "camorra" presenti all'interno dell'università. Lei che
è professore universitario, quale responsabilità attribuisce ai docenti nella crisi
dell'istituzione?
Temo, purtroppo, che Croce non sia andato tanto lontano dalla verità. La mia
impressione è che, come la rivoluzione operata dalla scienza moderna del concetto del
sapere tramandato dai Greci e conservato e sviluppato nel Medioevo è avvenuta al di fuori
delle università, analogamente anche il cambiamento nel concetto del sapere di cui ha
bisogno la nostra civiltà per sopravvivere ai problemi del secolo prossimo probabilmente
avverrà al di fuori delle istituzioni. Cioè io credo che le università siano, per molti
aspetti e per ragioni più istituzionali che personali, sclerotizzate, e che perciò le
idee che nel secolo prossimo potranno aiutare l'umanità a correggere il proprio
comportamento e il proprio concetto di "scienza" si svilupperanno fuori
dellambito accademico.
Naturalmente esistono grandi personalità all'interno delle università, ma
questultime non hanno più - non lo hanno avuto spesso nella storia, ma lo hanno
avuto ad esempio in Germania dell'Ottocento - il monopolio delle idee interessanti. Ci
sono molti professori estremamente mediocri e invece molte persone al di fuori delle
università intellettualmente e scientificamente non inferiori ai docenti universitari. In
Germania è così perché ormai nel campo delle scienze naturali la maggior parte della
ricerca importante non viene più fatta nelle università, ma negli istituti finalizzati
esclusivamente a quello scopo. Anche la ricerca - nellambito delle scienze applicate
- effettuata all'interno delle ditte diventa sempre più rilevante.
Esiste anche, come esiste nei confronti della politica, il problema della mancanza di
unonestà complessiva di fondo, in questo caso sul piano intellettuale, secondo la
quale la docenza dovrebbe essere una forma di servizio e non una forma di carriera?
Certo. E' chiaro che la scienza può essere legittimata solo se corrisponde a due
criteri: il primo è la posizione tradizionale della filosofia antica secondo cui il
sapere è qualcosa che ha valore in se stesso. Ma questo, sebbene dia una certa
rispettabilità alle persone che si occupano del sapere come fine a se stesso,
difficilmente può giustificare il fatto che lo Stato ogni anno dia miliardi per il
sovvenzionamento di un simile sistema. Il secondo argomento è che la scienza è utile,
che il suo sviluppo aiuta lo Stato ad adempiere agli scopi che lo legittimano, come
aumentare la ricchezza o migliorare la salute dei cittadini. Insisto sul fatto che il
problema essenziale del mondo moderno è che una filosofia scettica nel campo teoretico e
nel campo valutativo ha reso sempre più dubbia la fede ingenua nel valore del sapere fine
a se stesso, e che i problemi della modernità come l'approfondirsi dell'abisso tra
nazioni ricche e nazioni povere, la crisi ecologica, la possibilità di uno sterminio
dell'umanità attraverso l'uso di armi nucleari, sono i risultati della scienza; perciò
sempre più persone si chiedono se la scienza sia veramente utile o addirittura se non sia
dannosa.
Feyerabend ha tratto la conclusione che sarebbe meglio chiudere le università come
istituzioni pubbliche e lasciare alla libera iniziativa dei singoli la creazione di
proprie "istituzioni" di formazione. Io non sono del parere di Feyerabend, ma
credo che la scienza non potrà più aver la pretesa di essere aiutata dallo Stato se non
riesce a rendere plausibile che essa, e solo essa, è in grado di risolvere i problemi che
ha generato. Personalmente credo che la scienza abbia questa capacità rigenerativa. Come
Parsifal dice che solo larma che ha causato la ferita può risanarla, così
probabilmente solo la scienza può rigenerare il mondo dalle ferite che essa ha procurato.
Ma se l'università non è in grado di fare passi verso una scienza veramente vicina alla
soluzione dei problemi che minacciano tutti noi, è molto probabile che essa perderà
sempre più legittimazione e alla fine anche i sussidi statali.
Il risultato più grave di questa crisi è forse che ci sono giovani più istruiti
rispetto ai loro genitori e alle generazioni passate, ma che hanno un'idea frammentaria
del mondo, anche perché spesso se la formano attraverso i mass-media. Come opporsi allora
alla sparizione dell'idea di educazione, della paideia dei Greci, al fatto che le persone
e le conoscenze siano solo "istruzioni per l'uso"?
Io sono convinto che leducazione sia più che il trasferimento di informazioni.
Il fatto che l'università si sia sempre più ridotta ad essere unistituzione per il
"transfert" di informazioni ha sempre più contribuito alla crisi attuale. Sono
perciò convinto che abbiamo bisogno di un concetto forte di "istruzione", ma
anche che listruzione non possa esistere senza un adeguato concetto di
"soggetto", di "persona". Ed è chiaro che un'epoca in cui il soggetto
è un automaton che reagisce a influenze provenienti da sistemi sociali o che non è
nient'altro che una struttura sovrapposta ad un apparato biochimico, non può avere un
forte concetto di "istruzione". Listruzione ha a che fare con i valori che
una persona accetta e che la tragedia del mondo moderno, che si manifesta, ad esempio,
nell'ambito delle cosiddette scienze umanistiche, consiste in questo: si educano sempre
più persone, le quali conoscono sempre più cose su altre culture, ma che non sono in
grado di valorizzare ciò che hanno imparato, di dire cosa è giusto, cosa è ragionevole
e cosa lo è meno nelle singole culture. Queste persone imparano "su" altre
culture ma non imparano "da" altre culture.
Questo è il dilemma delle scienze umanistiche moderne, il cui risultato è
rappresentato dal cinico personaggio colto, ma spesso persino incolto, il quale non è
più in grado di usare il suo sapere per risolvere i conflitti morali davanti a cui ogni
uomo è posto e la cui soluzione decide della sua vita personale. Cosa fare contro questa
situazione? Bisogna tentare di rafforzare l'idea di "educazione", bisogna
tentare di aiutare gli individui che hanno un forte bisogno di crescita totale della
persona a raggiungerla, bisogna dare loro l'apparato categoriale per capire il mondo come
è e per sviluppare quelle istanze normative di cui hanno bisogno per operare delle
decisioni. Ma io sono altresì convinto che tutti i fattori determinanti del sistema
sociale attuale siano assai sfavorevoli a uno sviluppo in questa direzione e mi auguro che
i vari sottosistemi della nostra società possano fare ciò che è nelle loro possibilità
per evitare almeno unaccelerazione di tale sviluppo.
Professor Hösle, cosa sono i sottosistemi?
Sono i sistemi più importanti: l'economia, la politica, i mass-media, la religione, la
famiglia. Mi auguro che questi sottosistemi riescano a dare un orientamento alla
formazione della personalità dei singoli individui. Sono però molto contento che lei,
dottor Parascandolo, abbia sviluppato lEnciclopedia Multimediale delle Scienze
Filosofiche, che ha lobiettivo di portare le idee fondamentali dei più grandi
filosofi del nostro tempo vicino a quelle persone che cercano di raggiungere un sapere che
vada al di là del mero nozionismo offerto dai sistemi di informazione dominanti nella
nostra società. Sono però anche convinto che leducazione non sia qualcosa che può
essere raggiunto solo mediante l'accumulazione di informazioni, anche se importanti. Credo
quindi che in ogni processo di educazione vi siano alcune eperienze personali, anche di
autosacrificio, che non possono essere sostituite da nient'altro. Le società arcaiche ne
avevano un senso molto profondo, per questo nei loro riti di iniziazione era sempre
presente un elemento di autosacrificio. E uno dei problemi più terribili del mondo
moderno è che noi abbiamo sempre meno persone che capiscono che cosa voglia dire
"autosacrificio". L'istruzione ha a che fare con l'insegnamento
dell'autosacrificio.
La condizione degli intellettuali che lei ha descritto mi sembra molto simile a quella
in cui si trovavano i sofisti durante la crisi di Atene. Questo vuol dire che abbiamo
bisogno di un Socrate e di un Platone per uscire fuori da questa crisi?
Molto probabilmente. Anche loro non sono riusciti ad evitare la catastrofe totale, ma
almeno hanno offerto alcune idee che poi sono state assai utili all'umanità. Io credo
però che per uscire veramente dalla crisi profonda nella quale l'umanità oggi si trova,
e che è più paragonabile alla crisi della tarda antichità, cioè a quella di Roma, sia
necessario qualcosa che vada al di là della filosofia, che riesca a motivare anche
persone che non sono "intellettuali" per natura insegnando loro lo spirito di
sacrificio. Penso che ci voglia qualcosa come una religione, ma diversa dalle religioni
che abbiamo conosciuto finora, le quali per molti aspetti non sono in grado di competere
con la modernità.
Il Cristianesimo ha dimostrato di essere superiore allo stoicismo e al neoplatonismo
per varie ragioni. Una era che, essendo più vicino alla intuizione popolare, aveva una
forza di convinzione delle masse che invece non possedevano quei sistemi filosofici. Ma
sicuramente l'aspetto centrale del Cristianesimo è stata l'esperienza personale del
sacrificio, prima di tutto, di Gesù Cristo e poi dei singoli membri delle comunità
cristiane originarie, sacrificio che essi hanno dovuto perpetrare per aderire a questo
movimento religioso. Lei sa che io non sono stato scontento del crollo del comunismo. Ma
la tragedia che vedo nel suo Paese è che, dopo il crollo di un'ideologia in gran parte
malamente costruita, ogni seppur vaga legittimazione della necessità di qualcosa come
l'autosacrificio è svanita: così l'edonismo e l'individualismo più sfrenato, più
incapace di controllarsi mediante la cognizione del tutto, invade tutti i sottosistemi
dell'Italia e di altri Paesi europei.
Non è deludente per noi, che con l'Illuminismo siamo stati educati a credere nella
ragione, dover sperare che ritorni una religione?
Può darsi che sia deludente, ma io credo che il progetto dell'Illuminismo sia in molti
aspetti fallito. E tragico riconoscerlo, ma proprio uno dei valori principali
dell'Illuminismo, cioè l'onestà, ci obbliga ad ammettere che varie previsioni non si
sono avverate. C'è una dialettica tremenda nel mondo moderno che ha a che fare con quella
dell'Illuminismo. Come ultimo risultato di duecento anni di educazione delle masse abbiamo
l'intellettuale che finalmente ha capito che non c'è né verità né giustizia. Come
risultato dello sviluppo dello Stato moderno, che è basato sul monopolio della violenza e
che, basandosi su argomenti abbastanza semplici che troviamo nel grande Leviatano di
Hobbes, è riuscito a diminuire la violenza al suo interno, abbiamo una struttura dotata
di estrema forza e di grande potere.
Quando due strutture di questo tipo si scontrano, abbiamo uno scoppio di violenza
infinitamente superiore a quello delle guerre tradizionali. Qualche anno fa il Presidente
del Kazakistan si è recato in Germania ed è stato intervistato da un giornalista non
molto intelligente che gli chiedeva: "Ma voi musulmani siete sempre pronti alla
violenza?". Il presidente ha sorriso e ha risposto: "Magari lei ha ragione, ma
pensi a questo: la Prima guerra mondiale ha origini musulmane? No. La Seconda? Neanche. Le
potenze in guerra erano musulmane?". Da una parte la domanda è irritante perché non
riconosce la diminuzione della violenza avvenuta grazie al moderno Stato di diritto, ma è
giusta l'insistenza sulla terribile dialettica che segna lo Stato moderno.
Un altro esempio di questa dialettica della modernità non risolta riguarda
luguaglianza. Le società moderne sono molto più egualitarie di tutte quelle che
abbiamo avuto in precedenza. Proprio per questo la disparità tra queste società e quelle
che invece non sono state in grado di assumere in sé i principi della modernità è la
più atroce, più terribile che sia mai esistita nella storia. E' la diseguaglianza tra
intere popolazioni che sprecano i loro soldi nelle cretinerie più assurde e altre che
muoiono di fame. Un'altra dialettica interessante è quella relativa al concetto della
libertà. Nessuna società ha dato tanta libertà individuale all'individuo.Ma la
capacità di manovrare decisioni politiche nei sistemi estremamente complessi della
modernità è minima e certe volte si ha l'impressione che manchi persino la libertà di
prendere le decisioni necessarie per garantire la mera sopravvivenza. Tutte queste sono
dialettiche tremende della modernità e credo che il rifiuto di riflettere su di esse sia
un segno di vigliaccheria intellettuale. Solo se le accettiamo e analizziamo in
profondità abbiamo il diritto di continuare a difendere ciò che c'è stato di veramente
grande nell'idea dell'Illuminismo.
Se gli uomini, che con l'Illuminismo si erano chiesti il perché di tutte le cose
cercando una spiegazione attraverso la ragione, oggi usano il pensiero per darsi una
ragione di tutte le cose che vanno male, vuol dire che allora hanno visto bene quei
filosofi, e non sono pochi, i quali non credono più che la ragione possa risolvere i
grandi problemi del mondo? Cioè: lei, quando diceva che bisogna aspettarsi una nuova
religione, intendeva dire che la ragione non è più in grado di affrontare e risolvere
certi problemi oppure che ci vuole una nuova "religiosità" nell'usare la
ragione?
La seconda ipotesi. Credo che riconoscere l'autonomia teoretica della ragione
rappresenti un risultato assolutamente irrinunciabile dell'Illuminismo. Io sono un
razionalista estremo per quanto riguarda la capacità di risolvere i problemi teoretici.
Solo non credo che, avendo risolto i problemi teoretici, i problemi pratici svaniscano:
sono convinto che sul piano delle motivazioni la ragione non basti. Kant giustamente
insegnava che l'etica devessere basata sulla ragione. La fondazione di ogni norma
deve essere basata sulla ragione. Ma purtroppo aver capito la norma non basta, poiché ci
vuole qualcosa come un "sentimento intersoggettivo" dei valori che educhi le
persone a sottomettersi a dei sacrifici. Senza questo "sentimento
intersoggettivo", per esempio, non potremo risolvere il problema della crisi
ecologica.
Le ragioni di questa crisi sono intraviste ormai da molto tempo, si sa anche cosa
bisogna fare per superarla, ma il punto è proprio che nessuno lo fa. E sono convinto che
al riguardo sia essenziale cambiare forma di vita, e la forma di vita non è qualcosa che
si può cambiare solo sulla base di cognizioni astratte. Ci saranno alcuni in grado di
agire basandosi solo su questo, ma con le cognizioni astratte non si raggiungono le grandi
popolazioni. Ripeto che io sono persuaso che questa nuova religiosità sarà molto diversa
da tutto quello che conosciamo, prima di tutto perché sarà più razionale, dovrà
integrare l'aspetto della scienza; sarà una religiosità interculturale, più di quanto
lo siano state le tre grandi religioni universalistiche. Non so che cosa sarà, non vedo
nessuno sbocco, ma sono convinto che se l'umanità non riuscirà a sviluppare qualcosa in
questa direzione, non ci saranno le forze, le motivazioni, per fare ciò che è
necessario.
Dobbiamo aspettare grandi catastrofi perché si capisca l'esigenza di nuovi valori e
categorie, di un nuovo senso della vita, oppure è possibile che ci sia una classe
dirigente - uso il termine non soltanto in senso politico ma anche in senso intellettuale,
"platonico" - in grado di dare una prospettiva di rinnovamento indipendentemente
dall'esperienza di nuovi eventi catastrofici?
Io lo spero, perché si auspica sempre che si possano evitare immani catastrofi.
Purtroppo la storia ha dimostrato che quasi sempre le catastrofi sono necessarie per
imparare; ci saranno necessariamente sciagure terribili prima che la maggior parte della
gente sia disposta a rinunciare alluso della macchina. E auspicabile però che
quando la crisi veramente seria incomincerà ci saranno persone in grado di diminuire i
danni connessi a questa catastrofe. Per fare un esempio, credo che, sebbene evidentemente
la maggior parte delle responsabilità della Seconda guerra mondiale riguardi la Germania,
una certa responsabilità debba essere anche attribuita alla politica sbagliata della
Francia e della Gran Bretagna negli anni Trenta, politica che non ha saputo limitare
lazione di Hitler molto più velocemente.
La Gran Bretagna e la Francia avrebbero dovuto distruggere la Germania nel '36, non
lasciare che la situazione si sviluppasse in una rovinosa direzione. Quando Hitler è
entrato nella Seconda guerra mondiale, il mondo è stato salvato dal fatto che, dopo la
catastrofe della Francia e lumiliazione profonda della Gran Bretagna nel '40, il
popolo inglese ha capito che la persona che poteva salvare il Paese era Churchill. Questo
dimostra la saggezza del popolo britannico, ma è stata anche una fortuna che esistesse
una persona simile. E importante allora che ci siano persone in grado, quando verrà
il momento, di risolvere i problemi fondamentali dellumanità. Non succederà
presto, perché l'umanità continuerà ancora per vari anni, forse decenni, a percorrere
la via irresponsabile della ricerca di effimeri piaceri e di guadagni, senza una visione
futura. Mi auguro che quando il desiderio di una politica più responsabile si
manifesterà nelle nazioni che hanno un'importanza maggiore nell'attuale gioco di potere,
ci saranno persone in grado di guidare rettamente quella politica.
Di fronte a questo scenario così poco rassicurante quale può essere il compito, il
ruolo della filosofia, anche come storia del pensiero che, riflettendo su se stesso, ha
sviluppato una fondamentale capacità critica?
La filosofia ha grandi compiti, perché è prima di tutto una disciplina normativa,
cioè una disciplina che stabilisce ciò che dobbiamo fare. In questo ambito senza
filosofia non si può far niente. E' la filosofia, infatti, che deve dirci quali sono i
valori ultimi che devono guidare le nostre azioni. Ma evidentemente non basta avere
cognizioni astratte dei valori ultimi, bisogna anche tentare di capire come funziona il
mondo, come interagiscono i vari sottosistemi sociali, qual è il rapporto tra culture
premoderne e culture moderne. Per fare questo la filosofia non è sufficiente, ma è in
ogni caso necessaria. E credo che una filosofia che tenti veramente di sviluppare una
visione globale del mondo nella sua complessità attuale possa essere di grande utilità.
Molti filosofi non sono però molto interessati a sviluppare una simile filosofia, in
quanto sono più occupati a dicutere in modo sterile tra di loro, a ricercare il potere
accademico o a pubblicare articoli eruditi.