American Beauty, diretto da Sam Mendes,
scritto da Alan Ball, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley, Mena
Suvari, Chris Cooper, Allison Janney, Peter Gallagher
Settembre 1999: il sogno americano della famiglia felice nella villetta dalla palizzata
bianca, già da tempo cinematograficamente svalutato (vedi l'intera filmografia di David
Lynch), viene definitivamente affossato da una tragicommedia pervicacemente nichilista.
Gennaio 2000: la tragicommedia in questione, American Beauty, approda sui grandi schermi
italiani, preceduta dalla sua reputazione oltreoceanica - critiche osannanti, nomination
ai Golden Globe, candidature annunciate ai premi Oscar. Abbiamo appena scollinato nel
nuovo secolo (mi perdonino i puristi del calcolo cronologico, sto parlando di
scollinamento psicologico) e American Beauty ci mostra ciò che dovremmo lasciarci alle
spalle, per poter sperare nel futuro della coppia (quella bianca, borghese e occidentale,
si intende).

La coppia protagonista di American Beauty è (s)composta da due individui che non
riescono più a comunicare nemmeno al livello più elementare, quello sessuale. Una delle
scene iniziali del film ci mostra il maschio, Lester Burnham, intento a masturbarsi sotto
la doccia, un'icona di solitudine e di ripiegamento su se stesso. Lester, per lo meno,
mantiene un minimo di contatto con quel "se stesso". Sua moglie Carolyn, invece,
è completamente proiettata verso l'esterno, ormai del tutto incapace di confrontarsi con
la propria interiorità, anche quella che va sotto il nome di "intimo".
Carolyn è una femmina americana di fine millenio, o meglio, lo spauracchio di ciò che
la donna americana rischia di diventare, e il babau dell'uomo bianco occidentale di mezza
età, quello che si sente spodestato da tutti: minoranze etniche, rivoluzione informatica,
castranti donne in carriera - nella sua prima scena, Carolyn appare infatti armata di un
paio di cesoie, intenta a decapitare (evirare?) i cespugli intorno alla villetta da sogno
americano, e sotto i guanti da giardino nasconde unghie lunghe come artigli. Ma Carolyn
non è esattamente una donna in carriera, innanzitutto perchè non si è fatta strada nel
lavoro, e poi perchè quel lavoro - agente immobiliare - non è per lei fonte di
realizzazione individuale, ma di frustrazione cosmica. Carolyn non aspira a esprimersi
creativamente attraverso la sua attività (invero assai poco creativa): si limita a
sognare quei profitti stratosferici e quelle vendite a catena (cioè quell'affastellamento
materiale) che, nella sua ottica molto americana, darebbero di lei un'immagine vincente,
cioè non "di vittima".
Carolyn è completamente eterodiretta, nel senso che cerca unicamente
la validazione degli altri, secondo i parametri codificati da centinaia
di libri sull'imperativo del "farsi valere" e di cassette
sulla necessità di "aiutarsi da soli", perchè, come dirà
Carolyn alla figlia (a rischio di perpetuare in un'altra femmina
della specie la stessa globale sfiducia nel genere umano), "si
può contare solo su se stessi".
Poichè, secondo Carolyn, chiedere (o offrire) aiuto è un segno imperdonabile di
debolezza, Lester, al momento dello scoppio della sua crisi individuale, non può che
apparire a lei e, per via traslata, alla figlia come il perdente per antonomasia. Fa un
lavoro che non gli piace, non perchè non sia in sè sufficientemente realizzante (è un
giornalista, anche se di settore), ma perchè lui e i suoi colleghi lo svolgono con il
minimo di entusiasmo e di convinzione.

Quando Lester assiste alla scena in cui Ricky, il figlio dei vicini, manda a quel paese
il suo datore di lavoro (o almeno del suo lavoro "di copertura"), annuncia al
ragazzo: "Sei appena diventato il mio eroe personale". Poco dopo, lo stesso
Lester si licenzierà, arrivando a estorcere una cospicua "liquidazione" al capo
del personale, non già per mettersi a riposo o partire per le Bermuda, ma per farsi
assumere dal locale fast food, dove va a ricoprire l'incarico "col minore cumulo
possibile di responsabilità".
"Call me irresponsible", canta Bobby Darin sullo sfondo di una di quelle
scene domestiche in cui i tre Burnham (Lester, Carolyn e la loro figlia adolescente Jane -
figlia unica, naturalmente) pranzano intorno al tavolo di rappresentanza, tre isole in un
oceano di incomprensione reciproca stagliate su uno sfondo talmente scarno da apparire
completamente sterile, come un assegno in bianco, come un vicolo cieco. E' la prima volta
che, del tutto casualmente (ma non per il regista), la filodiffusione di casa Burnham
trasmette qualcosa che vale la pena ascoltare: forse ha ragione Mogol (o Battisti?) quando
scrive "ascolta sempre solo musica vera", perchè anche la musica "da sala
d'attesa" che Caroline impone alla famiglia sembra avere avuto la sua parte
nell'ottenebramento della capacità dei Burnham, quando possibile, "di capire".
Così come il gesto di Ricky ha funzionato da catalista perchè Lester
si liberasse del vincolo produttivo, la visione (e parliamo proprio
di visione mistica, la più pagana possibile) della compagna di scuola
di sua figlia Jane, Angela, mette in moto la sua libido repressa
di buon padre di famiglia (buono solo nel senso di "ligio ai
suoi doveri") e da' inizio al processo di liberazione dal vincolo
morale. Il dato più interessante a questo proposito è quello cronologico:
non la differenza di età fra il 42enne Lester e la sedicenne Angela,
ma il fatto che l'età di Lester (e Carolyn) colloca la loro giovinezza
negli anni della rivoluzione sessuale, quando era consentito inventarsi
un modo nuovo di interagire con i corpi (e i sentimenti) altrui.
Lester stesso, una volta infranto il muro di omertà domestica, ricorderà
a sua moglie la sua esistenza precedente, quella in cui lei "correva
nuda sui tetti delle case".
"Voglio essere bello da nudo", dichiara Lester, a crisi di mezza età ormai
irreversibilmente avviata. La sua non è solo una considerazione estetica (benchè
l'aspetto fisico, per questo quarantenne fuori fase, diventi effettivamente importante),
nè solo un mezzo per raggiungere l'obbiettivo di portarsi a letto Angela. Lester vuole
potersi guardare allo specchio e piacersi al di là di tutte le stratificazioni (o
incrostazioni) ecomiche e sociali - diciamolo, borghesi - che gli si sono accumulate
addosso nel corso degli anni.
Il termine "beauty", bellezza, ricorre in tutto il film, a cominciare dal
titolo. La ricerca della bellezza da parte di Lester coincide con la ricerca della
verità: nella sua disperata determinazione a non mentire più a se stesso, Lester diventa
monomaniacale ed egoista, ma rimane ugualmente "simpatico" nel senso etimologico
del termine perchè soffriamo con lui, ci identifichiamo nella sua febbrile missione,
oltre che nel suo sollievo al momento di liberarsi della prigione delle apparenze.
Anche Ricky, il giovane vicino di casa, cerca la bellezza, ma lui la trova quasi
esclusivamente nella morte (dicendo che gli interessa "la vita dietro le cose").
Il suo catalogare l'esistenza altrui su cassette video che stipa in camera sua (un modo di
immortalarle, nel senso di mummificarle, per sempre), la sua ammirazione per un oggetto
inanimato reso vitale solo dal soffio di vento che lo trasporta (involontariamente)
nell'aria, la sua fascinazione per il cadavere di Lester (non vi sto rivelando niente: si
sa dalla prima scena che Lester è destinato a morire) sono indicazioni di una tendenza
malata a tenersi a distanza dalla vita, interagendo solo con il suo contrario - una forma
passiva di necrofilia.

Benchè Ricky possa apparire come un personaggio positivo, quasi eroico, e come già
detto funzioni da catalista per le fantasie liberatorie di Lester, è in realtà un
esempio di giovane contemporaneo trascinato dagli eventi e incapace di confrontarsi
direttamente con la realtà - nel suo caso, la dominazione fisica e psicologica del padre,
ex Marine con il pallino delle armi e dei memorabilia nazisti - al punto da condurre due
esistenze parallele, quella "ufficiale" di bravo ragazzo della provincia
americana che si mantiene con lavoretti occasionali e quella "nascosta" di
spacciatore di marjuana (cioè di evasione dal reale, se non proprio di morte), cui si
sottrarrà solo in maniera indiretta e passiva. Ricky sarà anche ricco e in gamba, ma
continua a chiamare suo padre "signore", come un marmittone, e a prendersi i
suoi cazzotti senza reagire. Se il motto Americano di fine anni Sessanta (quand'erano
giovani Lester e Carolyn) era "question authority", quello di fine anni Novanta
è diventato, secondo American Beauty, "escape authority", cioè sfuggi
all'autorità, piuttosto che affrontarla a muso duro.
Il futuro di Ricky e Jane appare incerto perchè, fin dall'inizio, il loro sembra un
sodalizio di egoismi dettato dalla necessità di sottrarsi alle rispettive prigioni (e
infatti lei gli chiede, più o meno seriamente, di diventare suo complice in un omicidio).
Jane, che vuole essere amata (ma non si pone il problema di dare amore), sceglie la
compagnia di Ricky non perchè questi dimostri particolare generosità affettiva, ma
perchè si limita ad osservare il mondo senza giudicarlo.
Angela, l'amica di Jane, è alla ricerca di validazione esterna, ma al contrario di
Caroline si muove lungo rotte femminili "tradizionali": aspira a diventare
modella, cioè a essere considerata ufficialmente bella, e per questo concentra tutti i
suoi sforzi sul proprio aspetto esteriore, anche perchè teme che quello interiore sia
tutt'altro che gradevole. E' curioso che Lester, nella sua ricerca di
bellezza-come-verità, sia preda di un modello di esteriorità simile, anche se
diversamente espresso, a quello della moglie. Così come è curioso il casting di Peter
Gallagher, un attore deifinito da Robert Altman "esageratamente bello", nel
ruolo del Re degli agenti immobiliari con cui Carolyn avrà una relazione di puro sesso.
Se Lester cerca infatti in Angela la bellezza pre-contaminata e scopre invece una
piccola vittima della società dei consumi, Carolyn vuole l'aura di successo e di potere
del Re, essenzialmente ignorandone il pur notevole appeal fisico. La forza della
sceneggiatura di American Beauty, scritta da un autore televisivo specializzato in sitcom
(dunque nella prevedibilità comica di un format ripetitivo) è proprio quella di girare
più e più volte la frittata: Angela si rivelerà contaminata dal mondo esterno ma
vergine nella sua interiorità, il Re risulterà non un "vincente" ma un
malcapitato destinato d essere usato e gettato dalla moglie e dall'amante.

American Beauty gioca con le aspettative del pubblico fino al punto di barare sulla
trama: alcune svolte drammatiche sono intenzionalmente improbabili, senza per questo
essere fuorvianti, perchè l'intenzione del film è, come per Lester, la ricerca della
verità al di là, o meglio attraverso, le apparenze. Proprio per questo la confezione
esteriore del film è curatissima, e ogni dettaglio scenico è gestito (o meglio,
manipolato) con estrema attenzione. Non solo: in ogni scelta registica c'è un riferimento
al passato cinematografico, come se American Beauty fosse un bigino visivo per gli
spettatori.
Così la decisione di far parlare Lester dalla tomba, introducendo e chiudendo fra due
parentesi metafisiche la vicenda del film, è un dichiarato homage a Viale del tramonto, e
i colori lividi e crepuscolari, nonchè il personaggio di Ricky, devono molto al Gente
comune di Robert Redford, uno dei film che ha più esplicitamente affrontato il tema della
crisi della famiglia americana, tratteggiando una figura materna completamente
esteriorizzata e alienata dal contesto familiare. Così l'ambientazione del film, il
ritratto della ragazza adolescente e la visione apocalittica della crisi domestica
ricalcano quelli di Tempesta di ghiaccio, e il senso di raggelamento di fronte alla
trasformazione di una generazione di ex contestatori - e l'attività collaterale di Ricky
- ricordano Il grande freddo.
American Beauty è una collezione di "americana", di artefatti della
tradizione yankee (soprattutto modernariato pop), e la visione lucida, spietata del
microcosmo dei Burnham si deve a un regista, Sam Mendes, che non è americano ma inglese,
come il John Schlesinger di Un uomo da marciapiede, o lo Stanley Kubrick di Eyes Wide
Shut, talmente alieno, e alienato, dalla nativa cultura americana da scegliere
l'Inghilterra come patria adottiva: tutti osservatori esterni, animati da rigore
antropologico (per non dire entomologico) nel raccontare una società loro estranea. Lo
sguardo di Mendes, doloroso, a volte straziante, è colmo di orrore per un mondo che gli
appare grottesco: sarà un caso che la madre di Ricky, ormai del tutto catatonica, somigli
tanto alla moglie del fattore nel celebre dipinto American Gothic?

Il mondo di American Beauty fa paura anche perché è dominato dalla paura: della
vecchiaia, dell'insuccesso, delle proprie pulsioni interiori. L'intera performance di
Chris Cooper, l'attore che interpreta il ruolo del Marine, è riassunta nel suo sguardo di
terrore, così apparentemente incongruente con la sua facciata di uomo tutto d'un pezzo. I
protagonisti suscitano più empatia che riprovazione, sono angeli caduti che si ritrovano
a vivere "una vita d'inferno". E la coerenza di Sam Mendes sta nel non concedere
loro una via di fuga, o un percorso di redenzione, cioè nel rifutarsi di
"nobilitare" la loro profonda (e profondamente umana) fallibilità con qualche
facile stratagemma drammatico. Di più: American Beauty rifuta di raccontare i Burnham
secondo una morale guidaico-cristiana (anche se è evidente la matrice puritana che sta
alla base di molte loro scelte), nella convinzione laica che l'unico peccato mortale sia
quello di tradire se stessi e la propria verità.