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Fu l’indifferenza a consentire Auschwitz


David Bidussa

 

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Questo è il testo di un discorso tenuto al Consiglio comunale di Milano convocato in seduta straordinaria in occasione della "giornata della memoria" , in cui ricorre l‘ anniversario della liberazione di Auschwitz.

Nel nostro album fotografico del ’900 ci sono varie immagini che ci siamo trasportati nel XXI secolo. Non solo per il loro significato tragico o drammatico, ma anche per la loro forza estetica. Il crollo del muro di Berlino, l’anonimo cinese di fronte al carro armato a Piazza Tien An Men, il miliziano spagnolo immortalato da Robert Capa, la porta di ingresso di Auschwitz sono alcune di queste immagini.

Quella porta sarà il mio tema di lavoro.

Mi propongo tre obiettivi:

1. Fornire una fotografia di Auschwitz oltre quella porta;

2. Descrivere come si è arrivati alle soglie di quella porta;

3. Suggerire una possibile via d’uscita per non essere nella condizione di dover passare di nuovo per quella porta.

Insomma una riflessione che ha un vago sapore settecentesco sospesa tra Diderot e Pietro Verri e a cui potremo dare il titolo seguente: Delle cause e delle conseguenze del dispotismo nella nostra epoca e di una modesta proposta per perseguire la felicità pubblica. Ciò detto, prendiamo di petto il nostro argomento.

Nel film di Alain Resnais Hiroshima mon amour, il protagonista ripete ossessivamente alla ragazza che gli racconta la propria visita alla città di Hiroshima qualche anno dopo la catastrofe atomica: "Tu n’as rien vu à Hiroshima, rien".

Noi non siamo in una condizione diversa allorché proviamo a parlare di Auschwitz. Come per la giovane francese a Hiroshima, Auschwitz si presenta a noi come un non luogo. Ovvero tra noi e Auschwitz si produce un diaframma: non ci sono le urla, la gente, gli odori, il fumo.

Questo luogo, tuttavia, ha una storia e induce a definire una memoria pubblica.

Per molti Auschwitz è un luogo a due dimensioni. Da una parte Auschwitz è una base orizzontale definita da un marciapiede, in cui, stando alle stime più basse, sono confluiti 1.471.595 individui così ripartiti: russi 15.000; zingari 23.000; polacchi 147.000, altre nazioni 25.000; ebrei 1.100.000 (tra questi 8.566 italiani).

Dall’altra parte, Auschwitz è una linea verticale, per esser più precisi una lunga canna fumaria in cui gran parte di quegli individui (1.122.000, per stare alla stessa tabella) si sono dissolti bevendo - come diceva il poeta Paul Celan - il "latte nero". Per la precisione: russi 15.000 (cioè tutti); zingari (21.000); polacchi 74.000; altre nazioni 12.000; ebrei 1.000.000 (tra questi 7.557 italiani).

Ma Auschwitz non nasce bidimensionale, bensì è una vera metropoli concentrazionaria, che ha la pianta urbanistica come molte nostre città di provincia, con la stazione ferroviaria alla fine del paese e la planimetria del castrum romano.

Auschwitz è molte cose: è un sistema di fabbrica collegato con alcuni grandi gruppi industriali che usano una manodopera a "nessun costo", anzi che produce rendita di sfruttamento per i gestori; è un laboratorio in cui si sperimenta con cavie umane su cui si interviene senza limiti; è un test sulla governabilità della società-alveare.

Ma Auschwitz è anche qualcosa di più. In un famoso passo di Se questo è un uomo, Primo Levi scrive:

"Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo ‘fame’, diciamo ‘stanchezza’, ‘paura’, e ‘dolore’, diciamo ‘inverno’, e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato" (Se questo è un uomo, Opere I, p. 119).

Ma in realtà questo linguaggio è nato. E’ nato nel sistema iniziatico con cui nessuno nomina lo sterminio eppure lo compie. Un linguaggio in cui il termine "azione speciale" sta per massacro, "trattamento speciale" indica la gasazione, e Säuberung, "pulizia", sta per sterminio tramite impiccagione o fucilazione.

Ed è nato nel sistema di classificazione cromatica con cui si contrassegnano gli internati: rosso per i politici, viola per i religiosi, verde per i criminali comuni, nero per zingari, vagabondi e prostitute accomunati nella categoria di "asociali", rosa per gli omosessuali, giallo per gli ebrei.

Ma non è solo un problema di linguaggio. Ad Auschwitz inizia una nuova politica di governo del corpo degli altri. Ovvero di riduzione del corpo degli altri a oggetto.

All’interno della spiegazione della Shoah gli storici hanno affrontato la questione secondo un duplice impianto: intenzionalista (ovvero indicando nello sterminio una intenzione preliminare e pianificata definita da un profilo ideologico e da un obiettivo strategico enunciati a priori) oppure funzionalista (ovvero un procedimento all’interno del quale lo sterminio non era stato progettato, ma avviene per concorso di decisioni particolari la cui sommatoria produce lo sterminio).

Lo sterminio è avvenuto attraverso una dinamica interna al sistema di distruzione in cui ogni passaggio aveva bisogno del suo antecedente: dapprima il concentramento in un luogo; poi o il massacro di massa in quel luogo oppure la deportazione e l’internamento; cui segue la selezione per il gas o per il lavoro coatto; cui alla fine giunge, dopo lo sfruttamento fino a esaurimento, l’eliminazione.

Questa consequenzialità delinea una specifica dinamica della violenza esercitata sul corpo altrui.

Nei mesi scorsi nel linguaggio corrente è stata spesso usata la categoria di nazismo in riferimento agli avvenimenti dei Balcani.

Nell’ambito dei conflitti etnici il sistema di sterminio si colloca dentro una dinamica premoderna. E’ la scena tipica del "giorno dopo" della conquista della città tra Antichità ed Età moderna da parte delle truppe assedianti: si uccidono gli uomini, si stuprano le donne, si usa violenza fisica sui bambini.

Auschwitz sancisce un altro meccanismo di distruzione del corpo, in cui è prevalente il dato simbolico.

Prima di giungere di fronte alle porte di acciaio di una camera a gas doveva avvenire la decomposizione psichica di un individuo, messa in atto attraverso molti stadi: la separazione da un ambiente noto, la perdita di ogni referente oggettuale ed emozionale, la dissoluzione di una qualsiasi forma di privato e di amor proprio, la eliminazione di un qualsiasi sentimento di sistema di relazione sociale, infine lo sradicamento.

Il viaggio in vagone era una parte pedagogica e formativa di questo processo di distruzione. Spostare individui in treno per condurli immediatamente a morte in un altro luogo è solo il segno di un procedimento iniziatico alla sterminio, in cui contemporaneamente il carceriere si convince della propria potenza e il carcerato della propria nullità.

Questa procedura, infatti, non risponde a nessun criterio utilitaristico in economia. In gergo economico-amministrativo è uno spreco (di tempo, di risorse umane, di fonti di energia…). Ma ha una funzione essenziale sul piano simbolico. E’ un rito e come tutti i riti serve a dare coesione a chi lo pratica. Questa dinamica, infatti, rende possibile il fatto che molti soggetti concorrano alla realizzazione dell’obiettivo finale.

La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso prodotto (frullatori, videogiochi, piatti, automobili,…) perché migliaia di individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale.

Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra individui. Senza cooperazione niente produzione. La Shoah è un evento possibile perché basato sullo stesso principio organizzativo.

Una cooperazione che si basa su molti riti di passaggio. Preliminarmente occorre un apparato burocratico, ovvero che si diano liste, che si facciano censimenti, che si costruisca un reticolo concettuale in cui si classificano individui. Sono tutti meccanismi procedurali che si compiono senza che si dia preliminarmente un fine sterminazionista, ma lo sterminio è facilitato da un’opera di classificazione.

Lo sterminio è facilitato, peraltro, da molte altre cose: da un’opera di disumanizzazione degli individui, dalla sostituzione della loro personalità specifica con una categoria fondata sul pregiudizio. Pesano su questa dinamica molti fattori. Nel caso degli ebrei, tra l’altro, ha svolto un ruolo non indifferente una tradizione culturale di antigiudaismo cristiano, un’iconografia in cui un individuo è ritradotto all’interno di un bestiario sospeso tra ragno e serpente, che si codifica tra ‘800 e ‘900 e che vive di molti richiami simbolici come letterari.

L’ebreo ridotto a ragno, perfido Robinson che vuole dominare gli ingenui Venerdì di cui è contornato. Disegnato sulla vignettistica come serpente da schiacciare. L’ebreo inquisito, torturato e messo al rogo su tutte le piazze d’Europa e del Medio Oriente, da Norfolk in Inghilterra nel 1044 fino a Trento nel 1575 e poi a Damasco nel 1840 perché accusato di omicidio rituale. Ovvero di rapire bambini nella settimana di passione pasquale per utilizzare il sangue infantile per fabbricare il pane azzimo. Oppure accusato di avvelenamento dei pozzi.

Queste sono state le immagini ricorrenti nella novellistica popolare, negli affreschi e nella iconografia pubblica. Queste immagini hanno alimentato folklore, proverbi e modi di dire. Da ultimo riempiono le nostre barzellette e le leggende metropolitane. La lingua, signore e signori, non è un territorio innocente. Soprattutto non è un territorio vergine o privo di allusioni. La lingua ha una storia, fatta di immagini, di fobie introiettate, di timori che il tempo deposita nelle parole che usiamo, nelle espressioni colorite del nostro linguaggio. Il nostro modo di parlare, in altri termini, è la nostra memoria.

Una catena di immagini che si riversa nell’universo scientifico di chi in Italia nella prima metà del Novecento fonda le politiche demografiche e sanitarie. Non si tratta di signori eccentrici, marginali e marginalizzati nell’ambito delle scienze in Italia. Si tratta di Livio Livi, padre della demografia italiana, di Gino Arias e Corrado Gini, che tra anni ’20 e ’30 sono tra i protagonisti della medicina sociale che ispira la politica sanitaria del regime fascista; si tratta di Giuseppe Sergi, di Nicola Pende, di Lidio Cipriani, che a partire dagli studi di etnologia e di antropologia coloniale, giungono a coniugare tradizione popolare, razza e nazionalità e dunque a fondare una teoria non genetica delle razze, bensì una demografia storica di impianto razzistico che insospettatamente riemerge sotto altre vesti nel nostro presente.

E tuttavia una volta che quell’evento si sia consumato e noi torniamo a riflettere, ci sono altri aspetti che occorre sottolineare. Di Hannah Arendt noi abbiamo trattenuto l’immagine che più ci ha colpito: quella del nazismo come banalità del male. Ci sarebbe da domandarsi invece, dopo aver visto e seriamente meditato il film di Roni Brauman e Eyal Sivan "Uno specialista" – dedicato alle sedute del processo Eichmann tenutosi a a Gerusalemme nel 1961 -, se questa espressione sia l’effetto di una delusione, più che il risultato di una rivelazione.

Del "Male" noi ci facciamo un’immagine luciferina, scaltra, intrigante. E’ anche un modo per non dichiararci sconfitti o messi seriamente in pericolo dalla stupidità. E dalle immagini di "Uno specialista" emerge che uno stupido sta davanti a noi. La cosa non ci fa assolutamente sorridere. Se c’è una lezione da trarre dal secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, questa consiste in una massima semplice ma ineludibile: noi non possiamo permetterci che la stupidità vinca di nuovo.

Nella seconda metà del secolo la questione della memoria è stata soprattutto la questione della possibilità che storia e memoria collaborassero. Il fine non era trasformare la Shoah in un evento/battaglia, memorabile, ma anche latore di mitologia, dove ognuno raccontasse il suo eroismo o il suo travaglio per poi scoprirsi manichini patetici al supermarket del souvenir.

Un culto acritico della memoria produce solo omelia, ma non determina crescita culturale.

Infinite sono le storie individuali che possiamo incamerare e memorizzare, ma esse rimangono vive se stabiliamo una connessione - in gergo informatico se si produce un ancoraggio - tra dato che incameriamo e sistema informativo complesso in cui lo andiamo a depositare. Allora sarà possibile comparazione, confronto, riflessione critica. In altre parole: la memoria non è un fatto. La memoria è un atto. Per la precisione un atto a due velocità.

In prima istanza occorre che si produca una comunità di ascolto insieme a un grande deposito dove accantonare storie e vicende narrate. Profili di vite in altre parole. Giacché il dolore non è comunicabile fra umani, ma solo l’esperienza del dolore lo è. E per comunicare l’esperienza, non è sufficiente trovare le parole giuste, occorre anche che ci siano orecchie disponibili.

Ma, in seconda istanza, occorre anche sapere che il tempo lungo accentua il problema. Non lo lenisce né lo dissolve. Anzi lo esaspera. Perché la costruzione di una comunità di ascolto, di reciproco ascolto, larga o ristretta che sia, riapre questioni e ne formula di nuove.

Alla metà degli anni ‘60, in un testo molto sofferto e forse anche impertinente, certamente non conciliante, Elie Wiesel, scriveva che gli ebrei non avevano amici e che per questo Auschwitz era stato un evento perseguibile e realizzabile.

E’ la stessa considerazione che ci propone il poeta polacco Czeslaw Milosz.

"Nel comportamento della gente di Varsavia nei confronti del ghetto – scrive Milosz – c’è stato odio, commiserazione, vergogna, antisemitismo. Ma su tutto ha troneggiato una sventata indifferenza. Quelle giostre piene di gente sorridente che volteggiava nel fumo del ghetto in fiamme lì accanto, non erano la dimostrazione di alcun antisemitismo, erano la completa indifferenza verso il destino dei propri vicini" (C. Milosz, Elegia, in "Polityka", 27 giugno 1987)

Per riprendere la considerazione sul treno: non basta mettere delle persone dentro un treno, magari anche spingendovele a forza, per ritenere che automaticamente quel treno si diriga verso Auschwitz. Perché là arrivi, perché si presenti di nuovo davanti a quella porta, vuol dire che l’unico rapporto tra i viaggiatori coatti di quel treno e il resto del mondo che li guarda è il gesto della mano che Lanzmann nel film "Shoah" fa ripetere al ferroviere polacco, in una delle sequenze che segnano la storia del cinema. Al centro di quella scena sta l’assenza di un qualsiasi sentimento di amicizia.

L’amicizia, invece, può essere un viatico. Almeno quella che non elimina la differenza, ma include che, in nome della reciprocità, si rispettino le personalità e, perciò, si impari ad ascoltare e a farsi ascoltare.

Questo è quel minimo di desidero utopico che dovrebbe innervare le democrazie decenti. E’ anche quella soglia minima che a Montaigne sembrava indispensabile, già quattro secoli fa, perché si desse società civile.

Sarebbe già apprezzabile che lo fosse anche per noi.

 

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