Questo è il testo di un discorso tenuto
al Consiglio comunale di Milano convocato in seduta straordinaria in occasione della
"giornata della memoria" , in cui ricorre l anniversario della liberazione
di Auschwitz.
Nel nostro album fotografico del 900 ci sono varie immagini che ci siamo
trasportati nel XXI secolo. Non solo per il loro significato tragico o drammatico, ma
anche per la loro forza estetica. Il crollo del muro di Berlino, lanonimo cinese di
fronte al carro armato a Piazza Tien An Men, il miliziano spagnolo immortalato da Robert
Capa, la porta di ingresso di Auschwitz sono alcune di queste immagini.
Quella porta sarà il mio tema di lavoro.
Mi propongo tre obiettivi:
1. Fornire una fotografia di Auschwitz oltre quella porta;
2. Descrivere come si è arrivati alle soglie di quella porta;
3. Suggerire una possibile via duscita per non essere nella condizione di dover
passare di nuovo per quella porta.
Insomma una riflessione che ha un vago sapore settecentesco sospesa tra Diderot e
Pietro Verri e a cui potremo dare il titolo seguente: Delle cause e delle conseguenze
del dispotismo nella nostra epoca e di una modesta proposta per perseguire la felicità
pubblica. Ciò detto, prendiamo di petto il nostro argomento.
Nel film di Alain Resnais Hiroshima mon amour, il protagonista ripete
ossessivamente alla ragazza che gli racconta la propria visita alla città di Hiroshima
qualche anno dopo la catastrofe atomica: "Tu nas rien vu à Hiroshima,
rien".
Noi non siamo in una condizione diversa allorché proviamo a parlare di Auschwitz. Come
per la giovane francese a Hiroshima, Auschwitz si presenta a noi come un non luogo. Ovvero
tra noi e Auschwitz si produce un diaframma: non ci sono le urla, la gente, gli odori, il
fumo.
Questo luogo, tuttavia, ha una storia e induce a definire una memoria pubblica.
Per molti Auschwitz è un luogo a due dimensioni. Da una parte Auschwitz è una base
orizzontale definita da un marciapiede, in cui, stando alle stime più basse, sono
confluiti 1.471.595 individui così ripartiti: russi 15.000; zingari 23.000; polacchi
147.000, altre nazioni 25.000; ebrei 1.100.000 (tra questi 8.566 italiani).
Dallaltra parte, Auschwitz è una linea verticale, per esser più precisi una
lunga canna fumaria in cui gran parte di quegli individui (1.122.000, per stare alla
stessa tabella) si sono dissolti bevendo - come diceva il poeta Paul Celan - il
"latte nero". Per la precisione: russi 15.000 (cioè tutti); zingari (21.000);
polacchi 74.000; altre nazioni 12.000; ebrei 1.000.000 (tra questi 7.557 italiani).
Ma Auschwitz non nasce bidimensionale, bensì è una vera metropoli concentrazionaria,
che ha la pianta urbanistica come molte nostre città di provincia, con la stazione
ferroviaria alla fine del paese e la planimetria del castrum romano.
Auschwitz è molte cose: è un sistema di fabbrica collegato con alcuni grandi gruppi
industriali che usano una manodopera a "nessun costo", anzi che produce rendita
di sfruttamento per i gestori; è un laboratorio in cui si sperimenta con cavie umane su
cui si interviene senza limiti; è un test sulla governabilità della società-alveare.
Ma Auschwitz è anche qualcosa di più. In un famoso passo di Se questo è un uomo,
Primo Levi scrive:
"Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il
nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo fame,
diciamo stanchezza, paura, e dolore, diciamo
inverno, e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini
liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i lager fossero durati più
a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato" (Se questo è un uomo, Opere
I, p. 119).
Ma in realtà questo linguaggio è nato. E nato nel sistema iniziatico con cui
nessuno nomina lo sterminio eppure lo compie. Un linguaggio in cui il termine "azione
speciale" sta per massacro, "trattamento speciale" indica la gasazione, e Säuberung,
"pulizia", sta per sterminio tramite impiccagione o fucilazione.
Ed è nato nel sistema di classificazione cromatica con cui si contrassegnano gli
internati: rosso per i politici, viola per i religiosi, verde per i criminali comuni, nero
per zingari, vagabondi e prostitute accomunati nella categoria di "asociali",
rosa per gli omosessuali, giallo per gli ebrei.
Ma non è solo un problema di linguaggio. Ad Auschwitz inizia una nuova politica di
governo del corpo degli altri. Ovvero di riduzione del corpo degli altri a oggetto.
Allinterno della spiegazione della Shoah gli storici hanno affrontato la
questione secondo un duplice impianto: intenzionalista (ovvero indicando nello
sterminio una intenzione preliminare e pianificata definita da un profilo ideologico e da
un obiettivo strategico enunciati a priori) oppure funzionalista (ovvero un
procedimento allinterno del quale lo sterminio non era stato progettato, ma avviene
per concorso di decisioni particolari la cui sommatoria produce lo sterminio).
Lo sterminio è avvenuto attraverso una dinamica interna al sistema di distruzione in
cui ogni passaggio aveva bisogno del suo antecedente: dapprima il concentramento in un
luogo; poi o il massacro di massa in quel luogo oppure la deportazione e
linternamento; cui segue la selezione per il gas o per il lavoro coatto; cui alla
fine giunge, dopo lo sfruttamento fino a esaurimento, leliminazione.
Questa consequenzialità delinea una specifica dinamica della violenza esercitata sul
corpo altrui.
Nei mesi scorsi nel linguaggio corrente è stata spesso usata la categoria di nazismo
in riferimento agli avvenimenti dei Balcani.
Nellambito dei conflitti etnici il sistema di sterminio si colloca dentro una
dinamica premoderna. E la scena tipica del "giorno dopo" della conquista
della città tra Antichità ed Età moderna da parte delle truppe assedianti: si uccidono
gli uomini, si stuprano le donne, si usa violenza fisica sui bambini.
Auschwitz sancisce un altro meccanismo di distruzione del corpo, in cui è prevalente
il dato simbolico.
Prima di giungere di fronte alle porte di acciaio di una camera a gas doveva avvenire
la decomposizione psichica di un individuo, messa in atto attraverso molti stadi: la
separazione da un ambiente noto, la perdita di ogni referente oggettuale ed emozionale, la
dissoluzione di una qualsiasi forma di privato e di amor proprio, la eliminazione di un
qualsiasi sentimento di sistema di relazione sociale, infine lo sradicamento.
Il viaggio in vagone era una parte pedagogica e formativa di questo processo di
distruzione. Spostare individui in treno per condurli immediatamente a morte in un altro
luogo è solo il segno di un procedimento iniziatico alla sterminio, in cui
contemporaneamente il carceriere si convince della propria potenza e il carcerato della
propria nullità.
Questa procedura, infatti, non risponde a nessun criterio utilitaristico in economia.
In gergo economico-amministrativo è uno spreco (di tempo, di risorse umane, di fonti di
energia
). Ma ha una funzione essenziale sul piano simbolico. E un rito e come
tutti i riti serve a dare coesione a chi lo pratica. Questa dinamica, infatti, rende
possibile il fatto che molti soggetti concorrano alla realizzazione dellobiettivo
finale.
La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso
prodotto (frullatori, videogiochi, piatti, automobili,
) perché migliaia di
individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale.
Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra
individui. Senza cooperazione niente produzione. La Shoah è un evento possibile perché
basato sullo stesso principio organizzativo.
Una cooperazione che si basa su molti riti di passaggio. Preliminarmente occorre un
apparato burocratico, ovvero che si diano liste, che si facciano censimenti, che si
costruisca un reticolo concettuale in cui si classificano individui. Sono tutti meccanismi
procedurali che si compiono senza che si dia preliminarmente un fine sterminazionista, ma
lo sterminio è facilitato da unopera di classificazione.
Lo sterminio è facilitato, peraltro, da molte altre cose: da unopera di
disumanizzazione degli individui, dalla sostituzione della loro personalità specifica con
una categoria fondata sul pregiudizio. Pesano su questa dinamica molti fattori. Nel caso
degli ebrei, tra laltro, ha svolto un ruolo non indifferente una tradizione
culturale di antigiudaismo cristiano, uniconografia in cui un individuo è
ritradotto allinterno di un bestiario sospeso tra ragno e serpente, che si codifica
tra 800 e 900 e che vive di molti richiami simbolici come letterari.
Lebreo ridotto a ragno, perfido Robinson che vuole dominare gli ingenui Venerdì
di cui è contornato. Disegnato sulla vignettistica come serpente da schiacciare.
Lebreo inquisito, torturato e messo al rogo su tutte le piazze dEuropa e del
Medio Oriente, da Norfolk in Inghilterra nel 1044 fino a Trento nel 1575 e poi a Damasco
nel 1840 perché accusato di omicidio rituale. Ovvero di rapire bambini nella settimana di
passione pasquale per utilizzare il sangue infantile per fabbricare il pane azzimo. Oppure
accusato di avvelenamento dei pozzi.
Queste sono state le immagini ricorrenti nella novellistica popolare, negli affreschi e
nella iconografia pubblica. Queste immagini hanno alimentato folklore, proverbi e modi di
dire. Da ultimo riempiono le nostre barzellette e le leggende metropolitane. La lingua,
signore e signori, non è un territorio innocente. Soprattutto non è un territorio
vergine o privo di allusioni. La lingua ha una storia, fatta di immagini, di fobie
introiettate, di timori che il tempo deposita nelle parole che usiamo, nelle espressioni
colorite del nostro linguaggio. Il nostro modo di parlare, in altri termini, è la nostra
memoria.
Una catena di immagini che si riversa nelluniverso scientifico di chi in Italia
nella prima metà del Novecento fonda le politiche demografiche e sanitarie. Non si tratta
di signori eccentrici, marginali e marginalizzati nellambito delle scienze in
Italia. Si tratta di Livio Livi, padre della demografia italiana, di Gino Arias e Corrado
Gini, che tra anni 20 e 30 sono tra i protagonisti della medicina sociale che
ispira la politica sanitaria del regime fascista; si tratta di Giuseppe Sergi, di Nicola
Pende, di Lidio Cipriani, che a partire dagli studi di etnologia e di antropologia
coloniale, giungono a coniugare tradizione popolare, razza e nazionalità e dunque a
fondare una teoria non genetica delle razze, bensì una demografia storica di impianto
razzistico che insospettatamente riemerge sotto altre vesti nel nostro presente.
E tuttavia una volta che quellevento si sia consumato e noi torniamo a
riflettere, ci sono altri aspetti che occorre sottolineare. Di Hannah Arendt noi abbiamo
trattenuto limmagine che più ci ha colpito: quella del nazismo come banalità del
male. Ci sarebbe da domandarsi invece, dopo aver visto e seriamente meditato il film di
Roni Brauman e Eyal Sivan "Uno specialista" dedicato alle sedute del
processo Eichmann tenutosi a a Gerusalemme nel 1961 -, se questa espressione sia
leffetto di una delusione, più che il risultato di una rivelazione.
Del "Male" noi ci facciamo unimmagine luciferina, scaltra, intrigante.
E anche un modo per non dichiararci sconfitti o messi seriamente in pericolo dalla
stupidità. E dalle immagini di "Uno specialista" emerge che uno stupido sta
davanti a noi. La cosa non ci fa assolutamente sorridere. Se cè una lezione da
trarre dal secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, questa consiste in una massima
semplice ma ineludibile: noi non possiamo permetterci che la stupidità vinca di nuovo.
Nella seconda metà del secolo la questione della memoria è stata soprattutto la
questione della possibilità che storia e memoria collaborassero. Il fine non era
trasformare la Shoah in un evento/battaglia, memorabile, ma anche latore di mitologia,
dove ognuno raccontasse il suo eroismo o il suo travaglio per poi scoprirsi manichini
patetici al supermarket del souvenir.
Un culto acritico della memoria produce solo omelia, ma non determina crescita
culturale.
Infinite sono le storie individuali che possiamo incamerare e memorizzare, ma esse
rimangono vive se stabiliamo una connessione - in gergo informatico se si produce un
ancoraggio - tra dato che incameriamo e sistema informativo complesso in cui lo andiamo a
depositare. Allora sarà possibile comparazione, confronto, riflessione critica. In altre
parole: la memoria non è un fatto. La memoria è un atto. Per la precisione un atto a due
velocità.
In prima istanza occorre che si produca una comunità di ascolto insieme a un grande
deposito dove accantonare storie e vicende narrate. Profili di vite in altre parole.
Giacché il dolore non è comunicabile fra umani, ma solo lesperienza del dolore
lo è. E per comunicare lesperienza, non è sufficiente trovare le parole giuste,
occorre anche che ci siano orecchie disponibili.
Ma, in seconda istanza, occorre anche sapere che il tempo lungo accentua il problema.
Non lo lenisce né lo dissolve. Anzi lo esaspera. Perché la costruzione di una comunità
di ascolto, di reciproco ascolto, larga o ristretta che sia, riapre questioni e ne
formula di nuove.
Alla metà degli anni 60, in un testo molto sofferto e forse anche impertinente,
certamente non conciliante, Elie Wiesel, scriveva che gli ebrei non avevano amici e che
per questo Auschwitz era stato un evento perseguibile e realizzabile.
E la stessa considerazione che ci propone il poeta polacco Czeslaw Milosz.
"Nel comportamento della gente di Varsavia nei confronti del ghetto scrive
Milosz cè stato odio, commiserazione, vergogna, antisemitismo. Ma su tutto
ha troneggiato una sventata indifferenza. Quelle giostre piene di gente sorridente che
volteggiava nel fumo del ghetto in fiamme lì accanto, non erano la dimostrazione di alcun
antisemitismo, erano la completa indifferenza verso il destino dei propri vicini" (C.
Milosz, Elegia, in "Polityka", 27 giugno 1987)
Per riprendere la considerazione sul treno: non basta mettere delle persone dentro un
treno, magari anche spingendovele a forza, per ritenere che automaticamente quel treno si
diriga verso Auschwitz. Perché là arrivi, perché si presenti di nuovo davanti a quella
porta, vuol dire che lunico rapporto tra i viaggiatori coatti di quel treno e il
resto del mondo che li guarda è il gesto della mano che Lanzmann nel film
"Shoah" fa ripetere al ferroviere polacco, in una delle sequenze che segnano la
storia del cinema. Al centro di quella scena sta lassenza di un qualsiasi sentimento
di amicizia.
Lamicizia, invece, può essere un viatico. Almeno quella che non elimina la
differenza, ma include che, in nome della reciprocità, si rispettino le personalità e,
perciò, si impari ad ascoltare e a farsi ascoltare.
Questo è quel minimo di desidero utopico che dovrebbe innervare le democrazie decenti.
E anche quella soglia minima che a Montaigne sembrava indispensabile, già quattro
secoli fa, perché si desse società civile.
Sarebbe già apprezzabile che lo fosse anche per noi.