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La politica nel pallone

Giorgio Triani


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1. Brigate Rosse e Brigate Rossonere

Quasi una cronistoria, però sintetica come i titoli dei giornali che talvolta la documenteranno: questo vi proporrò a proposito del rapporto fra la politica e il calcio. Una cronistoria che inizia con una data simbolo: 1970, semifinale di Coppa del mondo Italia-Germania.

Fu infatti all'indomani di quella partita, che raccolse davanti alla tv 28 milioni di spettatori e quasi altrettanti nelle strade e nelle piazze d'Italia, che intellettuali e commentatori cominciarono a interrogarsi sul carattere politico dello spettacolo calcistico. Perché se non era nuova la strumentalizzazione dei giochi da parte del potere, inedita era la rivendicazione di protagonismo da parte delle masse che festeggiavano un successo sportivo. Perché in quel rumoreggiare di folla, non più solo allo stadio ma pure nelle piazze, si scorgeva l'ombra del '68 e dell'"Autunno caldo". Anche se di politica succube del calcio non si poteva ancora parlare. Al massimo, e in modo appena abbozzato, di politicizzazione del tifo.

Come scriveva nel 1976 " Lotta Continua": " Nelle varie attività del tifo c'è una grossa spinta all'organizzazione e alla solidarietà collettiva". Un riconoscimento che scaturiva dalla crescente tendenza dei gruppi di giovani tifosi ultrà ad assumere denominazioni che traevano alimento dal retroterra culturale dell'estrema sinistra e dall'attualità politica. Non più " fedelissimi" o " amici del Bologna" o " Inter club", ma "Gap" ( Gruppi azione Petruzzu, soprannome dell'allora centravanti della Juventus Anastasi, in evidente assonanza con i Gruppi azione partigiana dell'editore Gian Giacomo Feltrinelli), "Settembre Rosso-Nero", "Fedayn" (con riferimento alle sanguinose vicende mediorientali).

Nomi che erano un programma, anche se a dispetto delle apparenze i contenuti ideologici erano molto pallidi. Che fosse inalberata l'effigie di Che Guevara o si dicesse che bisognava colpire "il cuore dello Stadio" ( così come le Brigate Rosse volevano fare col " cuore dello Stato") gli ultrà non avevano, né volevano indicare, orizzonti politici. Erano dei replicanti ludici, degli eversori della domenica che però riuscivano a terrorizzare l'opinione pubblica rispettabile e l'autorità sportiva. In ciò perfettamente funzionali al clima dietrologico dell'epoca.

Era la stagione del " Grande Vecchio" e dunque nemmeno gli ultrà potevano sottrarsi all'accusa di essere strumenti di una contestazione premeditata, orchestrata e diretta da gruppi eversivi. Come scriveva il " Corriere della Sera" del 3/12/77 : " E' forse in atto un organizzato piano di boicottaggio di uno dei fenomeni più tradizionali della vita italiana: il calcio".

Il terrorismo e gli scontri di piazza offrivano infatti ai tifosi non pochi spunti e suggerimenti: dai contrassegni esteriori (uso del passamontagna, fazzoletti calati sul volto e bastoni avvolti negli stendardi), ai nomi dei gruppi ("Brigate Rossonere" e sigle tipo C.U.C.S. derivate da quelle dell'Autonomia) e agli slogan ( "Boys carogne tornate nelle fogne" e " Uccidere un juventino non è reato"). Ma i travasi comportamentali e linguistici avvenivano solamente in un senso: dalla politica al calcio. E comunque il debordamento linguistico, che si sarebbe materializzato nella seconda metà del decennio successivo, con un invadente, eccessivo ricorso nel linguaggio politico a neologismi ed espressività di provenienza sportiva era ancora impensabile.

Ma retrospettivamente si può affermare che le cause e gli indizi di tale fenomeno erano già tutti delineati. A partire dal fatto che la sacralità della politica si stava ormai dissolvendo, che i "padri nobili" della Repubblica stavano scomparendo (anche per ragioni anagrafiche) e con essi le legittimità forti, fondanti dei leader e delle istituzioni costituenti.

 

La stagione (politico- automobilistica) del sorpasso , a cui sarebbe succeduta quella (politico-atletica) della staffetta , non era ancora iniziata. Però il vocabolo entrò formalmente nell'arengo politico nel 1978, quando Aldo Moro nel suo ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari della DC tenuto il 28 febbraio 1978, per sostenere il governo di "solidarietà nazionale", disse: "Chi pensa di far bene dissociando, dividendo le forze, sappia che fa il regalo tardivo del sorpasso al Partito comunista".

Il modulo qualificativo "di serie A, di serie B", per fare un altro esempio, non era ancora quello che attualmente è, ovvero un modo di dire universale, tuttavia assumeva certa dignità politica apparendo in un passo di una Risoluzione strategica delle Brigate Rosse del 1978, diffusa proprio durante la prigionia dello statista democristiano: "Guerriglia vuol dire rifiuto di questa collocazione da 'paese di serie B' dentro il sistema democratico occidentale".

 

2. Dall'uso politico del calcio alla politica presa a calci

E' il 1982 l'anno della svolta, ancora una volta propiziata da una finale della Coppa del mondo. Questa volta assolutamente trionfale perché gli azzurri vinsero la finalissima del Mundial spagnolo, benedicenti il Presidente della Repubblica Sandro Pertini e il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, che già qualche mese prima s'erano proposti come "primi tifosi". "Pertini agli atleti: anch'io e Spadolini saltiamo gli ostacoli": così titolava "La Stampa" il 30/4/82.

Apparentemente il tripudio festoso e nazionalistico del 1982 non era diverso da quello del 1970: identica la causa scatenante, simile la voglia di stringersi attorno al tricolore e di celebrare un'Italia che almeno calcisticamente "funziona" e vince. In realtà ancor più della qualità e dell'intensità del tifo (comunque non più riconducibile a mero fatto di cronaca o di costume, tanto che l'attenzione dei mass media fu enorme e unica) ciò che era profondamente cambiato era il significato politico di quell'esplosione di entusiasmo.

"Meglio Rossi (il centravanti azzurro) che morti", titolò "l'Unità" un articolo del sociologo Franco Ferrarotti e in quel riprendere un celebre slogan della sinistra (o, capovolto, della destra) si manifestava appunto il completo, radicale rovesciamento di senso che aveva sempre regolato il rapporto fra politica e spettacolo calcistico. Innanzitutto il fatto che la prima non era più capace di produrre e regolare entusiasmi e tensioni collettive, in secondo luogo il riversarsi delle identità negate dalla politica in ambito sportivo. Il calcio come surrogato dell'identità nazionale frustrata e come risposta alla crisi della rappresentanza partitica.

A differenza del passato questo fenomeno non era più transitorio. Non più una parentesi, un delirio di folla carnevalesco, ma invece uno stabile trasferimento di aspettative, valori e comportamenti da un piano all'altro. Dimostrato dal fatto che le feste del tifo negli anni Ottanta sono diventati un tratto costante delle domeniche calcistiche e della vita nazionale. Nello stesso tempo in cui le forme espressive e comportamentali tradizionalmente proprie della lotta politica (parole d'ordine, slogan e battimani ritmati e cantati, bandiere e striscioni) si sono trasferite sulle gradinate degli stadi.

La correlazione fra "vuoto" politico" e "pieno" calcistico non era naturalmente automatica. Ma è indubbio che agli inizi del decennio trascorso non erano più i tifosi a sentire il bisogno di attingere ai repertori della politica (naturalmente con le le logiche sottoculturali di cui già abbiamo detto), ma viceversa i leader di partito e governo a ricorrere sempre più spesso al linguaggio sportivo e ad immagini da stadio.

Era l'efficacia del messaggio calcistico che induceva la politica ufficiale a sedersi non più ai tavoli delle sezioni e delle grandi assisi partitiche bensì a quelli del bar sport. Come puntualmente indicano i riscontri giornalistici, immediati e crescenti mano a mano che si procede verso il decennio Novanta. Gol, autogol, colpo di tacco, melina e tempi supplementari diventavano termini ricorrenti nel lessico politico.

Ed è così che tra inviti ad applicare tecniche e tattiche calcistiche alla politica ("Andreotti ai giovani deputati DC: giocate d'attacco non fate melina", "Corriere della Sera", 3/3/82), polemiche fra direttori di giornale e segretari di partito ("Colpo di tacco. Autogol", "Reporter" 14/1/86, a proposito del furioso scontro fra Eugenio Scalfari e Ghino di Tacco-Craxi), assisi parlamentari trasformate in campi da gioco ("La palla torna al Parlamento , "Avanti!" 15/11/87 e "La Camera ai tempi supplementari" , "la Repubblica" 13/10/88), si giunge alla stagione del sorpasso (in occasione delle elezioni europee del 1984) e tre anni dopo a quella della staffetta. Dalla paura della vittoria comunista al patto di legislatura fra DC e PSI, contrastato dal segretario del PCI, Achille Occhetto, che per superare l'impasse di un partito "in mezzo al guado" inaugura la nuova fase della "politica a tutto campo".

Ma la calcistizzazione della politica procedeva al passo di quella più generale che investiva la società italiana degli anni Ottanta e che scaturiva dal crescente peso sociale ed economico dello spettacolo calcistico, capace, sia pure all'interno di logiche impazzite (perché rette dall'irrazionalità del tifo), di offrirsi come modello di una contesa in cui erano chiare le ragioni del contendere e dunque le appartenenze, i ruoli e gli obiettivi. Esattamente il contrario di ciò che invece caratterizzava il mondo politico, soprattutto negli anni della decadenza repubblicana, dello svuotamento delle istituzioni, della degradazione partitica e affaristica che di lì a qualche anno avrebbe prodotto Tangentopoli.

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I deficit di legittimità e di rappresentatività della politica e dei suoi protagonisti si esprimevano non più solo in un linguaggio confuso, oscuro, criptico: partitocrazia, consociativismo, sfascismo indicavano infatti come le parole della politica non potessero più esorcizzare la crisi irreversibile di un sistema. Non c'erano più convergenze parallele da ipotizzare o equilibri più avanzati da perseguire: la tensione verso un futuro da immaginare lasciava posto a una scomposta ricerca di facile popolarità, di populismo d'accatto però immediatamente spendibile.

Il calcio, da questo punto di vista, era un approdo obbligato, agognato. Ma la novità consisteva nel fatto che i leader politici non si limitavano più ad un uso metaforico e linguistico del "più bel gioco del mondo", perché se questi sempre più spesso si esprimevano da commissari tecnici, i comportamenti dei militanti di partito tendevano sempre più ad assomigliare a quelli degli ultrà. Il "partito dei tifosi" ufficialmente non esisteva, ma la politica che smarriva il senso della propria azione, che andava nel pallone, procedeva al passo con cui i politici venivano presi a metaforici calci dall'opinione pubblica.

 

3. Il partito dei tifosi: Curva Sud e Lega Nord

L'ultima stagione della Prima Repubblica, denominata del CAF perché retta dal patto politico a tre fra Craxi, Andreotti e Forlani, iniziò nel 1989, con il congresso della DC che pose fine alla lunga segreteria De Mita.

Un congresso calcistico in senso proprio, nonché la prima assise partitica in assoluto celebrata in un clima da stadio. Con politici-atleti, ad onta dei corpi un po' disfatti, costretti ad esibirsi sportivamente al cospetto di congressisti-tifosi: striscioni, applausi chilometrici e ritmati, ondate di fischi e ripetuti "alé-o-o, alé-o-o". Con cronisti, notisti e opinionisti politici indotti dal clima particolare ad indossare panni inediti da giornalisti sportivi e come questi ad esprimersi in un linguaggio zeppo di bellicismi ed espressioni colorate.

Ecco allora materializzarsi le "truppe mastellate" e quelle "corazzate" di Gava, la Curva Sud di Andreotti, mentre le parole di De Mita nella replica finale suonarono amare come quelle di un allenatore estromesso dalle congiure di spogliatoio. "Siamo allo stadio, no?" e rivolgendosi al pubblico "sono diventato esperto di calcio pure io..." ("la Repubblica" 1/2/89).

Ma il carattere profondamente, esemplarmente, calcistico del congresso democristiano ufficializzava solamente una situazione che apparteneva ormai da tempo e pienamente al paesaggio politico e sociale nazionale. Il tranquillo e discreto paternalismo espresso dalla presidenza di club da parte di capitani d'industria e di rappresentanti delle grandi famiglie imprenditoriali - gli Agnelli con la Juventus, il Milan con l'editore Rizzoli, l'Inter con il petroliere Moratti - lasciava il passo ad un aperto e scoperto uso strumentale dello sport, a un vero e proprio assalto alla diligenza calcistica.

Perché se onorevoli e ministri assumevano la presidenza di federazioni sportive (ad esempio quelle del ciclismo e del basket, rispettivamente con il democristiano Scotti e il socialista De Michelis) le tribune d'onore degli stadi diventavano passerelle domenicali per l'esibizione di ostentate fedi tifose sotto cui in verità agivano ben più prosaiche motivazioni. La passione e l'amore per i colori della squadra della propria città come occasione per manifestare la personale appartenenza ai circoli esclusivi del potere e come pretesto per fare affari all'ombra delle sfide calcistiche.

E' il periodo in cui segretari di partito e manager (da Craxi, habitué della tribuna vip di San Siro, a Romiti che presenzia alla conferenza stampa di ufficializzazione dell'acquisto di Baggio da parte della Juventus), imprenditori, sindaci e sindacalisti (da Berlusconi a Tognoli e Del Turco) non mancano un incontro calcistico di cartello ed anzi accorrono ad affollare il " Processo del lunedì".

 

Una frammistione di interessi, un poco pulito intreccio e scambio di favori fra potere sportivo e potere politico-economico che si esercitava attraverso un do ut des sulla cui base la presidenza di un club offerta a un imprenditore aveva come contropartita la concessione allo stesso di appalti pubblici, oppure il tacito sostegno a sfondare i bilanci, a soddisfare le più folli richieste delle piazze tifose, perché tanto poi avrebbero posto rimedio le istituzioni (Coni, banche, enti locali) attraverso contributi a tassi di favore e spesso anche finanziamenti a fondo perduto.

A cavallo dei due decenni questo malvezzo configurava ormai una vera fabbrica criminale (come dimostreranno poi le inchieste di Mani Pulite e in subordine di Piedi puliti, che nel '93-'94 hanno visto finire in carcere o raggiunti da comunicazioni giudiziarie imprenditori-presidenti come Ciarrapico, Borsano, Longarini, Pellegrini, Ferlaino, Cragnotti). Ma non c'era ancora coscienza, nonostante alcune denunce, dei livelli di corruzione, di malversazione e dissipazione di ricchezze pubbliche che minavano la fabbrica dei sogni pedatorii. Perché il mondo del calcio restava sostanzialmente al di sopra d'ogni sospetto (ovviamente capace di metterlo in discussione e in crisi). Forte del suo ruolo egemonico che legittimava quanti cominciavano a parlare di post-calcio o di iper-calcio.

Ma il carattere nuovo, dirompente e negativamente sorprendente assunto dal calcio nella vita pubblica nazionale andava oltre il compenetrarsi in esso o in suo nome di compatibilità politiche e interessi economici, ragioni del cuore e simbolizzazioni del potere.

Esso d'altronde investiva non solo le forme esteriori, folkloriche della politica (come nel caso del già ricordato congresso della DC del '89), ma ne influenzava significativamente anche i contenuti: a partire dal fatto che l'unica novità politica degli anni Ottanta, il partito anti-partito della Lega Nord è stato il più puntuale e compiuto prodotto della calcistizzazione della società italiana, la traduzione partitica di un'ideologia che ha avuto ed ha i suoi luoghi deputati nelle curve degli stadi e attorno ai tavoli del bar sport.

Certo definire il movimento di Bossi il "partito dei tifosi" è un'estremizzazione, ma non una forzatura e nemmeno una battuta, perché se la nascita e il successo della Lega erano in stretta relazione con l'arroganza della partitocrazia, figli della disaffezione dell'elettorato per una nomenklatura corrotta, sprezzante, impunita, è altresì vero che i militanti lumbard apparivano molto simili agli appartenenti ai gruppi ultrà, ed entrambi ugualmente e irriducibilmente diversi e avversi sia ai tifosi sia agli attivisti di partito tradizionali.

In ogni caso il leghismo e il suo capo indiscusso Bossi, tanto demonizzati ed esorcizzati, riuscivano tuttavia ad imporre le loro suggestioni muscolari agli altri partiti e leader politici (vecchi e nuovi, per inciso). Al punto che, negli anni dell'interminabile querelle sul Partito trasversale, se ad esempio Craxi fu indotto ad accentuare il piglio decisionista, un uomo da sempre mite come il presidente della Repubblica Cossiga decise di vestire panni da "picconatore".

E il rapporto fra chi bramava la Repubblica Presidenziale e chi s'adoperava per affossare quella esistente con la scusa di "togliersi qualche sassolino dalle scarpe" (magari per correre meglio) era adombrato dal confidente ufficiale del "Grande Esternatore", il giornalista Paolo Guzzanti: "Bettino Craxi ha parlato a lungo con il Presidente. E, secondo una voce di corridoio, 'gli ha dato la carica'. E' stato un colloquio lungo e un po' febbrile, come quelli tra un allenatore e il suo atleta" ("La Stampa" 26/3/91).

Ma il "partito dei tifosi" configurato da Bossi era ancora informale. Restava una minaccia, che se da un lato affascinava (come la furia distruttiva degli ultrà) dall'altro lasciava sgomenti sugli esiti disgraziati cui avrebbe potuto dar luogo se spinta alle estreme conseguenze. Perché un conto era, ed è, restituire alle pratiche e ai comportamenti della politica, avviliti da decenni di politichese, di estenuanti e fumosi riti compromissori, la freschezza e la chiarezza del conflitto calcistico, tutt'altro invece ridurre la politica a questione calcistica, ove le ideologie sono inessenziali e la complessità del mondo viene ridotta a poche, semplici, elementari opzioni e dove non c'è da riflettere o fare troppe chiacchiere, ma credere, tifare e battersi in nome dei propri colori.

Esattamente ciò che avvenne quando "scese in campo" Berlusconi, coniando un partito nuovo di zecca, calcistico nel nome, nel tipo di reclutamento (dirigenti e squadra parlamentare messi assieme con criteri da campagna acquisti e meglio ancora se con trascorsi sportivi di successo) e, anche se di altrettanto forte emanazione pubblicitaria e televisiva, profondamente intriso di riti ambrosiani officiati trionfalmente a San Siro.

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4. Verso la Seconda Repubblica: una cronaca calcistica

17 febbraio 1992: il giudice Antonio Di Pietro, con l'arresto dell'ingegnere Mario Chiesa, apre la stagione di Tangentopoli. Da quel momento il succedersi degli avvenimenti è incalzante. Come in un match calcistico: con i partiti e politici Bugiardi , per dirla col titolo del libro di Giampaolo Pansa, che s'arroccano in difesa - "parlano e nessuno li ascolta. Danno ordini e nessuno gli ubbidisce. Si dichiarano onesti e nessuno gli crede" mentre la gente tifa i magistrati che inquisiscono corrotti e corruttori. "Mani pulite! Mani pulite!", scandiscono in coro i milanesi che ogni giorno numerosi attendono l'uscita da Palazzo di Giustizia dei giudici del pool di Mani Pulite.

Ed è sempre a Milano (così come a Torino e nelle altre città in cui si votò) che l'anno dopo, in giugno, grazie all'introduzione della nuova legge elettorale maggioritaria, le elezioni anticipate per il Comune inaugurano la nuova stagione dei derby politici. La polarizzazione delle forze in campo, il prevalere della figura del candidato sindaco, cioè della persona rispetto agli schieramenti, e la logica del ballottaggio inducono infatti i relativi sostenitori-elettori a parteggiare visibilmente e rumorosamente, a comportarsi da tifosi.

I politici-atleti in lizza (Dalla Chiesa e Formentini a Milano, Castellani e Novelli a Torino) non sono in verità dei performer televisivi entusiasmanti, dei campioni di comunicatività trascinanti. Ma troppa era la voglia di personalizzazione e di giocare elettoralmente una partita in cui per la prima volta col voto non si esprimeva più una delega in bianco ai partiti, bensì una volontà diretta di partecipazione.

Progressisti e leghisti, sinistra e destra come milanisti e interisti, juventini e torinisti, genoani e sampdoriani, laziali e romanisti? Tv, giornali e cronisti non possono che registrare, sia pure con qualche concessione di troppo, la crescente tendenza dei protagonisti della scena pubblica a parlare da allenatori, quando non da tifosi. Ma ormai incombe la "discesa in campo" di Berlusconi.

In attesa che si decida a "bere l'amaro calice", i presidenti delle società calcistiche professionistiche dichiarano di "vedere di buon occhio l'ingresso in politica del collega" ("la Repubblica" 10/12/93) mentre invece Bossi, giusto per far sapere che in campo per la partita finale contro la partitocrazia lui è già sceso, al congresso della Lega ad Assago tiene una relazione introduttiva di "novanta minuti precisi (il tempo esatto di una partita di calcio!)" ("l'Unità" 12/12/93).

Che si stia confondendo la lotta per la conquista del centro politico con quella del centro campo o del centro commerciale? Il dubbio è alimentato dal "freddo saluto in tribuna che si scambiano Silvio e Mariotto (Segni) a San Siro" ("La Stampa" 20/12/93) ma ancor più dal fatto che "non passa giorno che il Cavaliere non faccia esternazioni politico-programmatiche fra una cena prenatalizia della Lega Calcio e l'inaugurazione di un ipermercato" ("Italia Oggi" 15/12/93).

Sport e spot o meglio spot da record. Dal 17 gennaio sulle reti Fininvest parte la campagna di lancio del nuovo prodotto partitico Forza Italia: 1.127 spot da quel giorno sino al 24 febbraio. Una campagna da record, appunto, per pressione (con punte massime di 61 al giorno), numero di contatti (45 milioni sul target adulti, corrispondenti al 93.6% di tutta la popolazione adulta) e posizionamento all'interno dei break (sempre o all'inizio o in coda). E che prelude, tra una bordata e l'altra ai potenziali alleati che non assecondano il suo disegno, Martinazzoli e Segni ("il Gattosardo...lo Schillaci della politica che dopo avere giganteggiato ai mondiali ( i referendum) non ha più segnato. Neanche a tressette" secondo Vittorio Feltri, "il Giornale", 22/1/94 ), alla dichiarazione ufficiale che il "nuovo miracolo italiano" è ormai pronto sulla rampa di lancio.

"Da domani si fa sul serio. Alle 16.20 di ieri, appena finita la partita Milan - Piacenza, dalla tribuna d'onore dello stadio Meazza Silvio Berlusconi annuncia di scendere nel campo della contesa politica" ("la Repubblica" 24/1/94). Ed è immediatamente lotta di tutti contro tutti: a destra, a sinistra e al centro. Fra candidati mancati e non-candidati eccellenti che tuttavia rientrano sulla scena politica, come l'ex presidente del Consiglio socialista Giuliano Amato, perché " L'alternanza ha bisogno di mezzeali" ("la Repubblica" 5/2/94); fra candidati eccellentissimi, come Berlusconi medesimo e il ministro delle Finanze uscente Luigi Spaventa, che si contendono l'emblematico collegio Roma Uno. "Chi è Spaventa? - chiede il presidente del Milan - Quante coppe dei campioni ha vinto?" ("L'Espresso" n. 11 del 18/3/94).

Il quesito politico-calcistico lascia senza parole, ma è disgraziatamente in linea con "La Repubblica del calcio" che paventa la rivista "Micromega" (n. 1, gennaio 94), ma che ormai, per arrivare ai nostri giorni, é pienamente agente. Anzi recrudescente, se è vero che "squadra" e "autogol" sono diventate parole chiave del linguaggio politico e che i leader di partito parlano tutti da commissari tecnici. In consonanza peraltro con il mutuo compenetrarsi degli scranni di Montecitorio con le tribune dell'Olimpico, della cronaca calcistica con quella politica, del gossip da spogliatoio con l'indiscrezione parlamentare.

Al punto da non sapere più, in un sussulto da "par condicio", se gridando "Forza Italia!" si fa il tifo per gli azzurri oppure propaganda politica. Fermo restando che siamo stati il primo, e al momento unico, paese al mondo a essere riusciti a trasformare un esortativo sportivo e un incitamento da tifosi in un movimento politico e in una forza di governo.

 

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