1. Brigate Rosse e Brigate
Rossonere
Quasi una cronistoria, però sintetica come i titoli dei giornali che talvolta la
documenteranno: questo vi proporrò a proposito del rapporto fra la politica e il calcio.
Una cronistoria che inizia con una data simbolo: 1970, semifinale di Coppa del mondo
Italia-Germania.
Fu infatti all'indomani di quella partita, che raccolse davanti alla tv 28 milioni di
spettatori e quasi altrettanti nelle strade e nelle piazze d'Italia, che intellettuali e
commentatori cominciarono a interrogarsi sul carattere politico dello spettacolo
calcistico. Perché se non era nuova la strumentalizzazione dei giochi da parte del
potere, inedita era la rivendicazione di protagonismo da parte delle masse che
festeggiavano un successo sportivo. Perché in quel rumoreggiare di folla, non più solo
allo stadio ma pure nelle piazze, si scorgeva l'ombra del '68 e dell'"Autunno
caldo". Anche se di politica succube del calcio non si poteva ancora parlare. Al
massimo, e in modo appena abbozzato, di politicizzazione del tifo.
Come scriveva nel 1976 " Lotta Continua": " Nelle varie attività del
tifo c'è una grossa spinta all'organizzazione e alla solidarietà collettiva". Un
riconoscimento che scaturiva dalla crescente tendenza dei gruppi di giovani tifosi ultrà
ad assumere denominazioni che traevano alimento dal retroterra culturale dell'estrema
sinistra e dall'attualità politica. Non più " fedelissimi" o " amici del
Bologna" o " Inter club", ma "Gap" ( Gruppi azione Petruzzu,
soprannome dell'allora centravanti della Juventus Anastasi, in evidente assonanza con i
Gruppi azione partigiana dell'editore Gian Giacomo Feltrinelli), "Settembre
Rosso-Nero", "Fedayn" (con riferimento alle sanguinose vicende
mediorientali).
Nomi che erano un programma, anche se a dispetto delle apparenze i contenuti ideologici
erano molto pallidi. Che fosse inalberata l'effigie di Che Guevara o si dicesse che
bisognava colpire "il cuore dello Stadio" ( così come le Brigate Rosse volevano
fare col " cuore dello Stato") gli ultrà non avevano, né volevano indicare,
orizzonti politici. Erano dei replicanti ludici, degli eversori della domenica che però
riuscivano a terrorizzare l'opinione pubblica rispettabile e l'autorità sportiva. In ciò
perfettamente funzionali al clima dietrologico dell'epoca.
Era la stagione del " Grande Vecchio" e dunque nemmeno gli ultrà potevano
sottrarsi all'accusa di essere strumenti di una contestazione premeditata, orchestrata e
diretta da gruppi eversivi. Come scriveva il " Corriere della Sera" del 3/12/77
: " E' forse in atto un organizzato piano di boicottaggio di uno dei fenomeni più
tradizionali della vita italiana: il calcio".
Il terrorismo e gli scontri di piazza offrivano infatti ai tifosi non pochi spunti e
suggerimenti: dai contrassegni esteriori (uso del passamontagna, fazzoletti calati sul
volto e bastoni avvolti negli stendardi), ai nomi dei gruppi ("Brigate
Rossonere" e sigle tipo C.U.C.S. derivate da quelle dell'Autonomia) e agli slogan (
"Boys carogne tornate nelle fogne" e " Uccidere un juventino non è
reato"). Ma i travasi comportamentali e linguistici avvenivano solamente in un senso:
dalla politica al calcio. E comunque il debordamento linguistico, che si sarebbe
materializzato nella seconda metà del decennio successivo, con un invadente, eccessivo
ricorso nel linguaggio politico a neologismi ed espressività di provenienza sportiva era
ancora impensabile.
Ma retrospettivamente si può affermare che le cause e gli indizi di tale fenomeno
erano già tutti delineati. A partire dal fatto che la sacralità della politica si stava
ormai dissolvendo, che i "padri nobili" della Repubblica stavano scomparendo
(anche per ragioni anagrafiche) e con essi le legittimità forti, fondanti dei leader e
delle istituzioni costituenti.
La stagione (politico- automobilistica) del sorpasso , a cui sarebbe succeduta
quella (politico-atletica) della staffetta , non era ancora iniziata. Però il
vocabolo entrò formalmente nell'arengo politico nel 1978, quando Aldo Moro nel suo ultimo
discorso, quello ai gruppi parlamentari della DC tenuto il 28 febbraio 1978, per sostenere
il governo di "solidarietà nazionale", disse: "Chi pensa di far bene
dissociando, dividendo le forze, sappia che fa il regalo tardivo del sorpasso al Partito
comunista".
Il modulo qualificativo "di serie A, di serie B", per fare un altro esempio,
non era ancora quello che attualmente è, ovvero un modo di dire universale, tuttavia
assumeva certa dignità politica apparendo in un passo di una Risoluzione strategica
delle Brigate Rosse del 1978, diffusa proprio durante la prigionia dello statista
democristiano: "Guerriglia vuol dire rifiuto di questa collocazione da 'paese di
serie B' dentro il sistema democratico occidentale".
2. Dall'uso politico del calcio alla politica presa a calci
E' il 1982 l'anno della svolta, ancora una volta propiziata da una finale della Coppa
del mondo. Questa volta assolutamente trionfale perché gli azzurri vinsero la finalissima
del Mundial spagnolo, benedicenti il Presidente della Repubblica Sandro Pertini e il
Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, che già qualche mese prima s'erano proposti
come "primi tifosi". "Pertini agli atleti: anch'io e Spadolini saltiamo gli
ostacoli": così titolava "La Stampa" il 30/4/82.
Apparentemente il tripudio festoso e nazionalistico del 1982 non era diverso da quello
del 1970: identica la causa scatenante, simile la voglia di stringersi attorno al
tricolore e di celebrare un'Italia che almeno calcisticamente "funziona" e
vince. In realtà ancor più della qualità e dell'intensità del tifo (comunque non più
riconducibile a mero fatto di cronaca o di costume, tanto che l'attenzione dei mass media
fu enorme e unica) ciò che era profondamente cambiato era il significato politico di
quell'esplosione di entusiasmo.
"Meglio Rossi (il centravanti azzurro) che morti", titolò
"l'Unità" un articolo del sociologo Franco Ferrarotti e in quel riprendere un
celebre slogan della sinistra (o, capovolto, della destra) si manifestava appunto il
completo, radicale rovesciamento di senso che aveva sempre regolato il rapporto fra
politica e spettacolo calcistico. Innanzitutto il fatto che la prima non era più capace
di produrre e regolare entusiasmi e tensioni collettive, in secondo luogo il riversarsi
delle identità negate dalla politica in ambito sportivo. Il calcio come surrogato
dell'identità nazionale frustrata e come risposta alla crisi della rappresentanza
partitica.
A differenza del passato questo fenomeno non era più transitorio. Non più una
parentesi, un delirio di folla carnevalesco, ma invece uno stabile trasferimento di
aspettative, valori e comportamenti da un piano all'altro. Dimostrato dal fatto che le
feste del tifo negli anni Ottanta sono diventati un tratto costante delle domeniche
calcistiche e della vita nazionale. Nello stesso tempo in cui le forme espressive e
comportamentali tradizionalmente proprie della lotta politica (parole d'ordine, slogan e
battimani ritmati e cantati, bandiere e striscioni) si sono trasferite sulle gradinate
degli stadi.
La correlazione fra "vuoto" politico" e "pieno" calcistico non
era naturalmente automatica. Ma è indubbio che agli inizi del decennio trascorso non
erano più i tifosi a sentire il bisogno di attingere ai repertori della politica
(naturalmente con le le logiche sottoculturali di cui già abbiamo detto), ma viceversa i
leader di partito e governo a ricorrere sempre più spesso al linguaggio sportivo e ad
immagini da stadio.
Era l'efficacia del messaggio calcistico che induceva la politica ufficiale a sedersi
non più ai tavoli delle sezioni e delle grandi assisi partitiche bensì a quelli del bar
sport. Come puntualmente indicano i riscontri giornalistici, immediati e crescenti mano a
mano che si procede verso il decennio Novanta. Gol, autogol, colpo di tacco, melina e
tempi supplementari diventavano termini ricorrenti nel lessico politico.
Ed è così che tra inviti ad applicare tecniche e tattiche calcistiche alla politica
("Andreotti ai giovani deputati DC: giocate d'attacco non fate melina",
"Corriere della Sera", 3/3/82), polemiche fra direttori di giornale e segretari
di partito ("Colpo di tacco. Autogol", "Reporter" 14/1/86, a proposito
del furioso scontro fra Eugenio Scalfari e Ghino di Tacco-Craxi), assisi parlamentari
trasformate in campi da gioco ("La palla torna al Parlamento , "Avanti!"
15/11/87 e "La Camera ai tempi supplementari" , "la Repubblica"
13/10/88), si giunge alla stagione del sorpasso (in occasione delle elezioni
europee del 1984) e tre anni dopo a quella della staffetta. Dalla paura della
vittoria comunista al patto di legislatura fra DC e PSI, contrastato dal segretario del
PCI, Achille Occhetto, che per superare l'impasse di un partito "in mezzo al
guado" inaugura la nuova fase della "politica a tutto campo".
Ma la calcistizzazione della politica procedeva al passo di quella più generale che
investiva la società italiana degli anni Ottanta e che scaturiva dal crescente peso
sociale ed economico dello spettacolo calcistico, capace, sia pure all'interno di logiche
impazzite (perché rette dall'irrazionalità del tifo), di offrirsi come modello di una
contesa in cui erano chiare le ragioni del contendere e dunque le appartenenze, i ruoli e
gli obiettivi. Esattamente il contrario di ciò che invece caratterizzava il mondo
politico, soprattutto negli anni della decadenza repubblicana, dello svuotamento delle
istituzioni, della degradazione partitica e affaristica che di lì a qualche anno avrebbe
prodotto Tangentopoli.

I deficit di legittimità e di rappresentatività della politica e dei suoi
protagonisti si esprimevano non più solo in un linguaggio confuso, oscuro, criptico:
partitocrazia, consociativismo, sfascismo indicavano infatti come le parole della politica
non potessero più esorcizzare la crisi irreversibile di un sistema. Non c'erano più
convergenze parallele da ipotizzare o equilibri più avanzati da perseguire: la tensione
verso un futuro da immaginare lasciava posto a una scomposta ricerca di facile
popolarità, di populismo d'accatto però immediatamente spendibile.
Il calcio, da questo punto di vista, era un approdo obbligato, agognato. Ma la novità
consisteva nel fatto che i leader politici non si limitavano più ad un uso metaforico e
linguistico del "più bel gioco del mondo", perché se questi sempre più spesso
si esprimevano da commissari tecnici, i comportamenti dei militanti di partito tendevano
sempre più ad assomigliare a quelli degli ultrà. Il "partito dei tifosi"
ufficialmente non esisteva, ma la politica che smarriva il senso della propria azione, che
andava nel pallone, procedeva al passo con cui i politici venivano presi a metaforici
calci dall'opinione pubblica.
3. Il partito dei tifosi: Curva Sud e Lega Nord
L'ultima stagione della Prima Repubblica, denominata del CAF perché retta dal patto
politico a tre fra Craxi, Andreotti e Forlani, iniziò nel 1989, con il congresso della DC
che pose fine alla lunga segreteria De Mita.
Un congresso calcistico in senso proprio, nonché la prima assise partitica in assoluto
celebrata in un clima da stadio. Con politici-atleti, ad onta dei corpi un po' disfatti,
costretti ad esibirsi sportivamente al cospetto di congressisti-tifosi: striscioni,
applausi chilometrici e ritmati, ondate di fischi e ripetuti "alé-o-o,
alé-o-o". Con cronisti, notisti e opinionisti politici indotti dal clima particolare
ad indossare panni inediti da giornalisti sportivi e come questi ad esprimersi in un
linguaggio zeppo di bellicismi ed espressioni colorate.
Ecco allora materializzarsi le "truppe mastellate" e quelle
"corazzate" di Gava, la Curva Sud di Andreotti, mentre le parole di De Mita
nella replica finale suonarono amare come quelle di un allenatore estromesso dalle
congiure di spogliatoio. "Siamo allo stadio, no?" e rivolgendosi al pubblico
"sono diventato esperto di calcio pure io..." ("la Repubblica"
1/2/89).
Ma il carattere profondamente, esemplarmente, calcistico del congresso democristiano
ufficializzava solamente una situazione che apparteneva ormai da tempo e pienamente al
paesaggio politico e sociale nazionale. Il tranquillo e discreto paternalismo espresso
dalla presidenza di club da parte di capitani d'industria e di rappresentanti delle grandi
famiglie imprenditoriali - gli Agnelli con la Juventus, il Milan con l'editore Rizzoli,
l'Inter con il petroliere Moratti - lasciava il passo ad un aperto e scoperto uso
strumentale dello sport, a un vero e proprio assalto alla diligenza calcistica.
Perché se onorevoli e ministri assumevano la presidenza di federazioni sportive (ad
esempio quelle del ciclismo e del basket, rispettivamente con il democristiano Scotti e il
socialista De Michelis) le tribune d'onore degli stadi diventavano passerelle domenicali
per l'esibizione di ostentate fedi tifose sotto cui in verità agivano ben più prosaiche
motivazioni. La passione e l'amore per i colori della squadra della propria città come
occasione per manifestare la personale appartenenza ai circoli esclusivi del potere e come
pretesto per fare affari all'ombra delle sfide calcistiche.
E' il periodo in cui segretari di partito e manager (da Craxi, habitué della tribuna
vip di San Siro, a Romiti che presenzia alla conferenza stampa di ufficializzazione
dell'acquisto di Baggio da parte della Juventus), imprenditori, sindaci e sindacalisti (da
Berlusconi a Tognoli e Del Turco) non mancano un incontro calcistico di cartello ed anzi
accorrono ad affollare il " Processo del lunedì".
Una frammistione di interessi, un poco pulito intreccio e scambio di favori fra potere
sportivo e potere politico-economico che si esercitava attraverso un do ut des sulla
cui base la presidenza di un club offerta a un imprenditore aveva come contropartita la
concessione allo stesso di appalti pubblici, oppure il tacito sostegno a sfondare i
bilanci, a soddisfare le più folli richieste delle piazze tifose, perché tanto poi
avrebbero posto rimedio le istituzioni (Coni, banche, enti locali) attraverso contributi a
tassi di favore e spesso anche finanziamenti a fondo perduto.
A cavallo dei due decenni questo malvezzo configurava ormai una vera fabbrica criminale
(come dimostreranno poi le inchieste di Mani Pulite e in subordine di Piedi puliti, che
nel '93-'94 hanno visto finire in carcere o raggiunti da comunicazioni giudiziarie
imprenditori-presidenti come Ciarrapico, Borsano, Longarini, Pellegrini, Ferlaino,
Cragnotti). Ma non c'era ancora coscienza, nonostante alcune denunce, dei livelli di
corruzione, di malversazione e dissipazione di ricchezze pubbliche che minavano la
fabbrica dei sogni pedatorii. Perché il mondo del calcio restava sostanzialmente al di
sopra d'ogni sospetto (ovviamente capace di metterlo in discussione e in crisi). Forte del
suo ruolo egemonico che legittimava quanti cominciavano a parlare di post-calcio o di
iper-calcio.
Ma il carattere nuovo, dirompente e negativamente sorprendente assunto dal calcio nella
vita pubblica nazionale andava oltre il compenetrarsi in esso o in suo nome di
compatibilità politiche e interessi economici, ragioni del cuore e simbolizzazioni del
potere.
Esso d'altronde investiva non solo le forme esteriori, folkloriche della politica (come
nel caso del già ricordato congresso della DC del '89), ma ne influenzava
significativamente anche i contenuti: a partire dal fatto che l'unica novità politica
degli anni Ottanta, il partito anti-partito della Lega Nord è stato il più puntuale e
compiuto prodotto della calcistizzazione della società italiana, la traduzione partitica
di un'ideologia che ha avuto ed ha i suoi luoghi deputati nelle curve degli stadi e
attorno ai tavoli del bar sport.
Certo definire il movimento di Bossi il "partito dei tifosi" è
un'estremizzazione, ma non una forzatura e nemmeno una battuta, perché se la nascita e il
successo della Lega erano in stretta relazione con l'arroganza della partitocrazia, figli
della disaffezione dell'elettorato per una nomenklatura corrotta, sprezzante, impunita, è
altresì vero che i militanti lumbard apparivano molto simili agli appartenenti ai
gruppi ultrà, ed entrambi ugualmente e irriducibilmente diversi e avversi sia ai tifosi
sia agli attivisti di partito tradizionali.
In ogni caso il leghismo e il suo capo indiscusso Bossi, tanto demonizzati ed
esorcizzati, riuscivano tuttavia ad imporre le loro suggestioni muscolari agli altri
partiti e leader politici (vecchi e nuovi, per inciso). Al punto che, negli anni
dell'interminabile querelle sul Partito trasversale, se ad esempio Craxi fu indotto ad
accentuare il piglio decisionista, un uomo da sempre mite come il presidente della
Repubblica Cossiga decise di vestire panni da "picconatore".
E il rapporto fra chi bramava la Repubblica Presidenziale e chi s'adoperava per
affossare quella esistente con la scusa di "togliersi qualche sassolino dalle
scarpe" (magari per correre meglio) era adombrato dal confidente ufficiale del
"Grande Esternatore", il giornalista Paolo Guzzanti: "Bettino Craxi ha
parlato a lungo con il Presidente. E, secondo una voce di corridoio, 'gli ha dato la
carica'. E' stato un colloquio lungo e un po' febbrile, come quelli tra un allenatore e il
suo atleta" ("La Stampa" 26/3/91).
Ma il "partito dei tifosi" configurato da Bossi era ancora informale. Restava
una minaccia, che se da un lato affascinava (come la furia distruttiva degli ultrà)
dall'altro lasciava sgomenti sugli esiti disgraziati cui avrebbe potuto dar luogo se
spinta alle estreme conseguenze. Perché un conto era, ed è, restituire alle pratiche e
ai comportamenti della politica, avviliti da decenni di politichese, di estenuanti e
fumosi riti compromissori, la freschezza e la chiarezza del conflitto calcistico,
tutt'altro invece ridurre la politica a questione calcistica, ove le ideologie sono
inessenziali e la complessità del mondo viene ridotta a poche, semplici, elementari
opzioni e dove non c'è da riflettere o fare troppe chiacchiere, ma credere, tifare e
battersi in nome dei propri colori.
Esattamente ciò che avvenne quando "scese in campo" Berlusconi, coniando un
partito nuovo di zecca, calcistico nel nome, nel tipo di reclutamento (dirigenti e squadra
parlamentare messi assieme con criteri da campagna acquisti e meglio ancora se con
trascorsi sportivi di successo) e, anche se di altrettanto forte emanazione pubblicitaria
e televisiva, profondamente intriso di riti ambrosiani officiati trionfalmente a San Siro.

4. Verso la Seconda Repubblica: una cronaca calcistica
17 febbraio 1992: il giudice Antonio Di Pietro, con l'arresto dell'ingegnere Mario
Chiesa, apre la stagione di Tangentopoli. Da quel momento il succedersi degli avvenimenti
è incalzante. Come in un match calcistico: con i partiti e politici Bugiardi , per
dirla col titolo del libro di Giampaolo Pansa, che s'arroccano in difesa - "parlano e
nessuno li ascolta. Danno ordini e nessuno gli ubbidisce. Si dichiarano onesti e nessuno
gli crede" mentre la gente tifa i magistrati che inquisiscono corrotti e corruttori.
"Mani pulite! Mani pulite!", scandiscono in coro i milanesi che ogni giorno
numerosi attendono l'uscita da Palazzo di Giustizia dei giudici del pool di Mani Pulite.
Ed è sempre a Milano (così come a Torino e nelle altre città in cui si votò) che
l'anno dopo, in giugno, grazie all'introduzione della nuova legge elettorale
maggioritaria, le elezioni anticipate per il Comune inaugurano la nuova stagione dei derby
politici. La polarizzazione delle forze in campo, il prevalere della figura del candidato
sindaco, cioè della persona rispetto agli schieramenti, e la logica del ballottaggio
inducono infatti i relativi sostenitori-elettori a parteggiare visibilmente e
rumorosamente, a comportarsi da tifosi.
I politici-atleti in lizza (Dalla Chiesa e Formentini a Milano, Castellani e Novelli a
Torino) non sono in verità dei performer televisivi entusiasmanti, dei campioni di
comunicatività trascinanti. Ma troppa era la voglia di personalizzazione e di giocare
elettoralmente una partita in cui per la prima volta col voto non si esprimeva più una
delega in bianco ai partiti, bensì una volontà diretta di partecipazione.
Progressisti e leghisti, sinistra e destra come milanisti e interisti, juventini e
torinisti, genoani e sampdoriani, laziali e romanisti? Tv, giornali e cronisti non possono
che registrare, sia pure con qualche concessione di troppo, la crescente tendenza dei
protagonisti della scena pubblica a parlare da allenatori, quando non da tifosi. Ma ormai
incombe la "discesa in campo" di Berlusconi.
In attesa che si decida a "bere l'amaro calice", i presidenti delle società
calcistiche professionistiche dichiarano di "vedere di buon occhio l'ingresso in
politica del collega" ("la Repubblica" 10/12/93) mentre invece Bossi,
giusto per far sapere che in campo per la partita finale contro la partitocrazia lui è
già sceso, al congresso della Lega ad Assago tiene una relazione introduttiva di
"novanta minuti precisi (il tempo esatto di una partita di calcio!)"
("l'Unità" 12/12/93).
Che si stia confondendo la lotta per la conquista del centro politico con quella del
centro campo o del centro commerciale? Il dubbio è alimentato dal "freddo saluto in
tribuna che si scambiano Silvio e Mariotto (Segni) a San Siro" ("La Stampa"
20/12/93) ma ancor più dal fatto che "non passa giorno che il Cavaliere non faccia
esternazioni politico-programmatiche fra una cena prenatalizia della Lega Calcio e
l'inaugurazione di un ipermercato" ("Italia Oggi" 15/12/93).
Sport e spot o meglio spot da record. Dal 17 gennaio sulle reti Fininvest parte la
campagna di lancio del nuovo prodotto partitico Forza Italia: 1.127 spot da quel giorno
sino al 24 febbraio. Una campagna da record, appunto, per pressione (con punte massime di
61 al giorno), numero di contatti (45 milioni sul target adulti, corrispondenti al 93.6%
di tutta la popolazione adulta) e posizionamento all'interno dei break (sempre o
all'inizio o in coda). E che prelude, tra una bordata e l'altra ai potenziali alleati che
non assecondano il suo disegno, Martinazzoli e Segni ("il Gattosardo...lo Schillaci
della politica che dopo avere giganteggiato ai mondiali ( i referendum) non ha più
segnato. Neanche a tressette" secondo Vittorio Feltri, "il Giornale",
22/1/94 ), alla dichiarazione ufficiale che il "nuovo miracolo italiano" è
ormai pronto sulla rampa di lancio.
"Da domani si fa sul serio. Alle 16.20 di ieri, appena finita la partita Milan -
Piacenza, dalla tribuna d'onore dello stadio Meazza Silvio Berlusconi annuncia di scendere
nel campo della contesa politica" ("la Repubblica" 24/1/94). Ed è
immediatamente lotta di tutti contro tutti: a destra, a sinistra e al centro. Fra
candidati mancati e non-candidati eccellenti che tuttavia rientrano sulla scena politica,
come l'ex presidente del Consiglio socialista Giuliano Amato, perché " L'alternanza
ha bisogno di mezzeali" ("la Repubblica" 5/2/94); fra candidati
eccellentissimi, come Berlusconi medesimo e il ministro delle Finanze uscente Luigi
Spaventa, che si contendono l'emblematico collegio Roma Uno. "Chi è Spaventa? -
chiede il presidente del Milan - Quante coppe dei campioni ha vinto?"
("L'Espresso" n. 11 del 18/3/94).
Il quesito politico-calcistico lascia senza parole, ma è disgraziatamente in linea con
"La Repubblica del calcio" che paventa la rivista "Micromega" (n. 1,
gennaio 94), ma che ormai, per arrivare ai nostri giorni, é pienamente agente. Anzi
recrudescente, se è vero che "squadra" e "autogol" sono diventate
parole chiave del linguaggio politico e che i leader di partito parlano tutti da
commissari tecnici. In consonanza peraltro con il mutuo compenetrarsi degli scranni di
Montecitorio con le tribune dell'Olimpico, della cronaca calcistica con quella politica,
del gossip da spogliatoio con l'indiscrezione parlamentare.
Al punto da non sapere più, in un sussulto da "par condicio", se gridando
"Forza Italia!" si fa il tifo per gli azzurri oppure propaganda politica. Fermo
restando che siamo stati il primo, e al momento unico, paese al mondo a essere riusciti a
trasformare un esortativo sportivo e un incitamento da tifosi in un movimento politico e
in una forza di governo.