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Paola Casella


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La coppa, scritto e diretto da Khyentse Norbu, con Jamyang Lodro, Orgyen Tobgyal, Neten Chokling

Se il calcio al cinema puo' diventare una metafora, ne La coppa, il film in lingua tibetana realizzato dal Lama buddista Khyentse Norbu, rappresenta il simbolo di una forza unificante globale che travalica i confini nazionali e supera divisioni religiose, politiche e ideologiche, senza per questo diventare una panacea, un veicolo mondiale di pace.

La coppa e' ambientato in un (vero) monastero buddista ai piedi dell'Himalaya (quello di Chokling), al cui interno vivono immersi nella ritualita' e nella tradizione un gruppo di esuli tibetani. Alla guida del monastero c'e' un nostalgico Lama che sogna un giorno di ritornare nella sua terra; sotto di lui, una specie di direttore didattico tanto severo e puntiglioso quanto saggio e profondamente tollerante. Poi ci sono i monaci, cinematograficamente indistinguibili nei loro costumi rosso e arancio, perfettamente omogenei nella loro volonta' di appartenere a un tutto comune fatto di movimenti fluidi e lenti, di invocazioni ipnotiche e ripetitive.

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Fra la massa conforme dei monaci spicca soltanto un gruppetto di giovanissimi, che prendono vita (cinematografica) come individui perchè sollecitati in questo senso da un piccolo Lama, il vero protagonista della storia, che ci riesce immediatamente simpatico perche' riconosciamo in lui l'archetipo del Gian Burrasca, cioe' della personalita' indipendente che all'interno di una struttura organizzata, anche la piu' benevola possibile, non puo' sopprimere l'impulso di asserire la propria individualita'. Nel caso del piccolo Lama, l'anarchia si esprime attraverso il grande amore per il calcio: il suo idolo e' Ronaldo (anche lui porta i capelli a zero), il suo gesto di ribellione consiste nello sgattaiolare fuori dal monastero per assistere alle partite dei mondiali sul piccolo schermo di un locale vicino.

In lui ritroviamo tutta una serie di piccoli irriducibili del grande schermo, animati da una passione incongruente con le proprie circostanze e inseriti in contesti adulti che tendono a reprimere i loro sogni: per restare nel cinema italiano, basta pensare al Salvatore di Nuovo Cinema Paradiso o ai due lustrascarpe di Sciuscia'. Il paragone fra La coppa e Sciuscia' e' inevitabile, sia perche' Norbu ha dichiarato pubblicamente di avere imparato ad amare il cinema guardando i film di Vittorio De Sica, sia perche' la trama de La coppa, nel punto in cui il piccolo monaco coinvolge l'intero monastero in una raccolta fondi per comprare un televisore (ovviamente per assistere alla finale dei mondiali), ricalca in pieno quella di Sciuscia' (la colletta per l'acquisto del cavallo bianco).

Ma il contesto de La coppa e' assai piu' ameno di quello neorealista, che aveva valenze socioeconomiche notevoli, mentre la favola buddista conserva toni bucolici (tanto che l'ultima scena sembra uscita da una stampa agreste orientale). Ci si potrebbe dilungare a proposito della componente zen del film di Norbu, evidente sia nella sostanziale positivita' della trama, che nella valenza rasserenante dei rituali buddisti riprodotti in tempo reale sullo schermo. In questo senso e' un crimine che il film sia stato doppiato, non solo perche' abbiamo perso l'occasione di ascoltare per la prima volta (e forse l'ultima) al cinema il suono della lingua tibetana, ma anche perche' la mimica facciale degli attori (tutti non professionisti, per la maggior parte veri monaci buddisti) lascia intendere che questa lingua abbia tempi molto piu' dilatati dei nostri, perfettamente coerenti con i ritmi di vita dei monaci. Il risultato e' straniante, come quello dei cartoni animati giapponesi, dove la bocca continua a restare aperta anche dopo che chi parla ha terminato dda un pezzo la sua frase.

Ma e' piu' interessante osservare come il regista Norbu, buddista butanese, abbia trattato il tema del calcio come elemento unificante evidenziandone anche il potenziale negativo. Il direttore del monastero descrive infatti la partita calcistica come "due gruppi che combattono per una palla", mettendo immediatamente l'accento sulla componente antagonistica, piu' che quella agonistica, del gioco, e il film non esita a sottolineare l'elemento "incendiario" della passione sportiva: al primo screzio legato alla visione di una partita, i ragazzotti locali fanno a botte con i giovani monaci buddisti, e questi, anche se goffamente, reagiscono in modo non propriamente zen.

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Il calcio e' descritto da Norbu come un simbolo fine millenario di globalizzazione, privo però di intrinseche connotazioni morali. Non a caso il paragone visivo piu' spesso ripetuto all'interno del film e' quello fra il calcio e la Coca Cola, che non viene qui demonizzata come simbolo del capitalismo, ma rappresentata come un'acritica presenza internazionale che puo' essere adattata all'etica locale (e alle esigenze pratiche piu' svariate, tant'e' che i monaci usano le lattine vuote per metterci le loro candele votive).

Non e' la prima volta che il calcio assume sul grande schermo significati metaforici: pensiamo a Fuga per la vittoria, dove un gruppo di prigionieri alleati combatteva contro i suoi carcerieri in cerca di un'occasione di fuga (calcio come veicolo di riscatto), o a My name is Joe di Ken Loach e Full Monty di Peter Cattaneo (calcio come uno strumento di evasione dallo squallore della realta' socioeconomica quotidiana). Nel cinema italiano (come nella realta' nazionale) il calcio occupa un posto di riguardo, sia come tema principale (dal Presidente del Borgorosso Football Club a Ultimo minuto, da Ultrà al recentissimo Tifosi, nei quali la critica sociale passa attraverso i sogni di gloria di un patron e le frustrazioni di un general manager, o la cialtroneria e la violenza dei supporter) che come scena clou di film di argomento vario: pensiamo alla visione collettiva di Italia-Germania 4-3 dell'omonimo film di Andrea Barzini e all'incontenibile fuoriuscita di orgoglio etnico dell'emigrato Nino Manfredi davanti a Germania-Italia in Pane e cioccolata, o alle partitelle dei film di Salvatores, prima fra tutte quella interetnica di Mediterraneo ("una faccia una razza").

Poi c'è il calcio smosgardbord di macchiette italiche assortite, dall'Abatantuono di Eccezzziunale... veramente al Buzzanca de L'arbitro, dal finto romanista Boldi di Fratelli d'Italia a Fantozzi in paradiso e poi Franco e Ciccio, Alvaro Vitali, Pippo Franco, DeSica (Christian, questa volta) in versione Vanzina.

Per lo spettatore italiano, la metafora calcistica assume particolare risonanza, anche emotiva; ma e' stato un film come La coppa, che racconta il calcio come minimo comun denominatore mondiale, a ottenere un riscontro globale, riscuotendo consensi e simpatia ai festival (da Monaco a Toronto a Cannes) e presso il pubblico di tutto il mondo. Non guasta che il film sia colorato da una dolcezza seducente che discende sul pubblico (avvolgendolo come miele, direbbe Guccini) direttamente dalla fiducia nella vita del suo regista e dalla amabilita' dei suoi interpreti, primo fra tutti il piccolo Gian Burrasca tibetano, per il quale veder sorridere un amico diventa alla fine piu' importante che assistere al goal della vittoria.

 

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