La coppa, scritto e diretto
da Khyentse Norbu, con Jamyang Lodro, Orgyen Tobgyal, Neten Chokling
Se il calcio al cinema puo' diventare una metafora, ne La coppa, il film in lingua
tibetana realizzato dal Lama buddista Khyentse Norbu, rappresenta il simbolo di una forza
unificante globale che travalica i confini nazionali e supera divisioni religiose,
politiche e ideologiche, senza per questo diventare una panacea, un veicolo mondiale di
pace.
La coppa e' ambientato in un (vero) monastero buddista ai piedi dell'Himalaya (quello
di Chokling), al cui interno vivono immersi nella ritualita' e nella tradizione un gruppo
di esuli tibetani. Alla guida del monastero c'e' un nostalgico Lama che sogna un giorno di
ritornare nella sua terra; sotto di lui, una specie di direttore didattico tanto severo e
puntiglioso quanto saggio e profondamente tollerante. Poi ci sono i monaci,
cinematograficamente indistinguibili nei loro costumi rosso e arancio, perfettamente
omogenei nella loro volonta' di appartenere a un tutto comune fatto di movimenti fluidi e
lenti, di invocazioni ipnotiche e ripetitive.

Fra la massa conforme dei monaci spicca soltanto un gruppetto di giovanissimi, che
prendono vita (cinematografica) come individui perchè sollecitati in questo senso da un
piccolo Lama, il vero protagonista della storia, che ci riesce immediatamente simpatico
perche' riconosciamo in lui l'archetipo del Gian Burrasca, cioe' della personalita'
indipendente che all'interno di una struttura organizzata, anche la piu' benevola
possibile, non puo' sopprimere l'impulso di asserire la propria individualita'. Nel caso
del piccolo Lama, l'anarchia si esprime attraverso il grande amore per il calcio: il suo
idolo e' Ronaldo (anche lui porta i capelli a zero), il suo gesto di ribellione consiste
nello sgattaiolare fuori dal monastero per assistere alle partite dei mondiali sul piccolo
schermo di un locale vicino.
In lui ritroviamo tutta una serie di piccoli irriducibili del grande schermo, animati
da una passione incongruente con le proprie circostanze e inseriti in contesti adulti che
tendono a reprimere i loro sogni: per restare nel cinema italiano, basta pensare al
Salvatore di Nuovo Cinema Paradiso o ai due lustrascarpe di Sciuscia'. Il paragone fra La
coppa e Sciuscia' e' inevitabile, sia perche' Norbu ha dichiarato pubblicamente di avere
imparato ad amare il cinema guardando i film di Vittorio De Sica, sia perche' la trama de
La coppa, nel punto in cui il piccolo monaco coinvolge l'intero monastero in una raccolta
fondi per comprare un televisore (ovviamente per assistere alla finale dei mondiali),
ricalca in pieno quella di Sciuscia' (la colletta per l'acquisto del cavallo bianco).
Ma il contesto de La coppa e' assai piu' ameno di quello neorealista, che aveva valenze
socioeconomiche notevoli, mentre la favola buddista conserva toni bucolici (tanto che
l'ultima scena sembra uscita da una stampa agreste orientale). Ci si potrebbe dilungare a
proposito della componente zen del film di Norbu, evidente sia nella sostanziale
positivita' della trama, che nella valenza rasserenante dei rituali buddisti riprodotti in
tempo reale sullo schermo. In questo senso e' un crimine che il film sia stato doppiato,
non solo perche' abbiamo perso l'occasione di ascoltare per la prima volta (e forse
l'ultima) al cinema il suono della lingua tibetana, ma anche perche' la mimica facciale
degli attori (tutti non professionisti, per la maggior parte veri monaci buddisti) lascia
intendere che questa lingua abbia tempi molto piu' dilatati dei nostri, perfettamente
coerenti con i ritmi di vita dei monaci. Il risultato e' straniante, come quello dei
cartoni animati giapponesi, dove la bocca continua a restare aperta anche dopo che chi
parla ha terminato dda un pezzo la sua frase.
Ma e' piu' interessante osservare come il regista Norbu, buddista butanese, abbia
trattato il tema del calcio come elemento unificante evidenziandone anche il potenziale
negativo. Il direttore del monastero descrive infatti la partita calcistica come "due
gruppi che combattono per una palla", mettendo immediatamente l'accento sulla
componente antagonistica, piu' che quella agonistica, del gioco, e il film non esita a
sottolineare l'elemento "incendiario" della passione sportiva: al primo screzio
legato alla visione di una partita, i ragazzotti locali fanno a botte con i giovani monaci
buddisti, e questi, anche se goffamente, reagiscono in modo non propriamente zen.

Il calcio e' descritto da Norbu come un simbolo fine millenario di globalizzazione,
privo però di intrinseche connotazioni morali. Non a caso il paragone visivo piu' spesso
ripetuto all'interno del film e' quello fra il calcio e la Coca Cola, che non viene qui
demonizzata come simbolo del capitalismo, ma rappresentata come un'acritica presenza
internazionale che puo' essere adattata all'etica locale (e alle esigenze pratiche piu'
svariate, tant'e' che i monaci usano le lattine vuote per metterci le loro candele
votive).
Non e' la prima volta che il calcio assume sul grande schermo significati metaforici:
pensiamo a Fuga per la vittoria, dove un gruppo di prigionieri alleati combatteva contro i
suoi carcerieri in cerca di un'occasione di fuga (calcio come veicolo di riscatto), o a My
name is Joe di Ken Loach e Full Monty di Peter Cattaneo (calcio come uno strumento di
evasione dallo squallore della realta' socioeconomica quotidiana). Nel cinema italiano
(come nella realta' nazionale) il calcio occupa un posto di riguardo, sia come tema
principale (dal Presidente del Borgorosso Football Club a Ultimo minuto, da Ultrà al
recentissimo Tifosi, nei quali la critica sociale passa attraverso i sogni di gloria di un
patron e le frustrazioni di un general manager, o la cialtroneria e la violenza dei
supporter) che come scena clou di film di argomento vario: pensiamo alla visione
collettiva di Italia-Germania 4-3 dell'omonimo film di Andrea Barzini e all'incontenibile
fuoriuscita di orgoglio etnico dell'emigrato Nino Manfredi davanti a Germania-Italia in
Pane e cioccolata, o alle partitelle dei film di Salvatores, prima fra tutte quella
interetnica di Mediterraneo ("una faccia una razza").
Poi c'è il calcio smosgardbord di macchiette italiche assortite, dall'Abatantuono di
Eccezzziunale... veramente al Buzzanca de L'arbitro, dal finto romanista Boldi di Fratelli
d'Italia a Fantozzi in paradiso e poi Franco e Ciccio, Alvaro Vitali, Pippo Franco, DeSica
(Christian, questa volta) in versione Vanzina.
Per lo spettatore italiano, la metafora calcistica assume particolare risonanza, anche
emotiva; ma e' stato un film come La coppa, che racconta il calcio come minimo comun
denominatore mondiale, a ottenere un riscontro globale, riscuotendo consensi e simpatia ai
festival (da Monaco a Toronto a Cannes) e presso il pubblico di tutto il mondo. Non guasta
che il film sia colorato da una dolcezza seducente che discende sul pubblico (avvolgendolo
come miele, direbbe Guccini) direttamente dalla fiducia nella vita del suo regista e dalla
amabilita' dei suoi interpreti, primo fra tutti il piccolo Gian Burrasca tibetano, per il
quale veder sorridere un amico diventa alla fine piu' importante che assistere al goal
della vittoria.