Pochi argomenti occupano più spazio del calcio
nei mass media. Ormai in televisione, a pagamento o in chiaro, le
partite sono un appuntamento quasi quotidiano, per non parlare delle
infinite trasmissioni di commento (processi, controcampi, goleade),
alcune di taglio artificiosamente sensazionalistico, altre più sanamente
ironiche e sdrammatizzanti. Ma anche la stampa non scherza: a parte
i giornali specificamente sportivi, ben tre nel nostro paese, tutti
i quotidiani dedicano al calcio pagine e pagine, non solo al lunedì,
con frequenti richiami in prima.
Eppure restano rari gli studi che trattano il fenomeno
dal punto di vista sociale e culturale. Si dibatte soprattutto sull'aspetto
drammatico della violenza, mentre assai meno si è riflettuto sui
motivi che inducono masse così vaste a riempire gli stadi o si è
cercato di esprimere sui giovani tifosi delle frange estreme, i
cosiddetti ultras, un giudizio meno stereotipato della rituale condanna
a base di epiteti come "cretini", "barbari"
e così via.
Tra le lodevoli eccezioni si possono citare i lavori
di Alessandro Dal Lago sui rituali del calcio ("Descrizione
di una battaglia" e "Regalateci un sogno"), un'interessante
ricerca Eurispes di respiro europeo realizzata da Valerio Marchi,
Antonio Roversi e Fabio Bruno ("Ultrà"), le riflessioni
di Giorgio Triani ("Mal di stadio"). Inoltre, su un piano
diverso, il libro di Nanni Balestrini "I furiosi", audace
e ben riuscito tentativo di dare forma letteraria, in presa diretta,
al linguaggio crudo e iperbolico delle curve.
Un altro contributo valido viene dall'etnologo francese
Christian Bromberger, con il volume "La partita di calcio",
appena tradotto in Italia dagli Editori Riuniti. Una ricerca che
ha come punto di osservazione privilegiato Marsiglia, la città francese
dove il football è più seguito, comparata con due realtà italiane
agli antipodi fra loro: la pirotecnica Napoli dell'era Maradona
e la ben più misurata Torino juventina di Michel Platini.
Nell'introduzione
(denominata ironicamente "Riscaldamento", come quello
effettuato dai giocatori prima di ogni match) l'autore colloca all'origine
della sua ricerca la "constatazione del paradossale scarto
esistente tra la futilità di un gioco e l'intensità delle passioni
che suscita". E nella conclusione (ribattezzata a sua volta
"Tempi supplementari") individua la ragione di tanto fervore
nella profondità simbolica del calcio, che a suo avviso "condensa,
in un genere ibrido e particolare, i valori fondamentali delle nostre
società".
Insomma, il football come metafora del vivere moderno,
in cui allo sforzo meticoloso di predisporre schemi e programmi,
con un'attenta divisione del lavoro, corrisponde l'imprevedibilità
delle situazioni e l'imponderabilità dei fattori che decidono un
incontro. Tanto che poi l'esito del match si presta a interpretazioni
e recriminazioni infinite.
Una partita di calcio, assai più che di qualsiasi
altro sport, può essere condizionata da un episodio casuale, magari
una zolla mal messa che fa incespicare il portiere. E anche le possibilità
che un giocatore determini il risultato con comportamenti fraudolenti,
segnando di mano o simulando di aver subito un fallo da rigore,
sono molto più elevate di quanto non accada nel basket, nel rugby
o nella pallavolo.
Come negli altri sport, "il merito è la pietra
angolare del successo", in sintonia con i principi dichiarati
della civiltà occidentale. Ma poi, analogamente a quanto avviene
nella vita reale, non sempre sul campo vince il più bravo: a volte
prevale il più fortunato o il più scaltro, o magari il più ostinato
e risoluto, quello che non molla mai fino al novantesimo.
E' appunto il carattere aleatorio del gioco che
permette agli spettatori di sentirsi protagonisti e alimenta il
loro impegno ad essere "il dodicesimo uomo in campo",
a spingere i propri beniamini verso la vittoria con un incitamento
intenso e costante. Il tifoso non è un semplice testimone, ma partecipa
direttamente al rito. "C'ero anch'io" è la sua orgogliosa
rivendicazione, quando si tratta di ricordare una vittoria storica,
ma ancora di più quando si rammentano i momenti più amari, le retrocessioni,
le trasferte in stadi remoti per incontrare, magari con esito sfavorevole,
avversari privi di prestigio.
Non c'è da stupirsi quindi se il calcio finisce
per assumere, a livello individuale e collettivo, significati che
vanno ben al di là dell'ambito sportivo per debordare in campo etnico,
religioso, politico. Gli esempi sono innumerevoli.

In Spagna il Barcellona incarna l'autonomismo catalano,
contrapposto al centralismo castigliano del Real Madrid. In Italia
e in Francia Napoli e Olympique Marsiglia rappresentano l'ansia
di riscatto del Sud arretrato sull'arroganza settentrionale. A Glasgow,
in Scozia, va in scena la sfida tra l'orgoglio protestante dei Rangers
e la grinta del Celtic, squadra dei cattolici e degli immigrati
di origine irlandese. E non dimentichiamo che i gravi incidenti
avvenuti in occasione di un match tra i croati della Dinamo Zabagria
e i serbi della Stella Rossa Belgrado furono la prima palese avvisaglia
della tragedia che stava per sconvolgere la Jugoslavia.
L'intreccio tra calcio e politica si manifesta
però anche nel cuore di ogni singolo supporter. Uno dei brani più
divertenti di "Fever Pitch", forse il più bel libro mai
scritto sul tifo (tradotto in Italia da Guanda con il titolo "Febbre
a 90'"), è quello in cui l'autore Nick Hornby rievoca il maggio
del 1979, quando la sua squadra, l'Arsenal, stava per affrontare
la finale di Coppa d'Inghilterra alla vigilia delle elezioni che
avrebbero visto l'avvento di Margaret Thatcher, da lui cordialmente
detestata.
Nonostante l'ostilità per la "lady di ferro",
l'autore ammette che avrebbe accettato, se glielo avessero proposto,
uno scambio tra vittoria dell'Arsenal a Wembley e successo conservatore
alle urne, anche perché non poteva immaginare che la Thatcher sarebbe
rimasta tanto tempo al potere. E poi aggiunge: "Avrei fatto
lo stesso, se l'avessi saputo? Undici anni di thatcherismo per una
Coppa d'Inghilterra? Naturalmente no. Non avrei accettato lo scambio
per meno di un'altra Doppietta" (cioè l'accoppiata di vittorie
in Coppa e in campionato). A titolo di cronaca, c'è da rilevare
che il sacrificio non è stato necessario: anzi l'Arsenal ha centrato
la Doppietta nella stagione 1997-98, l'anno dopo il ritorno dei
laburisti al governo.
Tornando a Bromberger, la sua analisi ha soprattutto
il pregio di sfatare molti luoghi comuni sul pubblico degli stadi.
Non si tratta, spiega, di masse indifferenziate in preda al delirio,
ma "di una folla strutturata che parla di ciò che la cementa
e la suddivide, e in cui lo scatenamento delle pulsioni è molto
spesso controllato".
Lungi dall'essere luoghi di anarchia assoluta,
le curve conoscono regole e gerarchie. Lungi dal professare un razzismo
cieco e brutale, i tifosi mettono quel codice simbolico, come quello
del maschilismo anti-gay, al servizio del loro spirito partigiano:
il campione di colore accolto con ululati e lanci di banane può
essere in seguito osannato dallo stesso stadio, se lascia la casacca
nemica per indossare i colori di casa. Lungi dall'essere frutto
dell'alienazione e dell'emarginazione giovanile, il fenomeno ultras
esprime una voglia di autonomia e protagonismo: non a caso prende
piede a partire dalla seconda metà degli anni '60, in coincidenza
con i movimenti della contestazione, dai quali spesso mutua alcuni
moduli espressivi.
Inoltre, nota Bromberger, proprio nei canti e negli
slogan delle curve più oltranziste affiorano a volte note parodistiche,
ironiche, burlesche, in una singolare "unione tra serietà dell'impegno
e coscienza interstiziale del ridicolo". La squadra del cuore
non si discute, si ama, ma proprio perché la sincerità della fede
non è in dubbio, ci si può permettere anche di riderci sopra.
Al termine della lettura, risulta convincente la
tesi di Bromberger secondo cui il calcio è tanto popolare perché
"ci mostra chi siamo": perché lo stadio funziona come
una sorta di specchio, che condensa e spettacolarizza "le identità
che condividiamo e che sogniamo, la competizione, la performance,
il ruolo della fortuna, dell'ingiustizia, dell'astuzia sul cammino
di una vita individuale e collettiva". In fondo è lo stesso
messaggio contenuto nella canzone di Luciano Ligabue "Una vita
da mediano".
Resta tuttavia un dubbio: può mantenere intatto
il suo fascino un football sempre più dipendente dagli interessi
economici e dagli sponsor, che privilegia nettamente il pubblico
televisivo rispetto al "popolo degli stadi"?
Ormai le novità si succedono a ritmi vorticosi:
quotazione in Borsa delle società più blasonate, cambi di squadra
frequentissimi da parte dei migliori fuoriclasse, calendari fitti
d'impegni in ogni periodo dell'anno, ricorso alle prove televisive,
aumento del numero degli arbitri, cambiamento delle regole per incrementare
le segnature.
Rispetto a questo "calcio globale", per
molti versi in via di assimilazione allo sport americano, il quadro
descritto nel libro di Bromberger risulta in ritardo, malgrado il
volume sia uscito in Francia solo quattro anni fa. Spiega come mai
ci siamo innamorati di questo sport, ma non ci aiuta a capire se
potremo rimanerlo.