Questo saggio è stato
pubblicato nel volume: Silvia Garagna, Maurizio Zuccotti e Carlo Alberto Redi (a cura di),
"Biologia della riproduzione. Tecnica ed etica", Studia Ghisleriana, Ibis, Pavia
Collegio Ghislieri.L'autore insegna presso la sezione di Storia della Medicina al
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia dell'Università di Roma "La
Sapienza".
Lastoricità della maggior parte delle analisi bioetiche e lemotività che
caratterizza le reazioni pubbliche di fronte agli sviluppi delle biotecnologie potrebbero
indurre a ritenere che le valutazioni morali, a livello dellopinione pubblica o
della comunità scientifica, e il tipo di percezione dei rischi associati a questi
avanzamenti si manifestino sempre in modo conflittuale.
In realtà, le posizioni di scienziati, bioeticisti e opinione pubblica rispetto allo
statuto morale e alle potenzialità delle tecniche volte alla modificazione
dellinformazione genetica, e quindi anche in relazione alla utilizzazione della
tecnica di sostituzione dei nuclei cellulari (clonazione) è cambiato nel tempo e
cambierà via via che saranno meglio definiti empiricamente gli ambiti delle applicazioni,
i rischi e che si avanzerà nella comprensione del modo attraverso cui le cellule
controllano lespressione dellinformazione genetica in relazione al contesto
spazio-temporale.
Scopo di questo lavoro è ricostruire schematicamente levoluzione storica degli
atteggiamenti nei riguardi della clonazione umana, dal momento in cui questa ha assunto un
significato concreto e prescindendo ovviamente dalluniverso dellimmaginazione
letteraria o dalle occasionali fantasie di alcuni eugenisti di inizio secolo.
Mostrando quali sono stati i fattori che hanno giocato nel condizionare tali
atteggiamenti, si vuole suggerire a scienziati e intellettuali in genere, ma soprattutto
al mondo politico che si trova ad affrontare le emergenze bioetiche dovendo mediare tra le
istanze della ricerca e le ansiose aspettative sociali, una maggiore elasticità nei
giudizi e negli interventi legislativi. Nonché, si vuole richiamare lesigenza di
promuovere una massiccia campagna di alfabetizzazione scientifica rivolta soprattutto alle
giovani generazioni perché si sviluppi a livello individuale e collettivo una
consapevolezza più concreta delle opportunità e dei limiti di utilizzazione delle nuove
tecnologie biomediche nella ricerca e nella pratica terapeutica.
Se si guarda retrospettivamente a come è stata percepita dalla comunità scientifica e
a livello pubblico lipotesi di utilizzare come tecnica riproduttiva il trasferimento
del nucleo cellulare, si può constatare che in un primo momento la prospettiva venne
giudicata in termini ottimistici.
Lannuncio da parte di John Gurdon, nel 1962, della clonazione di girini mediante
trasferimento dei nuclei di cellule intestinali, esattamente dieci anni dopo il primo
trasferimento di nuclei di blastomeri da parte di Robert Briggs e Tom King, determinò
solo poche prese di posizione pubbliche da parte di autorevoli scienziati, come J.B.S.
Haldane e Joshua Leberberg, in favore di una utilizzazione di questa tecnica in vista di
un miglioramento della specie umana. Haldane e Lederberg difesero la legittimità di
utilizzare le nuove conoscenze biomolecolari e le tecniche per il controllo della
riproduzione che si stavano sviluppando nel contesto di un famoso convegno organizzato
dalla Ciba Foundation nel 1963, e che vide sostanzialmente il rilancio, anche se con
diversi distinguo rispetto al passato, delle concezioni eugenetiche.
Va ricordato che, nel corso degli anni Sessanta, erano soprattutto gli stessi
protagonisti della ricerca biomedica a richiamare lattenzione dellopinione
pubblica sul fatto che le nuove scoperte e gli avanzamenti tecnici stavano creando
possibilità di intervento che entravano in conflitto con i valori tradizionali. La
riflessione etica sulle scienze biomediche non era ancora caduta nelle mani di filosofi,
teologi e giuristi, per cui gli stimoli che venivano dal mondo scientifico erano, sulla
scorta delle tragiche esperienze prodotte dalleugenetica, di promuovere dei valori
morali in grado di indirizzare lutilizzazione delle nuove conoscenze e tecniche per
un miglioramento della qualità della vita dellumanità nel suo insieme. Questo era,
per esempio, anche laccezione semantica con cui fu coniato da Van Reasselaer Potter
il termine "bioetica" nel 1970.

Agli inizi degli anni Settanta emergeva e si affermava negli Stati Uniti, a seguito
della scoperta di gravi trasgressioni ai principi fondamentali delletica medica e in
particolare al principio enunciato nel codice di Norimberga e ribadito nella Dichiarazione
di Helsinki che il consenso esplicito era richiesto per la sperimentazione umana, un nuovo
interesse per lapplicazione delle dottrine etiche tradizionali ai problemi della
ricerca e della pratica biomediche.
Diversamente dalla posizione degli scienziati che, come Lederberg, Monod, Haldane e lo
stesso Potter, suggerivano anche una revisione dei valori morali tradizionali alla luce
delle nuove conoscenze biologiche, la bioetica assumeva che i valori individuali e
collettivi, primo fra tutti quello che impone il rispetto dellautonomia della
persona, dovessero comunque prevalere su qualsiasi istanza di ricerca e di intervento
terapeutico.
Tornando alla clonazione, questa venne identificata nel 1971-72 da William Gaylin,
fondatore insieme a Daniel Callahan del primo istituto per lo studio dei problemi
bioetici, lo Hasting Center, come uno dei temi emergenti su cui lavorare. Anche il
filosofo cattolico Paul Ramsey, uno dei primi a riflettere in una prospettiva teologica
sugli sviluppi delle nuove biotecnologie, scrisse in quegli anni sullargomento nel
contesto di due interventi dedicati alle prospettive della riproduzione assistita,
definendo la clonazione il punto di partenza lungo una china scivolosa che avrebbe
condotto al Mondo Nuovo descritto da Aldous Huxley.
In realtà, probabilmente, ad amplificare le perplessità morali circa i possibili
abusi delle nuove conoscenze e tecniche biogenetiche e riproduttive furono altri
protagonisti della ricerca biomedica. Tra questi, James Watson, scopritore insieme a
Francis Crick della struttura a doppia elica del Dna. Nel 1971 nel 1972 Watson pubblicò
alcuni articolo su riviste di larga diffusione in cui interpretava la comunicazione da
parte dei ricercatori britannici Patrick Steptoe e Robert Edwards dei primi risultati che
mostravano la possibilità di effettuare la fecondazione in vitro, come una
premessa alla possibilità di sperimentare su larga scala la clonazione umana e una sfida
morale per la società, che doveva predisporre adeguati presidi legislativi per garantire
un controllo democratico su queste tecniche.
Una posizione ancora più critica sulla ipotesi di utilizzare la clonazione come
tecnica riproduttiva fu sostenuta dal famoso patologo Lewis Thomas nel 1974 su The New
England Journal of Medicine. Benché altri, come Gunther Stent, provassero a
rilanciare una prospettiva ottimistica analoga a quella sostenuta da Lederberg e Haldane,
ormai la tendenza era di considerare la clonazione, prima di tutto da parte di quegli
scienziati che ne parlavano pubblicamente, come unaberrazione.
E qui il caso di ricordare che alcuni di questi furono protagonisti anche del
dibattito sul Dna ricombinante, che portò alla moratoria del 1974 e poi alla conferenza
di Asilomar del 1975, dove gli stessi ricercatori dovettero riconoscere che prospettare
alla società dei rischi senza avere dei termini di riferimento per valutarne
lentità voleva dire scatenare risposte emotive che creavano nella società un clima
pesantemente contrario allo sviluppo delle ricerca di genetica molecolare.
Va registrato il fatto che dalla metà degli anni Settanta, il termine clonazione viene
applicato anche alla clonazione di geni e sequenze nucleotidiche nellambito della
tecnologia del Dna ricombinante, e una certa confusione tra i non addetti ai lavori tra i
due tipi di clonazione, almeno in Italia, si è mantenuta sino al caso Dolly,
se è vero che il Ministro della Sanità rischiò di vietare con la prima ordinanza ogni
tecnica di clonazione (incluso il Dna ricombinante).
Comunque, a scatenare il panico non fu tanto qualche tentato abuso, quanto il resoconto
letterario di una alquanto improbabile avvenuta clonazione. Vale a dire la pubblicazione
nel 1976 del libro di David M. Rorvik, In His Image: The Cloning of Man, in cui si
raccontava, facendo credere che fosse realmente accaduto, linverosimile storia di un
magnate che si era fatto clonare.
Talmente preoccupante appariva al mondo scientifico e a quello politico-culturale la
prospettiva di una strumentalizzazione della clonazione, e talmente questi problemi erano
carichi di emotività, che probabilmente la conclusione a cui si arrivò agli inizi degli
anni Ottanta, con la dichiarazione di unimpossibilità tecnica di clonare i
mammiferi, fu influenzata anche dalle aspettative sociali.
La conclusione di unimpossibilità tecnica fu certamente il risultato di ricerche
empiriche, nella fattispecie quelle che cercarono di riprodurre i risultati dichiarati dal
biologo Karl Illmensee, il quale aveva annunciato nel 1981 di essere riuscito a clonare
dei topi. Nessuno riuscì a riprodurre quelle esperienze, ed Illmensee fu sottoposto a un
procedimento dinchiesta che gettò forti ombre sulla sua correttezza scientifica.
Davor Solter e James McGrath enunciarono quindi quello che fino alla nascita di Dolly
sarebbe stato considerato quasi un dogma della biologia della riproduzione, cioè che la
clonazione dei mammiferi era da ritenersi biologicamente impossibile.
Non è questa la sede per entrare nei presupposti concettuali della biologia dello
sviluppo di quegli anni, che indussero a sostenere tale posizione, né si può ritenere
che a tale conclusione gli scienziati siano stati indotti dalle ansie suscitate dal libro
di Rorvik.
E nondimeno da notare che questa stessa conclusione emergeva dalle audizioni
fatte nel 1978 dal Sottocomitato sulla sanità e lambiente, del Comitato
interstatale e estero della Camera dei rappresentati, dove Robert Briggs e altri
scienziati dichiararono che la clonazione di mammiferi adulti era tecnicamente
impossibile. Ancor più interessante è poi il fatto che, ben due anni prima
dellarticolo di Solter e McGrath, nel Rapporto Splicing life, della
Commissione istituita dal Presidente degli Stati Uniti, pubblicato nel 1982 veniva detto
che "una tecnologia capace di clonare un essere umano non esiste e non esisterà
mai".
Gli anni Ottanta registravano un assestamento del punto di vista per cui la clonazione
umana rappresentava la massima espressione di manipolazione genetica. Questa posizione era
rappresentata abbastanza efficacemente dal filosofo Hans Jonas. Questi, che nel 1985
collocava "la clonazione" tra i "metodi futuribili" (laltro era
l"architettura del Dna") per le strategie di tipo "eugenetico",
definendola appunto "la più dispotica e nel fine allo stesso tempo la più
schiavistica forma di manipolazione genetica".
Passando in rassegna le "ragioni a favore della clonazione", prese a prestito
da Leon Kass, Jonas le sottopone a una "critica esistenziale" che enfatizza
"il diritto a non sapere", nel senso che un clone sarebbe "defraudato in
anticipo della libertà, che può prosperare solo sotto la protezione del non
sapere". In altri termini, lidea di fondo è che lidentità del programma
genetico tra clone e individuo clonato e la non contemporaneità dello sviluppo, che
caratterizza invece i veri cloni, cioè i gemelli, minerebbe "il diritto di ogni vita
umana a trovare la propria strada e a essere una sorpresa per se stessa".
Vi è unintrinseca debolezza in questo argomento, al di là del fatto che
attribuisce paradossalmente un peso così importante alla determinazione genetica e assume
una sorta di univocità delle interazioni tra eredità e ambiente, per cui rappresenta una
intrisenca contraddizione rispetto allorientamento epistemologico di tipo olistico a
cui lo stesso Jonas aderisce.
In altri termini, se lorganismo come un tutto non è riducibile alla
determinazione delle sue parti, allora la libertà e lincertezza del futuro è
comunque garantita da quel di più che definisce il tutto e non dovrebbe essere ricondotta
allinformazione genetica ovvero alla sommatoria dei geni. Peraltro, ne deriva
logicamente che esisterebbero spazi diversi di libertà che dipenderebbero dalla quantità
di tempo o di esperienza vissute dallindividuo che viene replicato. Per esempio, non
dovrebbe avere alcuna rilevanza in relazione alla tecnica di embryo splitting, che
in pratica non fa altro che riprodurre un fenomeno naturale, cioè creare dei gemelli.
Tornando allevoluzione delle reazioni nei riguardi della clonazione, va
registrato il fatto che linvenzione della tecnica di embryo splitting,
annunciata il 24 ottobre 1993, suscitò un interesse per i risvolti etici soprattutto tra
gli addetti ai lavori, come si può evincere dal fatto che la maggior parte dei commenti
che mettevano tale tecnica in relazione con il problema della clonazione umana comparve su
riviste di bioetica.
Nella riflessione del National Advisory Board on Ethics in Reproduction, la nuova
tecnica preludeva necessariamente, data lormai facile incontro tra desiderio di
maternità, zelo scientifico e interessi economici, alla produzione di cloni di embrioni
senza alcuna preoccupazione per i rivolti etici. Peraltro, lesperimento procurò
qualche guaio a Jerry Hall e Robert Stillman, i ricercatori della George Washington
University che lo realizzarono, in quanto essi condussero la ricerca senza
lapprovazione dellIstitutional Review Board dellUniversità e difesero
la loro ricerca sostenendo che non poneva problemi particolari etici in quanto avevano
utilizzato embrioni prodotti dalla fecondazione con due spermatozoi che quindi non si
sarebbero sviluppati per più di qualche giorno.
In quel contesto si registrarono tuttavia anche le prime riflessioni che difendevano
apertamente la clonazione, sottoponendo a stringente critica alcuni dei più classici
argomenti etico-filosofici contro la clonazione, come per esempio quelli del diritto
allidentità genetica e allincertezza del futuro. In pratica, alcuni autori,
richiamandosi esplicitamente al caso dei gemelli monozigoti, che sono geneticamente
identici, sostenevano che non esiste alcun diritto allidentità, e che lunico
criterio di valutazione etica della clonazione è quello che non deve essere dannosa per
chi venisse al mondo attraverso questa tecnica.
Sta di fatto che, agli inizi degli anni Novanta, la clonazione aveva smesso di essere
un problema bioetico emergente, e non era sentito, a parte luso che ne aveva fatto
Jonas, come la minaccia più prossima a cui guardare. La bioetica si stava peraltro
indirizzando soprattutto ai problemi di equità in medicina, e il Progetto Genoma Umano
catalizzava linteresse della società. Peraltro, quasi nessuno si era accorto che,
nel 1986, il dogma della impossibilità di clonare i mammiferi era parzialmente crollato,
in quanto fu dimostrata da Steed Willadsen la possibilità di clonare agnelli a partire
dai nuclei di cellule embrionali precoci.
Nel frattempo diversi paesi si dotavano di una legislazione sulla riproduzione
assistita, che vincolava rigidamente la sperimentazione di nuove tecniche di biologia
cellulare, vietando esplicitamente la clonazione, ma assumendo una diverso atteggiamento
nei riguardi della sperimentazione sugli embrioni.
Due tipi di legislazioni esemplari, entrate in vigore, rispettivamente nel 1991 e nel
1990, erano quella promulgata in Gran Bretagna, che consentiva la sperimentazione
sullembrione fino al 14° giorno, e quella della Repubblica Federale Tedesca, che
invece vietava qualsiasi sperimentazione sullembrione. Sui presupposti e sulle
motivazioni allorigine delle diverse scelte legislative messe in atto nei differenti
paesi si potrebbero svolgere varie riflessioni, così come sul fatto che in Italia non si
sia sinora arrivati a una legislazione degna di questo nome. Ma non è questa la sede per
affrontare questo livello di analisi.
Se lembryo splitting e le tecniche che rendevano possibile la clonazione
mediante trasferimento di nuclei cellulari da cellule embrionali o fetali non avevano un
particolare impatto sullimmaginario di giornalisti, opinion makers e personalità
investite di ruoli pubblici, una vera bagarre scoppia quando il mondo viene a sapere che
un animale abbastanza complesso, quale è una pecora, era stato davvero clonato a partire
dallinformazione nucleare di una cellula somatica. Va detto che anche le modalità
comunicative hanno fatto sì che lesperimento del gruppo del Roslin Institute avesse
un simile impatto.
Si è così assistito nel corso degli ultimi due anni e mezzo a un vero e proprio
diluvio universale di dichiarazioni, atti legislativi, interventi, saggi specialistici,
trasmissioni televisive e radiofoniche, libri, pagine web di propaganda o dedicate ai
diversi risvolti, scientifici ed etico-sociali, della nuova tecnica riproduttiva. Cercando
di trovare un senso in questa alluvione, si può dire che a livello di opinione pubblica
la reazione è stata in generale negativa, nel senso che lenfasi dei media si è
fondamentalmente concentrata sui possibili abusi, ricalcando sostanzialmente gli scenari
terrificanti peraltro già immaginati dalla letteratura.
Nellambito della comunità scientifica e bioetica, nonché a livello
dellinformazione scientifica, dopo le prime risposte schierate sui fronti opposti di
un sterile confronto tra chi era favorevole o contrario, o improntate allo scetticismo,
sono maturate quasi esclusivamente nel mondo anglosassone riflessioni più articolate, che
sottolineavano il carattere irrazionale delle reazioni immediate.

In questultimo senso va letta per esempio la "Dichiarazione in difesa della
clonazione e dellintegrità della ricerca scientifica" sottoscritta da un
fondamentalista laico come Richard Dawkins, ma anche da Francis Crick, Willard Quine,
Edward O. Wilson, Isaiah Berlin e Adolf Grunbaum. Tra le reazioni considerate poco
opportune in testa vi era quella del Presidente degli Stati Uniti, Clinton, contro la
clonazione, che appariva inopportuna data linfluenza del personaggio.
Intanto, mentre in Italia alle dichiarazione allarmistiche seguì immediatamente
unordinanza del Ministero della Sanità che vietava la clonazione animale e umana,
lobiettivo diventava quello di capire se gli sviluppi della tecnologia del
trasferimento del nucleo cellulare poteva trovare applicazioni non contrarie al senso
morale.
Lo stesso documento prodotto dalla National Bioethics Advisory Commission, nei mesi
immediatamente successivi lannuncio della nascita di Dolly, suggeriva di vietare la
clonazione umana, ma solo per cinque anni e solo da cellule somatiche non fetali, nel
senso che se la ricerca su animali avesse dimostrato che la tecnica poteva essere
applicata in modo sicuro, si sarebbe dovuto rivedere la legge per considerare eventuali
situazioni in cui avrebbe garantito a una coppia il diritto naturale a riprodursi.
A seguito della comparsa nel 1998 di due studi che dimostravano la possibilità di
crescere in vitro cellule staminali di origine embrionale, diversi documenti sono
stati prodotti da vari comitati consultivi, per conto di governi e accademie scientifiche,
in cui lattenzione viene richiamata sulla clonazione terapeutica, quale vera
frontiera e prospettiva del trasferimento del nucleo cellulare. Nel senso che si è
prodotta quasi una sorta di consenso nella comunità scientifica sul fatto che la
clonazione riproduttiva debba essere vietata in quanto la tecnologia è ancora imperfetta,
e che vada invece consentita la sperimentazione e lutilizzazione delle cellule
embrionali totipotenti per sviluppare linee di cellule staminali clonali da far crescere
come tessuti differenziati per scopi terapeutici e di ricerca. In questa prospettiva,
diversi paesi stanno valutando come modificare la legislazione in materia di riproduzione
assistita per consentire la sperimentazione della clonazione terapeutica.
Ma quale è latteggiamento dellopinione pubblica nei confronti di questi
sviluppi? Le uniche indicazioni di natura empirica abbastanza articolate sono scaturite da
due inchieste effettuate in Gran Bretagna nel 1998.
Dopo lannuncio della clonazione di Dolly, il Ministro della Sanità britannico
chiedeva alla Human Genetic Advisory Commission (HGAC) e alla Human Fertilization and
Embryiology Authority (HFEA) una valutazione sulla legislazione in corso per capire se era
ancora adeguata. Come già ricordato, la legge votata dal Parlamento inglese nel 1991
(Human Fertilization and Embryology Act) regolamenta la procreazione assistita,
autorizzando la ricerca sugli embrioni umani fino a 14 giorni e proibendo qualsiasi
tecnica di clonazione (la legge istituiva anche la HFEA). Le due commissioni decidevano di
lanciare una consultazione e nel gennaio 1998 inviavano 1.000 copie di un consultion
paper che includeva un questionario a persone ed enti rappresentativi dei diversi
ambiti della società. Alla fine di aprile del 1998 le commissioni avevano ricevuto 194
risposte al questionario, di cui il 40 per cento da parte di soggetti individuali.
Le domande più rilevanti riguardavano la validità del limite di 14 giorni per la
sperimentazione sugli embrioni, e la legittimità di utilizzare la nuova tecnica, una
volta che si fosse dimostrata sicura nel contesto della fecondazione assistita, nonché di
sviluppare la sostituzione del nucleo cellulare per scopi terapeutici. Sul limite dei 14
giorni solo il 23% rispose che era sbagliato in assoluto sperimentare su embrioni, mentre
un 24% riteneva che il limite fosse arbitrario e andasse esteso.
Il documento introduceva quindi il concetto di "clonazione terapeutica", che
veniva criticato per luso del termine "clonazione", in quanto ormai
associato nellimmaginario agli scenari da Mondo nuovo. In tal senso, nel
rapporto sui risultati della consultazione veniva proposta lespressione
"therapeutic use of cell nucleus replacement", dove "cell nucleus
replacement" (CNR) diventava la nuova definizione tecnica e asettica della
clonazione.
Tra le risposte che giunsero alle due commissioni, una era il risultato di uno studio
di tipo qualitativo finanziato dal Wellcome Trust e condotto con gruppi di discussione e
interviste approfondite a partire dalle domande contenute nel consultation paper.
Ai gruppi, selezionati con le tecniche di campionamento per i sondaggi di mercato,
venivano presentate le domande, e successivamente venivano informati da esperti sulla
natura delle tecniche e sulle loro potenzialità. Dopo qualche settimana venivano
somministrate le stesse domande e registrato il tipo di atteggiamento
Lo studio non contiene informazioni di tipo statistico, ma è rappresentativo del
processo di elaborazione del problema a livello di figure sociali non competenti.
Dallindagine emerge che tutti erano terrorizzati dalle implicazioni della
tecnologia, e rifiutavano la clonazione per i possibili abusi.
Emergeva inoltre, da interviste con persone che erano considerate per esempio dai
bioeticisti che avevano analizzato le applicazioni della clonazione come potenziali
utilizzatori della clonazione per scopi riproduttivi, come le coppie omosessuali, che
queste non pensavano minimamente a una tale possibilità. Le informazioni scientifiche non
modificavano la visione delle cose. Anzi, in relazione allatteggiamento verso la
clonazione terapeutica, i gruppi inizialmente valutarono positivamente le possibili
applicazioni mediche, ma a seguito delle informazioni tecnico-scientifiche cambiarono
opinione in quanto la tecnica si prestava comunque ad abusi.
Alcuni partecipati si rendevano anche conto che era la scarsa familiarità con la nuova
tecnica a renderla spaventosa, facendo lesempio della risposta allintroduzione
della fecondazione in vitro. Quello che infine emergeva come dato particolarmente
rilevante era la assoluta sfiducia nei meccanismi di regolamentazione della ricerca e
lidea che gli scienziati fossero mossi da assoluto cinismo e non comunicassero
effettivamente al pubblico quello che facevano nei loro laboratori.
Sia dallo studio sponsorizzato dal Wellcome Trust, sia dalle risposte al questionario
spedito dalle due commissioni emergeva una domanda di alfabetizzazione scientifica. Nel
senso che tutti gli intervistati ritenevano che fosse necessario incrementare
linformazione e la formazione scientifica in modo che i cittadini siano in grado di
comprendere criticamente e di decidere consapevolmente. Dallo studio del Wellcome Trust
emergeva comunque che la paura fondamentale rimaneva quella che lo sviluppo delle nuove
tecniche consentisse la riproduzione artificiale della vita umana.
In un certo senso questi risultati corrispondono a quelli dellEurobarometer
survey, da cui si evinceva che latteggiamento verso le principali applicazioni
della biologia molecolare dipende principalmente da considerazioni sullutilità e la
moralità, assai meno dalla percezione dei rischi, e che cè una crescente sfiducia
nelle capacità delle istituzioni nazionali di regolamentare gli sviluppi applicativi
delle biotecnologie.
Un risultato interessante che emergeva da quellinchiesta era che i paesi europei
più favorevoli alle applicazioni delle biotecnologie, anche per quanto riguarda la
costruzione di animali transgenici e di prodotti agricoli geneticamente modificati, erano
quelli dove vi è un più basso grado di conoscenze. Mentre nei paesi dove cè un
maggior livello di conoscenze e un più vivace dibattito pubblico vi è maggior
opposizione alla costruzione di "nuove" forme di vita.
Anche se il tipo di conoscenza rilevato dallEurobarometer survey si
proponeva di "misurare" non la comprensione dei concetti fondamentali della
biologia, ma il grado di aspettative "minacciose" degli intervistati, comunque
nel conflitto tra valori morali, che hanno la funzione di ridurre lansia per
pericoli imprevedibili, e potenziali utilità delle biotecnologie continuano a prevalere
le riserve nei riguardi di "tecnologie che vengono comunemente percepite come
innaturali".
Volendo provare a tirare qualche conclusione, non è probabilmente improprio
confrontare, come peraltro è stato già fatto, la reazione pubblica alla prospettiva
della clonazione umana, così fortemente caratterizzata in senso emotivo ed esasperato,
con situazioni analoghe che si sono presentate o che si presentano nel contesto degli
sviluppi conoscitivi e applicativi della biomedicina, come per esempio la terapia genica,
la fecondazione in vitro, la diagnosi prenatale, lutilizzazione della
tecnologia del Dna ricombinante, gli xenotrapianti.
Alcune di queste prospettive sono in corso di elaborazione, mentre levoluzione
delle valutazioni morali e della percezione scientifica e pubblica nei riguardi della
tecnologia del Dna ricombinante o della fecondazione in vitro, ci dicono che le
prime reazioni nei confronti di una nuova biotecnologia sono condizionate dalla novità e
da prospettive di applicazione spesso del tutto inverosimili, rispetto alla concreta
definizione delle opportunità e dei limiti della tecnologia in esame. E fuori
discussione che ci vogliono delle regole, ma si dovrebbe comunque evitare qualsiasi
legislazione in materia di biotecnologie che consideri la situazione attuale e i problemi
che la caratterizzano come definitivi. E soprattutto tali da incorporare paure che sono in
larga parte infondate, ovvero che si alimentano di improbabili scenari catastrofici e di
una manipolazione ideologica delle informazioni scientifiche.