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I turpi figli di Schnitzler

Alberto Arbasino


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Il pomposissimo e pompatissimo film Eyes wide shut appare così velleitario e soporifero e vuoto perché non tenta mai di scoprire un linguaggio o stile appropriato alle situazioni surreali-oniriche ormai imprescindibili da Kafka: le puttanelle in fondo agli uffici sono già tutte nel Processo, mentre lo Scorsese-Village e il Natale nella Grande Mela, appartengono ai sottoprodotti della telenovela Déjà Vu. La solenne lentezza dei dialoghi insulsi già parrebbe intollerabile fra un Prometeo di Eschilo e una Mirra di Alfieri. Recitati fra un profilo di tucano e una faccetta meno espressiva del suo culo, e con un birignao da parodia, la cosa non può stare in piedi Anche perché le morali ("ringraziamo le prove del destino" e "qui bisognerà scopare") sono poi la saggezza della nonna: "facciamo un voto a Padre Pio" e "un purgantino o un clisterino risolvono tutto, purché sia salvo il sacramento del Matrimonio". (E infatti Almodòvar risulta molto più bravo nella direzione delle attrici come nel sesso far out).

Nell'orgia di Villa Sade, i più antichi riconoscono il più tradizionale Wagner a Bayreuth: simmetrie di ammantellati compunti intorno al Monte di Venere con sirene e naiadi nel Tannhäuser, porcellonerie di Fanciulla-Fiori col Mago Klingsor in déco moresco nel Parsifal. E anche mille storiche regie di Margherita Wallmann alla Scala: dal Simon Boccanegra ai Due Foscari alla Turandot, con la caratteristica serva grulla che dona la vita per amore di un principotto tontolone. Noi spettatori politicamenteimpegnati vogliamo invece sapere se quell'orgia è di sinistra o di destra. A beneficio dei repubblicani o dei democratici? Con wasp, ebrei, mafiosi, multietnici? C'è almeno la Lewinsky?

Così, tornando mogi al racconto- base di Arthur Schnitzler (Doppio sogno, Adelphi, pagg. 132, lire 12.000) si riconosce subito quel tipico fenomeno che i vecchi pensatori viennesi sull'Arte definivano la Persistenza degli Archetipi. L'Ostinazione dei Topoi, la Tenacia del luogo Comune, la Longevità del Cliché e del Poncif."Maritino e mogliettina piccolo-borghesi e lievemente birichini si lasciano tentare dauna scappatella: parallela, speculare, simmetrica! (Come in un grafico da Teoria del Racconto). Rasentano, nella cosiddetta "sbandata", il piano inclinato della frivola civetteria... Lì lì sul punto di commettere una leggerezza... Ma dove siamo, signora mia? Ma mi faccia il piacere, dottore! Facciamo un minimo di mente locale, e la morale sarà: scappatella rientrata nell'angolo-cottura, benedetta verità sul divano-letto! Ti conosco, mascherina! Il maritino è un'assicurazione sulle rate dell'appartamento, e la mogliettina vale più di dieci cocottes!".

La mia generazione si è già divertita come una pazza su questi spassosi corsi e ricorsi di topoi. Già negli anni Quaranta la narrativa di seduzione ungherese, presentata da Bompiani e Corbaccio e Baldini & Castoldi, accarezzava l'immaginario delle signore, degli ufficiali, dei giovani. E la "commediola ungherese" trionfava nel cinema dei "telefoni bianchi", perché nei primi anni di guerra tutte le frivolezze e leggerezze di costume e di intreccio - benché smaccatamente parioline - andavano ambientate a Budapest. Dove la brillante e ammiccante Elsa Merlini - attrice triestina e dunque mitteleuropea -appariva spesso tentata da tipici seduttori ungheresi come Amedeo Nazzari o Nerio Bernardi (soprattutto dietro piazza Ungheria, con Maraschini di Zara), ma presto rientrava presso Renato Cialente, con la regìa per lo più di Camillo Mastrocinque.

E noi piccini irriverenti scoppiavamo a ridere in platea, riconoscendo in quei salottini budapestini i tipici pacchetti delle sigarette fasciste e le bottiglie dei whisky bolognesi e dei cognac autarchici. Ora, il racconto di Schnitzler è degli anni Venti, e dunque rivive nella Vienna sconfitta e impoverita del dopoguerra - come sogno, semplice o doppio o "a tortiglione" - il mito della Vienna scatenata e forsennata di mezzo secolo prima. Una capitale straripante di soldi e speculazioni e bancarotte e fortune immediate o sperperate, con folle di avventurieri da tutta l'Europa, pletore di spropositati intrighi, e un proliferare di perversioni vivacissime dai castelli dei granduchi agli appartamentini col cesso sul ballatoio.

La mirabile gigantesca mostra storica "Sogno e realtà 1870-1930", a Vienna nel 1985, illustrava che negli anni 1873-1874 (quindi molto prima di Klimt e della Secessione), fra crisi di Borsa ed epidemie di colera e trattati con lo Zar e il Kaiser e aperture di tramvie e acquedotti e policlinici e del Sacher Hotel, in pochi mesi nascono Schönberg e Hofmannsthal e Karl Kraus, lavorano Brahms e Bruckner e Mahler, arrivano Adelina Patti e il Sigfrido e la Carmen e Verdi col Requiem, ma soprattutto si rappresenta il Pipistrello di Johann Strauss, in cui tutta la città immediatamente e per sempre si identifica (malgrado il crac finanziario e tutte le successive batoste belliche).Quando Carlos Kleiber soleva dirigere il Pipistrello a Capodanno e a Carnevale, l'immedesimazione dionisiaca si palesava in tutto il teatro di spettatori già in abito da sera e in maschera e in subbuglio per i pranzi e i veglioni subito dopo, molto simili a quelli in corso sul palco girevole, con tutti i cantanti e i cori e i corpi di ballo in folle movimento.

E nell'operetta è poi un tipico ballo di demi-monde: come quello dei "fiaccherai" nell'Arabella di Hofmannsthal e Richard Strauss. Con le chances e le combinazioni e gli equivoci di un travestimento generale tutt'altro che "esclusivo" o chic. Anzi, siamo a livello di sgallettate e stracciacule. Il padrone di casa, un principe Orlofsky (mezzosoprano in pantaloni) apre le porte agli smandrappati: e quando si presenta una cameriera come "artista" era indimenticabile il "Künstlerin???" di Brigitte Fassbaender che aveva mangiato non una ma cento foglie.Però, malgrado la numerosa popolazione di Vienna capitale dell'Impero, il maritino in vena di scappatelle in chi incappainvaghendosi perdutamente? Ma proprio sempre nella sua mogliettina, anche lei in vena di evasioni, e non per nulla travestita da "contessa ungherese", e con quell'arma di seduzione laggiù che è la czarda magiara.

Così tutto rientra nell'ordine, come nei teatrini crepuscolari dove non è vero che l'erba del vicino è più verde. Al contrario, il fiore sotto gli occhi è più profumato degli altri. E non sai che tesoruccio hai lì! La stessa storia, paradossalmente, viene riraccontata da Arnold Schönberg in un imbarazzante atto unico, del 1929 circa, Von Heute auf Morgen ("Dall'oggi all'indomani") che fu anche diretto da Pierre Boulez a Santa Cecilia, col suo Ensemble e la specialista Susan Anthony, cinque anni fa. Questa è un'operetta austerissima, di una dodecafonia severissima, su una coppietta borghese e mondana che poi finì male: lui era Franz Schreker, sfottuto da Adorno e poi soppresso da Hitler perché compositore di "musica degenerata" di successo.

Tornando da un veglioncino nell'appartamentino i due rielaborano i rispettivi flirt della seratina, con ripicche e dispettucci reciproci, e birignao coniugali stucchevoli. Nei pochi metri quadri, il pupo non riesce a dormire; e arriva addirittura un gasista. Ma non come l'Anacleto gasista di Franco Parenti, brechtiano e strehleriano e defilippiano. Proprio un dipendente municipale noioso che non trova mai nessuno ai contatori dei poveracci. Ed ecco che i due flirt della serata telefonano dal bar all'angolo ("Hungaria"?) e poi salgono all'angolo-cottura con prospettive di scambi di coppie. Tutto sempre più squallido. La moglie si trucca la faccia, e il marito la trova stupenda senza neanche la czarda magiara del Pipistrello. Ma la bolletta del gas incombe. La mattina ci sarà da lavorare. Le vestaglie incalzano e le ciabatte sovrastano. Chi pagherà poi la bolletta del telefono bianco?

La piccola borghesia grava sulla dodecafonia. E così si va a nanna. Come ai tempi della Scapigliatura di Illica e Giacosa: "stasera al teatro della Canobbiana, sotto le coperte di lana". E il povero piccino, nel suo pigiamino: "Mami, sarebbe questa la gente moderna?". (E cosa risponderebbe Thomas Bernhard, più tardi?). In Schnitzler c'è ancora il mito (come più tardi nella Histoire d'O) del fastoso castello dove i piccoli borghesi normalmente alle prese con bollette del gas e pedalini per il pupo si possono librare onirici nel lusso delle candele costose e delle carrozze senza tassametro, con musica gratuita, champagne e mangiare a volontà, e rituali dove anche un pompino mai sarà un mero pompino, bensì un affare più verboso di un'orazione di Bossouet e più coreografico delle Indes Galantes. E dove tutti si ripetono, in costumi complicatissimi, come sono empi, turpi, sadici, viziosi, scellerati, diabolici.

Scopano - degenerati e chic - coi vampiri, coi dromedari, con le zanzare. E come le anime semplici fanno lo scopone col morto, così loro degustano le scopate con le morte: mamme e nonne e zie e prozie di Georges Bataille, come a un buffet freddo. Ma sono pieni di complessi e tabù riguardo alla trasgressione più perversa: non lo prendono nel sedere. Lì scatta il bon ton. A tutto c'è un limite, signora mia.

 

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