Si fa che sono quel
ragazzo con la sigaretta in bocca, seduto sul motorino e contornato dagli amici che,
preciso come un servizio del comune, rileva il passaggio di ogni fanciulla e ne scandisce
le grazie come un banditore. O quel medico che, terminata la visita, ha ancora per il
corpo dissacrato della paziente un inspiegabile e inspiegabilmente non trattenuto guizzo
di libidine. O ancora il collega di lavoro che avvelena la stanza di parole stonate, gesti
pesanti e volgari.
Dice Simone Weil "si è tanto più liberi dalla natura quanto
maggiore è la distanza tra l'atto e l'appagamento". Quindi dalla clava alla P38,
dalla incerta andatura eretta ai tacchi a spillo, il cammino va a una progressiva
astrazione, a un distacco angelico dal famelico accanimento a riuscire. Per testimoniare
questo affrancamento dalla natura abbiamo sostituito l'agire con balletti sempre più
graziosi, coreografie che mimano situazioni delle quali abbiamo scordato l'utiltà. Il
repertorio linguistico e gestuale del maschio arrapato è lo scrigno di competenza che
gelosamente ogni padre lascia in eredità al figlio, il quale, secondo la sua esperienza
storica, lo arricchisce di lazzi, rendendolo sempre più artificioso.
Si fa che sono... cerco di capire, provo a indovinare. Quel ragazzo,
quel medico, il collega, stanno esercitandosi nell'arte della distanza, cercano una
purezza sovra-umana. Le grida belluine sono mantra la cui continua reiterazione permette
di ascendere ai cieli del nirvana, le mani morte statuine apotropaiche, ex voto
ritrasformatisi in sangue e carne. Impossibile sapere.

Di certo l'esercizio retorico della molestia è scisso da qualsiasi
speranza di appagamento. Provo a indovinare, ma dubito che i tre signori in questione
sciorinando la loro mercanzia si aspettino di essere accolti dentro i corpi evocati, che
prevedano un finale con accoppiamento. Dunque, l'homo erectus trasforma pian piano
il programma di propedeutica alla riproduzione della razza in un'arte, nel senso di
mestiere, e così come i migliori cuochi finisce per essere perfettamente appagato dal suo
gioco di prestigio, ormai indifferente alla pietanza che neanche più assaggia.
La molestia come tic, infortunio linguistico in cui il parlante è
vittima di una coazione a ripetere, si configura quindi come la forma più perfetta di
autoerotismo, dove l'agente trasfigura membro e mano in un'oralità sfrenata e
funambolica, delle cui capriole gode e rigode senza limitazioni fisiologiche. Il primo
significato della parola latina moles, da cui molestia, è "pesantezza",
e, malgrado gli sforzi di assimilazione, nessuna variante vocalica o mutazione o
ibridazione potrai mai avvicinarla al termine blandus, "lusinghiero".
Distinguere, si sa, è l'atto primario del conoscere.
Distinguere, si sa. Pedofilo da assassino, omosessuale da depravato,
molestia da ricatto. Chi esige una prestazione in cambio di favori che hai già ottenuto
per tuo merito. Chi ti impedisce di accedere a una posizione per punirti dell' esserti
negata. Chi ti inventa una rivale nella donna che ti sorpassa grazie al fatto di essersi
in ginocchiata di fronte al dispensatore di premi. Ricatto, non molestia. Il ricatto deve
essere iscritto sotto un altro titolo nel grande quaderno dei comportamenti abietti, e non
ha genere sessuale.
Anche se la prevaricazione che prevede il corpo come merce di scambio,
malgrado folkloristiche documentazioni di statistiche strampalate e film americani di
donne manager con la bava alla bocca che stendono sul divanetto dell'ufficio ingenui
dipendenti incredibilmente parsimoniosi delle proprie erezioni, è da sempre esclusivo
appannaggio dell'uomo. Quell'uomo che, dicono gli esperti, avrebbe sostituito
all'oligarchia della forza stesa dalla rivoluzione industriale, un complicato meccanismo
psicologico di compensazione che prevede l'annichilimento attraverso il potere,
precedentemente conquistato per mezzo di quella forza ora destituita di valore,
dell'avversario femmina. Ecco, ho distinto. E, liquidato il ricatto, ribadisco che qui sto
parlando esclusivamente di molestie.
Io ho trent'anni, e malgrado sia provvista da sempre di capelli biondi
e un corpo mediamente attraente, ho catalogato, ma non per questo dimenticato, un numero
abbastanza esiguo di molestie sessuali. Non perché io sia migliore di altre donne.
Anch'io, come tutte, ho contribuito a ingenerare l'equivoco - in uomini, va detto, dal
quoziente intellettivo ben al di sotto del limite della sopravvivenza - che la battuta ben
fatta, la carezza furtiva ma precisa potesse creare una torbida complicità, anticamera di
sublimi vizi e esercizi di ginnastica sessuale da manuale indiano.
Non so perché. Io credo che gran parte della vita dipenda da una
misteriosa sensibilità per tempo e spazio che alcuni di noi, Bach, Piero della Francesca,
Francis Bacon, Fellini, hanno ricevuto in dono perché li accompagnasse dentro la
bellezza, ma che comunque svolazza intorno ai giorni di tutti gli esseri umani e ogni
tanto si posa e li fa belli. In quegli istanti cadiamo nell'equivoco, sembra alla nostra
portata incontrarsi e dirsi cose. Poi passa, e rimane il cigolìo dello sforzo, la
volgarità. Gli uomini, spesso, pretendono di possedere l'abilità di creare incanto, di
avere il potere di organizzare le parole e i gesti per far scivolare l'arraffìo dei
minuti distratti nel morbido e immobile silenzio che il sesso pretende.

Sono i miei occhi, credo, ad avermi esonerato dal quotidiano strazio
della molestia maschile. Il disincanto che, non controllato, mi scivola dalle ciglia. La
forza, o meglio la debolezza, di riconoscere all'istante il senso di morte che emana dallo
smanacciare scomposto della seduzione. Io vedo là dietro, come le ossa attraverso lo
schermo per le radiografie, lo scheletrico agitarsi della disperazione.
Però di una cosa ho avuto e continuo a avere esperienza. La misuro
ogni giorno nei contatti di lavoro, seduta ai tavoli di cene tra amici casuali. E mi
ferisce, e mi fa sentire inerme come un sasso davanti alla colata di lava del vulcano, un
bambino nello sciabordìo del terremoto che scuote la casa. Dicono che la differenza tra
me è un orango, dal punto di vista genetico, è meno di uno scarabocchio, due, tre
passaggi. Per qualche pelo in meno e l'impulso a farsi la doccia, costruire cattedrali,
uccidersi per amore che ci distinguono, possediamo un immenso patrimonio in comune. Siamo
insomma quasi uguali a quei buffi animali che passano le giornate a grattarsi e a
strillare.
Allora, quanta differenza potrà esserci tra un uomo e una donna?
Eppure, in alcuni uomini, vive un'incredibile impossibilità a riconoscere nella donna un
essere appartenente alla stessa razza. Sembra loro incredibile che le donne sappiano
parlare, scrivere a macchina, bere una birra, camminare senza inciampare. Non capiscono
come possano condurre una vita assai simile alla loro, nell'anarchia di una quotidianità
fuori dai contorni del loro immaginario sessuale.
Mi capita continuamente di discutere di lavoro con più di un uomo e di
dover mendicare uno sguardo, imporre un pensiero. Di sentirmi invisibile mentre loro
gioiscono perché, come i loro fratelli oranghi, ancora una volta si sono riconosciuti
nell'antico armamentario di pacche sulle spalle e sottintesi. Non che poi non siano in
grado di percepire il valore finale del tuo lavoro. Di fronte all'articolo consegnato, al
libro stampato, si rasserenano, riescono, con poco sforzo, a definirlo più o meno secondo
coscienza. E' la presenza fisica che li disarma. Immagino che per loro possa essere come
vedere una foca dipingere la Gioconda, una bottiglia di coca cola ballare il twist.
Assolutamente incongruo.
Da bambini pensiamo che il mondo stia in piedi perché il giorno si
appoggia alla notte, che le madri siano per sempre, che a ogni buona azione corrisponda un
premio. Da bambini crediamo alla simmetria, all'equilibrio. Ma ogni dolore è uno
sconquasso e presto si impara che tutto intorno le cose non possono riassestarsi, che
troppe botte hanno preso per potersi rialzare. E' quello il momento in cui si è
finalmente pronti a innamorarsi, a buttare via tutto per la più storta delle creature. Ci
si appassiona all'imperfezione, all'inciampo. E poiché il desiderio è l'unico mezzo a
nostra disposizione per comprendere, capiamo che il mondo è quella roba lì, scassata e
traballante, alla quale conviene abbandonarsi ballando.
Di questa danza la molestia sessuale è il ceppo. Sotto qualsiasi forma
si manifesti, dal ricatto alla cancellazione della donna come individuo, l'imposizione del
potere incarnato nei genitali, rende la corsa attraverso la vita una cavalcata zoppa.
Chiude la gola, imponendo la paura, la diffidenza, la distanza, alla gioia del donarsi
l'uno all'altra.