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Del mio disincanto

Elena Stancanelli

 

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Consultare il catalogo di smorfiacce e moine che si sono sempre scambiati uomini e donne, è per me un esercizio commovente. E' come tuffarsi in un mare dove ogni corallo può essere un gambero e ogni perla soltanto un riflesso. Il punto di vista mancante, nel mio caso lo sguardo maschile e la sua opposta interpretazione di ogni virgola della vita, nega infatti, fin dai presupposti, qualsiasi pretesa di verità. Nessuna spada divide più profondamente, nessuna luce è così diversa dal suo buio di quanto lo siano i due principi sessuali del mondo. Così alcun mistero è così inconoscibile quanto un uomo a una donna. Impossibile sapere. E allora che gioia per me, scribacchina sguaiata e appassionata, correre scalza e coi capelli arruffati sul prato della totale arbitrarietà. Si fa che sono... dicono i bambini in toscana per abracadabra, il gioco comincia. E diventano tartarughe guerriere, calciatori, cantanti di Sanremo e ballerine sgambettanti.

Si fa che sono quel ragazzo con la sigaretta in bocca, seduto sul motorino e contornato dagli amici che, preciso come un servizio del comune, rileva il passaggio di ogni fanciulla e ne scandisce le grazie come un banditore. O quel medico che, terminata la visita, ha ancora per il corpo dissacrato della paziente un inspiegabile e inspiegabilmente non trattenuto guizzo di libidine. O ancora il collega di lavoro che avvelena la stanza di parole stonate, gesti pesanti e volgari.

Dice Simone Weil "si è tanto più liberi dalla natura quanto maggiore è la distanza tra l'atto e l'appagamento". Quindi dalla clava alla P38, dalla incerta andatura eretta ai tacchi a spillo, il cammino va a una progressiva astrazione, a un distacco angelico dal famelico accanimento a riuscire. Per testimoniare questo affrancamento dalla natura abbiamo sostituito l'agire con balletti sempre più graziosi, coreografie che mimano situazioni delle quali abbiamo scordato l'utiltà. Il repertorio linguistico e gestuale del maschio arrapato è lo scrigno di competenza che gelosamente ogni padre lascia in eredità al figlio, il quale, secondo la sua esperienza storica, lo arricchisce di lazzi, rendendolo sempre più artificioso.

Si fa che sono... cerco di capire, provo a indovinare. Quel ragazzo, quel medico, il collega, stanno esercitandosi nell'arte della distanza, cercano una purezza sovra-umana. Le grida belluine sono mantra la cui continua reiterazione permette di ascendere ai cieli del nirvana, le mani morte statuine apotropaiche, ex voto ritrasformatisi in sangue e carne. Impossibile sapere.

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Di certo l'esercizio retorico della molestia è scisso da qualsiasi speranza di appagamento. Provo a indovinare, ma dubito che i tre signori in questione sciorinando la loro mercanzia si aspettino di essere accolti dentro i corpi evocati, che prevedano un finale con accoppiamento.  Dunque, l'homo erectus trasforma pian piano il programma di propedeutica alla riproduzione della razza in un'arte, nel senso di mestiere, e così come i migliori cuochi finisce per essere perfettamente appagato dal suo gioco di prestigio, ormai indifferente alla pietanza che neanche più assaggia.

La molestia come tic, infortunio linguistico in cui il parlante è vittima di una coazione a ripetere, si configura quindi come la forma più perfetta di autoerotismo, dove l'agente trasfigura membro e mano in un'oralità sfrenata e funambolica, delle cui capriole gode e rigode senza limitazioni fisiologiche. Il primo significato della parola latina moles, da cui molestia, è "pesantezza", e, malgrado gli sforzi di assimilazione, nessuna variante vocalica o mutazione o ibridazione potrai mai avvicinarla al termine blandus, "lusinghiero".

Distinguere, si sa, è l'atto primario del conoscere.

Distinguere, si sa. Pedofilo da assassino, omosessuale da depravato, molestia da ricatto. Chi esige una prestazione in cambio di favori che hai già ottenuto per tuo merito. Chi ti impedisce di accedere a una posizione per punirti dell' esserti negata. Chi ti inventa una rivale nella donna che ti sorpassa grazie al fatto di essersi in ginocchiata di fronte al dispensatore di premi. Ricatto, non molestia. Il ricatto deve essere iscritto sotto un altro titolo nel grande quaderno dei comportamenti abietti, e non ha genere sessuale.

Anche se la prevaricazione che prevede il corpo come merce di scambio, malgrado folkloristiche documentazioni di statistiche strampalate e film americani di donne manager con la bava alla bocca che stendono sul divanetto dell'ufficio ingenui dipendenti incredibilmente parsimoniosi delle proprie erezioni, è da sempre esclusivo appannaggio dell'uomo. Quell'uomo che, dicono gli esperti, avrebbe sostituito all'oligarchia della forza stesa dalla rivoluzione industriale, un complicato meccanismo psicologico di compensazione che prevede l'annichilimento attraverso il potere, precedentemente conquistato per mezzo di quella forza ora destituita di valore, dell'avversario femmina. Ecco, ho distinto. E, liquidato il ricatto, ribadisco che qui sto parlando esclusivamente di molestie.

Io ho trent'anni, e malgrado sia provvista da sempre di capelli biondi e un corpo mediamente attraente, ho catalogato, ma non per questo dimenticato, un numero abbastanza esiguo di molestie sessuali. Non perché io sia migliore di altre donne. Anch'io, come tutte, ho contribuito a ingenerare l'equivoco - in uomini, va detto, dal quoziente intellettivo ben al di sotto del limite della sopravvivenza - che la battuta ben fatta, la carezza furtiva ma precisa potesse creare una torbida complicità, anticamera di sublimi vizi e esercizi di ginnastica sessuale da manuale indiano.

Non so perché. Io credo che gran parte della vita dipenda da una misteriosa sensibilità per tempo e spazio che alcuni di noi, Bach, Piero della Francesca, Francis Bacon, Fellini, hanno ricevuto in dono perché li accompagnasse dentro la bellezza, ma che comunque svolazza intorno ai giorni di tutti gli esseri umani e ogni tanto si posa e li fa belli. In quegli istanti cadiamo nell'equivoco, sembra alla nostra portata incontrarsi e dirsi cose. Poi passa, e rimane il cigolìo dello sforzo, la volgarità. Gli uomini, spesso, pretendono di possedere l'abilità di creare incanto, di avere il potere di organizzare le parole e i gesti per far scivolare l'arraffìo dei minuti distratti nel morbido e immobile silenzio che il sesso pretende.

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Sono i miei occhi, credo, ad avermi esonerato dal quotidiano strazio della molestia maschile. Il disincanto che, non controllato, mi scivola dalle ciglia. La forza, o meglio la debolezza, di riconoscere all'istante il senso di morte che emana dallo smanacciare scomposto della seduzione. Io vedo là dietro, come le ossa attraverso lo schermo per le radiografie, lo scheletrico agitarsi della disperazione.

Però di una cosa ho avuto e continuo a avere esperienza. La misuro ogni giorno nei contatti di lavoro, seduta ai tavoli di cene tra amici casuali. E mi ferisce, e mi fa sentire inerme come un sasso davanti alla colata di lava del vulcano, un bambino nello sciabordìo del terremoto che scuote la casa. Dicono che la differenza tra me è un orango, dal punto di vista genetico, è meno di uno scarabocchio, due, tre passaggi. Per qualche pelo in meno e l'impulso a farsi la doccia, costruire cattedrali, uccidersi per amore che ci distinguono, possediamo un immenso patrimonio in comune. Siamo insomma quasi uguali a quei buffi animali che passano le giornate a grattarsi e a strillare.

Allora, quanta differenza potrà esserci tra un uomo e una donna? Eppure, in alcuni uomini, vive un'incredibile impossibilità a riconoscere nella donna un essere appartenente alla stessa razza. Sembra loro incredibile che le donne sappiano parlare, scrivere a macchina, bere una birra, camminare senza inciampare. Non capiscono come possano condurre una vita assai simile alla loro, nell'anarchia di una quotidianità fuori dai contorni del loro immaginario sessuale.

Mi capita continuamente di discutere di lavoro con più di un uomo e di dover mendicare uno sguardo, imporre un pensiero. Di sentirmi invisibile mentre loro gioiscono perché, come i loro fratelli oranghi, ancora una volta si sono riconosciuti nell'antico armamentario di pacche sulle spalle e sottintesi. Non che poi non siano in grado di percepire il valore finale del tuo lavoro. Di fronte all'articolo consegnato, al libro stampato, si rasserenano, riescono, con poco sforzo, a definirlo più o meno secondo coscienza. E' la presenza fisica che li disarma. Immagino che per loro possa essere come vedere una foca dipingere la Gioconda, una bottiglia di coca cola ballare il twist. Assolutamente incongruo.

 

Da bambini pensiamo che il mondo stia in piedi perché il giorno si appoggia alla notte, che le madri siano per sempre, che a ogni buona azione corrisponda un premio. Da bambini crediamo alla simmetria, all'equilibrio. Ma ogni dolore è uno sconquasso e presto si impara che tutto intorno le cose non possono riassestarsi, che troppe botte hanno preso per potersi rialzare. E' quello il momento in cui si è finalmente pronti a innamorarsi, a buttare via tutto per la più storta delle creature. Ci si appassiona all'imperfezione, all'inciampo. E poiché il desiderio è l'unico mezzo a nostra disposizione per comprendere, capiamo che il mondo è quella roba lì, scassata e traballante, alla quale conviene abbandonarsi ballando.

Di questa danza la molestia sessuale è il ceppo. Sotto qualsiasi forma si manifesti, dal ricatto alla cancellazione della donna come individuo, l'imposizione del potere incarnato nei genitali, rende la corsa attraverso la vita una cavalcata zoppa. Chiude la gola, imponendo la paura, la diffidenza, la distanza, alla gioia del donarsi l'uno all'altra.


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