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Quando a molestare e' il diritto

Jean K. Cohen

 

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Nei decenni scorsi molte cose sono cambiate nel "territorio dell’intimità". Il massiccio ingresso delle donne (sposate e non, e con figli piccoli) nel lavoro e nella vita pubblica, il ridimensionamento della vita matrimoniale rispetto alla ricerca dei rapporti intimi e all’interno del rapporto sessuale il passaggio della funzione riproduttiva da un imperativo morale ad una scelta etica sono solo alcuni dei processi di rilievo verificatisi in questo campo. Per la prima volta nella storia le donne arrivano ad essere riconosciute come cittadini uguali e come persone a tutti gli effetti legali: un cambiamento di status di importanza epocale. La contestazione dell’importanza culturale del genere, dei ruoli di genere più appropriati e delle forme accettabili di relazioni intime deriva da tali sviluppi e li informa. Insomma le donne sono uscite dalla "sfera domestica", il sesso si è liberato dal matrimonio, preferenze sessuali prima disprezzate hanno smesso di esser tenute nascoste e le gerarchie di genere sono state destabilizzate.

Tali cambiamenti minano l’approccio convenzionale alla relazione appropriata tra stato, legge e relazioni intime. Non è più possibile ignorare i problemi legali che nascono all’interno di rapporti intimi "legittimi" relegandoli alla sfera domestica della famiglia "privata", ritenuta off limits rispetto all’ingerenza della legge. E neppure il corollario di questo approccio è più accettabile: una legislazione che definisce la "moralità" di stato, deputata a reprimere e controllare i rapporti intimi extra-matrimoniali o comunque al di fuori del matrimonio con proibizioni o regolamenti diretti fondati sull’assunto che si tratti di rapporti per definizione immorali. La naturalezza della vecchia dicotomia pubblico/privato, insieme alle premesse di genere che informavano le precedenti strategie di giuridicizzazione, sono più o meno crollate.

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In che modo le relazioni intime (in casa o, adesso anche nell’ambiente di lavoro) possano essere regolate dalla legge è uno dei temi più dibattuti nelle guerre culturali e nelle lotte politiche e sociali del XX secolo. La riconcettualizzazione della giusta forma e degli obiettivi della giuridicizzazione in questo campo è divenuto ormai un problema politico e teorico pressante. I due approcci dominanti presentano un dilemma. I liberali classici e i libertari insistono nel sostenere che non c’è niente di più personale, di più intrinseco alla concezione personale della nozione di bene e di felicità, delle relazioni intime e sessuali. Semmai l’intimità dovrebbe essere un problema di scelta personale, protetta dai diritti fondamentali alla privacy. Meno lo stato e la legge interferiscono in questo territorio meglio è.

E d’altra parte sappiamo, grazie all’intervento femminista, che l’intimità può essere un luogo in cui si esercitano rapporti di potere, terreno di gerarchie di genere, ambito di ingiustizia e di oppressione. Il personale è anche politico. Chi si batte per l’uguaglianza, d’altra parte, asserisce che un regolamento diretto e sostanziale in un territorio, come la famiglia, un tempo considerato off limits rispetto all’ingerenza dello stato è indispensabile per la giustizia di genere. E’ necessaria anche una legislazione che regoli l’espressione sessuale e le relazioni intime nel posto di lavoro per scalzare le gerarchie di genere e prevenire le ingiustizie che passano per la sessualità. Tale giuridicizzazione comunque rappresenta un’ovvia minaccia alla privacy, all’autonomia e alla libertà di espressione. Apparentemente entrambe le scelte, la regolamentazione così come la deregolamentazione dell’intimità, creano problemi normativi. In questo campo il principio di uguale libertà che è al centro delle moderne democrazie costituzionali sembra disintegrarsi nelle parti che lo compongono. Il problema è il seguente: come può la legge promuovere la giustizia e l’uguaglianza dei cittadini senza scalzare l’autonomia personale e la privacy che sono intrinseche ai rapporti intimi e senza distruggere la possibilità di felicità che dopo tutto è il suo scopo?

Un dilemma che comincia a farsi sentire in un aspetto relativamente nuovo del regolamento legale della "intimità": la legge sulle molestie sessuali. Anche in questo caso sembra che per creare un deterrente legale rispetto alle gravi ingiustizie di genere che si verificano nei posti di lavoro, in parte proprio nell’ambito della sessualità e della "intimità", si debba sacrificare la privacy e l’autonomia. Le norme sulle molestie sessuali nel posto di lavoro e il relativo processo spesso costringono a sottoporsi ad interrogatori relativi ai trascorsi sessuali e ad assumere un atteggiamento perbenista per salvare la faccia, ad esporre pubblicamente i particolari più intimi della propria vita e ad accettare l’ingerenza dei regolamenti nelle relazioni consensuali così come in quelle imposte. Anche in questo caso la libertà sembra essere sacrificata sull’altare dell’uguaglianza di genere.

Le molestie sessuali sono una forma perniciosa di discriminazione di genere e io sono fortemente a favore delle leggi che cercano di prevenirle e punirle. Ma il modo in cui la molestia sessuale è stata giuridicizzata negli Usa contiene un vizio di forma. Questo articolo vuole sostenere due tesi: prima di tutto che troppa parte della discussione (femminista e giuridica) intorno alla legge sulle molestie sessuali è informata da un atteggiamento cavilloso in merito alla questione della privacy, una tendenza ad equiparare il sesso con il dominio o la vergogna e a vedere le donne come vittime bisognose di protezione e senza una loro sessualità. Un atteggiamento che è in parte responsabile dello scarso fascino delle opzioni che si presentano a coloro che si battono per l’uguaglianza di genere al posto di lavoro e altrove.

Ma, in secondo luogo, cercherò anche di mostrare come quelle scelte siano dettate da una problematica più profonda. Penso alla tendenza ad avvicinarsi al problema del regolamento dall’interno del contesto di uno dei due paradigmi giuridici in competizione - il modello liberale e quello del welfare - che strutturano le possibili reazioni in modi tipicamente unilaterali e incapaci di vedere l’altro. Una volta enunciata questa problematica più profonda possiamo cominciare a vedere cosa sottende alle problematiche della legge sulle molestie sessuali.

Inizierò con la discussione delle varie posizioni del dibattito contemporaneo su questo tema, per poi ad analizzare i concetti giuridici paradigmatici che creano problemi, che si opti per regolamentare o al contrario per non regolamentare la sessualità ( e più in generale l’intimità) sul posto di lavoro. Infine tenterò di indicare una possibile via d’uscita sulla base di un "terzo" paradigma legale come terreno più adatto per affrontare le questioni chiave.

 

I. Lo sviluppo della legge sulle molestie sessuali

La molestia sessuale è un concetto relativamente giovane in ambito giuridico. Fu enunciato per la prima volta negli anni Settanta da un movimento femminista che identificava le pressioni sessuali sul lavoro come una forma di discriminazione di genere. Il titolo VII della legge sui diritti civili del 1964 già dichiarava illegale da parte di un datore di lavoro "la discriminazione di un qualunque individuo - in termini di compenso, accordi contrattuali, speciali condizioni di assunzione o privilegi - in base al sesso... dello stesso". Nel 1986 la Corte suprema identificò due ampie categorie di molestie sessuali passibili di azione legale secondo il titolo VII: 1, la richiesta da parte dei superiori di contraccambiare con favori sessuali i benefici economici, e le minacce di ritorsioni economiche; 2, la creazione di un "ambiente di lavoro ostile": cioè un posto di lavoro così inquinato dall’ostilità nei confronti di un sesso da alterare in modo discriminatorio i termini e le condizioni di lavoro. Ma fu solo sulla scia delle udienze di Clarence Thomas che il governo approvò la legge sui diritti civili del 1991, in cui si ritoccava l’articolo VII prevedendo anche il pagamento dei danni nelle cause civili.

Il timore di dover pagare danni monetari rappresenta il più forte incentivo per i datari di lavoro a stabilire regole contro le molestie sessuali e farle rispettare. Ma proprio lì sta il problema. Per evitare le dispendiose cause per molestie sessuali, alcune società hanno previsto norme fortemente repressive ed invadenti che regolano la comunicazione e la condotta dei loro dipendenti per quanto riguarda l’espressione "intima" nelle relazioni interpersonali. Un quarto delle società americane oggi adottano una linea punitiva (per lo più non scritta) nei confronti delle espressioni affettive "offensive" e in molti casi arrivano a proibire le relazioni sentimentali tra gli impiegati, dentro e fuori l’ufficio. Utilizzano schiere di "manager delle risorse umane" incaricandoli di interrogare i dipendenti sui loro rapporti reciproci, compresi quelli desiderati e consensuali. Gli interessi in gioco sono grossi: si può essere licenziati, degradati o trasferiti in base all’asserzione gratuita di una persona che si dice molestata o di un "addetto alle risorse umane" anche in assenza di lamentele.

Dato che solo da poco tempo le molestie sessuali sono perseguibili dalla legge e i datori di lavoro passibili di denuncia non meraviglia che il concetto di "ambiente di lavoro ostile" sia fortemente controverso. E così pure il più ampio problema dei rapporti sessuali tra dipendenti in presenza, e perfino in assenza, di un "differenziale di potere". I rapporti sessuali consensuali non rientrano nel testo della legge sulle molestie sessuali, ma la sua teoria e la sua interpretazione legale hanno generato una pletora di norme che regolano ogni forma di rapporto intimo tra colleghi. Questo è in parte all’origine dell’intenso dibattito nato intorno all’applicazione della legge sulle molestie sessuali.

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II Libertà contro Uguaglianza, e la Felicita?

Il dibattito i fautori dell’uguaglianza sessuale si oppongono a quelli della libertà (decisionale ed espressiva) e della privacy. Riassumerò brevemente in forma ideal-schematica tali posizioni per poi affrontare i problemi analitici più profondi.

 

A. Il Modello egemonico femminista di Dominanza/Desiderio sessuale

Il femminismo radicale ha fornito il fondamento teorico della legge sulle molestie sessuali ormai circa vent’anni fa e Catherine Mackinon rimane la voce più influente in quel campo. Secondo quelle posizioni le molestie sessuali implicano la subordinazione e la denigrazione delle donne attraverso il sesso nel posto di lavoro - come inevitabile conseguenza della supremazia maschile. L’espressione sessuale sul lavoro non è una semplice espressione del desiderio in cerca di reciprocità. Piuttosto è nelle condizioni di gerarchia di genere che la molestia sessuale viene costruita socialmente come erotismo, comunicazione espressiva e faccenda privata intima, invece di essere vista per quello che davvero è: il meccanismo storico specifico della subordinazione, dello sfruttamento e dell’esclusione delle donne dalle opportunità di lavoro.

Le molestie sessuali nei confronti delle donne che lavorano si verificano perché le donne, che hanno poco potere in generale, occupano posizioni lavorative inferiori. La funzione delle molestie è proprio di mantenere le donne in quella posizione di inferiorità. Il risultato e lo scopo della riduzione delle donne ad oggetti sessuali è al tempo stesso quello di soddisfare il desiderio maschile e di impedire che le donne vengano trattate come normali lavoratori. "La molestia sessuale è una pratica istituzionalizzata, non una "tendenza". Nell’approccio "desiderio sessuale/dominanza", qualunque appello alla privacy personale o alla libertà di espressione (sessuale) in quel campo è dunque intrinsecamente sospetto. L’espressione sessuale sul posto di lavoro, soprattutto in situazioni non paritarie, è uno strumento di discriminazione di genere. La molestia sessuale (come la pornografia) fa quello che dice: parlare di sesso è un atto sessuale. E per questo la sessualità è il meccanismo centrale della dominazione di genere: è il mezzo chiave per perpetuare la disuguaglianza di genere.

La conclusione ovvia che si può trarre da quest’analisi è che fintanto che esiste l’ineguaglianza di genere, il sesso dev’essere tenuto fuori dal posto di lavoro, soprattutto laddove ci siano differenziali di potere tra i lavoratori. In base a questa logica perfino i rapporti volontari possono essere forme di sfruttamento e i datori di lavoro fanno bene a proibirli.

 

B. Le obiezioni liberali

Questo conferma il sospetto che la legge sulle molestie sessuali sia intrinsecamente illiberale e minacci importanti principi costituzionali come la privacy, la libertà di parola e di associazione. L’attuale legge sulle molestie sessuali è allarmante soprattutto per i liberali perché i processi civili mancano delle garanzie procedurali necessarie a difendere i diritti processuali e la privacy dell’accusato e di tutti coloro che hanno a che fare con lui/lei. La definizione vaga di molestia sessuale poi porta ad interrogatori infiniti sul passato sessuale delle persone coinvolte (esiste forse uno schema fisso di comportamento?), interrogatori cui non viene sottoposto solo l’accusato ma anche chi quelle molestie ha subito (ci aveva fatto sopra delle fantasie?). E’ in pericolo la privacy di tutti.

Le politiche amministrative non giudiziarie che regolano l’espressione sessuale sul posto di lavoro innescate dal titolo VII e la mancanza di garanzie procedurali poi è a sua volta molto preoccupante. Di fatto la vaghezza dei criteri per decidere quale discorso sia sufficientemente offensivo da creare un ambiente ostile e il sistema che prevede la perseguibilità vicaria dei datori di lavoro stimola questi ultimi a controllare e regolamentare all’eccesso i discorsi e i comportamenti dei dipendenti. Questo crea un’atmosfera di paura: le persone diventano vulnerabili ad ogni tipo di manipolazione da parte dei commissari interni (per il sesso), di avvocati troppo ansiosi di lavorare, di attacchi la cui ragione vera è politica, e di qualunque collega ambizioso o vendicativo.

Secondo la posizione liberale per reagire a tutto ciò non si deve cercare di tenere fuori il sesso dalla sfera del lavoro (a costo delle nostre più elementari libertà) ma al contrario di tenere fuori la legge dalla sfera del sesso. Le molestie con promessa di ricompensa dovrebbero continuare ad essere perseguibili, mentre andrebbe eliminato "l’ambiente ostile" tra le cause di azione legale. La legge contro le discriminazioni di genere non dovrebbe perseguire il sesso, ma le politiche che favoriscono un sesso rispetto all’altro per quanto riguarda assunzioni, licenziamenti e promozioni. Anzi la legge dovrebbe impedire che le persone siano interrogate in merito alle loro attività sessuali legali. In breve la libertà e la privacy personale e la libertà di espressione non dovrebbero essere sacrificate a metodi illiberali teoricamente rivolti a rafforzare l’eguaglianza.


C. Femminismo liberale e alternative femministe post-moderne

L’idea di indirizzare la legge sulle molestie sessuali, allontanandola dal territorio del sesso e riportandola a quello del genere, ricorre tra alcune teoriche femministe del diritto anche se per ragioni diverse. Sostengono infatti che l’accento posto sulla sessualità distrae l’attenzione dalle forme prevalenti e pericolose di molestia di genere che non implicano affatto il sesso. Secondo questo punto di vista, la causa di azione legale per "ambiente lavorativo ostile" andrebbe conservata, scindendola però dall’accento fin qui posto sulle profferte eterosessuali non gradite o sul discorso sessuale "offensivo" come comportamento costitutivo di fondo delle molestie di genere. Con buona pace di Mackinnon le molestie di genere non esplicitamente sessuali in ambiente lavorativo sono il fenomeno più pervasivo. Ma per influenza dell’approccio sesso-desiderio-dominanza delle femministe radicali, i tribunali oggi tendono ad escludere la condotta non sessuale dalle cause per ambiente lavorativo ostile.

Il limite di focalizzarsi sulle molestie sessuali nell’ambiente di lavoro è quello di sottovalutare una gran quantità di forme di molestie di genere. Ma non solo, quell’approccio rappresenta anche in modo scorretto il motivo principale delle molestie maschili, attribuendole al desiderio del maschio di sfruttare le donne dal punto di vista sessuale piuttosto che alla volontà di conservare i privilegi economici e una certa immagine della mascolinità (come superiore alla femminilità). Il pericolo di concentrarsi troppo sul sesso nell’ambiente di lavoro è, come sostengono i liberali, quello di farvi rientrare tutto: anche le espressioni sessuali innocue finiranno per essere proibite. E, problema questo ancora più grave, quell’approccio favorisce un atteggiamento paternalistico che potrebbe permettere ai giudici di sentirsi illuminati quando proteggono le donne dalle "offese" sessuali, mentre fanno il gioco dei conservatori che vogliono reprimere la sessualità femminile e quella "deviante" e non combattere le molestie sessuali e l’ingiustizia di genere.

Questo punto è centrale nelle critiche femministe post-moderne della regolamentazione statale della sessualità e dei codici sessuali aziendali. Come fa notare Jane Gallop, "Sono poche le persone tra le quali non esiste un qualche differenziale di potere". Se applicato al posto di lavoro, un criterio del genere renderebbe qualunque forma di sesso offensiva.

Ma i codici sessuali nel posto lavoro e tanta parte dell’attuale legge sulle molestie sessuali sottendono un atteggiamento puritano che vede il sesso come negativo e presenta le donne come bisognose di protezione non solo nei confronti della sessualità maschile, ma anche nei confronti dei loro stessi "desideri malati" (masochismo generato dal potere maschile). L’ideologia secondo cui la sessualità femminile non esisterebbe o sarebbe comunque vergognosa spiega come mai la sessualizzazione possa costituire uno strumento per screditare le donne e togliere loro la parola, in quanto spoglia le donne della loro espressione sessuale e in tal modo rafforza gli stereotipi di genere. Di qui le obiezioni di Judith Butler alla giuridicizzazione in questo campo. Butler critica l’uso che Mackinnon fa della teoria dell’atto-parola per giustificare l’uso della legge per modificare rapporti ingiusti di genere censurando o proibendo la sessualità. Mette in discussione l’abbinamento di discorso e condotta che rafforza l’analisi di Mackinnon. Attingendo a Derrida, Butler ribadisce che il linguaggio è sempre citazionale e che il parlante non è mai del tutto padrone del significato o dell’effetto di un’affermazione. I discorsi di odio, quelli sessisti, le molestie sessuali sono performativi: sono atti e perfino minacce, ma questo non vuol dire che tali discorsi facciano quello che dicono perché c’è sempre uno iato tra il contesto in cui nascono o l’intenzione del parlante e gli effetti che producono. Da questo discende la possibilità di decontestualizzare il discorso che può essere caricato di nuovo significato sovversivo. Invece di farsi schiacciare dalle espressioni sessualmente moleste, le vittime possono rovesciarle e combatterle, divenendo così agenti in prima persona.

Mackinnon crede che, se le "parole feriscono" per la loro forza "illocutoria", non è possibile neutralizzare gli effetti nocivi di un discorso con un contro-discorso. Norme di legge e controlli sostanziali e pervasivi sono necessari per ridurre e lenire i danni di tali discorsi e per proteggere gruppi con meno potere di altri da quelli che sono socialmente, economicamente e culturalmente più potenti.

Butler si oppone a questa soluzione perché teme che ampliando il potere normativo legale e aziendale (voluto dallo stato) le femministe rischino di assomigliare sempre più all’apprendista stregone: il raggio sempre più ampio del regolamento può essere usato contro gli stessi movimenti sociali che hanno premuto per la giuridicizzazione. Un esempio impressionante è l’uso dei provvedimenti a favore dell’uguaglianza di genere per censurare la pornografia gay e lesbica (Canada), i discorsi omosessuali nell’esercito (Usa), le forme artistiche e letterarie ritenute "offensive" nelle scuole, al lavoro, nelle gallerie d’arte e negli edifici pubblici.

Dunque la giuridicizzazione di espressioni intime dà troppo potere arbitrario a figure giudiziarie o amministrative, alle spese di quelle sociali. E’ probabile che produca normalizzazione: la costruzione di quale sia sessualità legittima e quale quella deviante secondo la legge. A questo fa seguito, inevitabilmente, la repressione e la regolamentazione invadente delle forme "illegittime" di sessualità.

E siamo tornati al punto di partenza. Anche se i post-moderni hanno modelli di potere diversi da quelli liberali (produttivi anziché semplicemente repressivi), entrambe le parti costruiscono la giuridicizzazione "dell’intimità" come se si trovasse in un rapporto neutro - a somma zero - con la libertà personale. Per entrambi la libertà della persona incomincia laddove si ferma la sovranità dello stato. L’analisi di Butler, come quella dei liberali, soffre dei limiti speculari di quella di Mackinnon: se la seconda dimentica gli aspetti repressivi e non neutri dell’intervento legale, la prima sembra ignorare i fattori di potere sociale che possono rendere inefficace il contro-discorso e gli sforzi di riconfigurare in modo performativo il discorso molesto. Al posto di lavoro certamente la forza di chi detiene il potere e dei gruppi dominanti può avere un effetto intimidatorio. Sono moltissimi i casi di molestie sessuali che non vengono denunciati e puniti per timore di rappresaglie contro coloro che li denunciano. Gli sforzi delle esperte femministe che si occupano della legge sulla discriminazione per allargare i processi per molestia sessuale a comprendere le forme non sessuali di ingiustizia di genere in questo caso sarebbero di grande aiuto. Ma si tratta di una strategia di evitamento che non ci dice ancora cosa fare quando la molestia passa per la sessualità.

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III. Paradigmi legali: una spiegazione o una scappatoia?

Le posizioni sopra descritte sembrano implicare un inevitabile scontro di valori (libertà contro uguaglianza). Ma il mio intento è sostenere che quello scontro è dettato da concezioni anacronistiche e paradigmatiche della legge e delle forme che deve prendere la regolamentazione legale.

Un paradigma giuridico non è una teoria scientifica o una dottrina legale - è un insieme integrato di convinzioni cognitive e normative di fondo che informa le interpretazioni politiche e legali su quali debbano essere i rapporti giusti tra stato e società secondo la legge. E si può irrigidire in ideologia se si chiude alla percezione di situazioni nuove e di interpretazioni diverse di diritti e principi.

E’ questo il caso dei due paradigmi legali che informano i discorsi dominanti in merito alla giuridicizzazione dell’intimità. Il paradigma liberale ritiene che le minacce alla libertà vengano dallo stato. Di conseguenza lo stato dovrebbe limitarsi a garantire allo stesso modo le libertà negative di ciascuno a perseguire nella sfera privata la sua propria idea di bene. Cosa che andrebbe limitata il meno possibile da proibizioni od ordini. La legge deve essere formale, legata alle regole, generale e concisa. Limitarsi a definire le sfere astratte di azione (le libertà) per la ricerca autonoma degli interessi personali.

Anche se opera con una concezione analoga dell’autonomia personale, il "paradigma del welfare" (della legge) mette in crisi due premesse centrali del modello liberale: che le ingiustizie nell’ambito del potere sociale possano essere neutralizzate senza l’aiuto dello stato e che il diritto universale ad uguali libertà individuali possa essere garantito dallo status negativo del soggetto legale. Ipotizzando che stato e società, pubblico e privato, siano inestricabilmente mescolati, la giuridicizzazione per questo modello è direttamente normativa e "interventista". La legge è sostanziale, particolareggiata, e indirizzata a un obiettivo. Diversamente dalla legge formale, un regolamento legale sostanziale vuole produrre uniformità e lo fa dettando i risultati.

Dovrebbe risultare chiaro da questa breve descrizione che all’interno di entrambi i paradigmi, privacy e uguaglianza, libertà e azione di stato, legge formale e legge sostanziale, finiscono per avere peso equivalente. I sostenitori delle prime non sembrano preoccuparsi del ruolo del potere privato nella produzione di ineguaglianza. I partigiani delle seconde sembrano altrettanto ciechi sugli effetti dell’intervento sull’autonomia e sulla privacy. Perfino i teorici consapevoli dei problemi che caratterizzano l’assenza di regolamento e l’eccesso di regolamento sembrano muoversi tra quei due paradigmi, come se non ci fossero alternative. Le femministe, l’abbiamo visto, non sfuggono a questa problematica.

Ma di recente alcuni teorici hanno cominciato ad articolare i rudimenti di un terzo paradigma legale, "riflessivo/procedurale" che potrebbe consentire di riformulare e forse anche risolvere alcuni di questi problemi. Come gli altri, questo paradigma comporta un tipo specifico di legge - di legge riflessiva- che implica l’applicazione di procedure (norme procedurali e principi di imparzialità) alle procedure di risoluzione del conflitto (riflessività). Pensata per promuovere l’autoregolazione per le istituzioni sociali e al loro interno, la legge riflessiva favorisce l’autonomia sociale. Ma a differenza della legge formale non si limita ad adattarsi alle "distribuzioni precedenti" e non postula la "libertà naturale". Invece mira a costruire un’autonomia "regolata" in cui il potere di contrattazione, la voce e la posizione sociale degli individui che interagiscono siano equilibrati. Si possono stringere tutti gli accordi sostanziali che si vogliono, a patto che determinate norme procedurali e certi principi di giustizia siano rispettati. Un esempio di questo tipo è la legge che regola la contrattazione collettiva nelle cause di lavoro.

A differenza della legge materiale, comunque, la legge riflessiva non detta i risultati. Lo stato vi entra solo indirettamente. Di conseguenza la giuridicizzazione in questo approccio può evitare lo scontro tra autonomia ed uguaglianza che sembra insormontabile dalla prospettiva degli altri due paradigmi legali.

La giuridicizzazione della molestia sessuale negli Usa oggi è un esempio primario seppure imperfetto dell’uso delle forme legali riflessive per regolare in materia di "intimità" in ambiente lavorativo. Secondo l’interpretazione recente della Corte Suprema nel riconoscere il risarcimento monetario nelle cause civili e la perseguibilità "vicaria" del datore di lavoro, il divieto del titolo VII che proibisce la discriminazione sessuale è attualmente una legge che fornisce forti incentivi ai datori di lavoro perché mettano a punto politiche contro le molestie sessuali e per organizzare le procedure con le quali esprimere le lamentele e risolvere le dispute. Né la Corte né il Congresso hanno imposto una politica uniforme o una serie di regolamenti sostanziali agli imprenditori. Ma non hanno neppure lasciato alla loro buona volontà la decisione di come e se occuparsi del problema. Lungi dal tentare di imporre un "codice civile generale" (la strategia del paradigma del welfare), ma opponendosi al "tutto va bene" (l’approccio dei libertari), questa forma di regolamento intende favorire pari opportunità e imparzialità incoraggiando l’emanazione e il concreto rispetto di regole e procedure ragionevoli.

Eppure tante politiche sulle molestie sessuali non riescono a raggiungere tale standard. Come già accennato spesso quello che si verifica in questo campo per effetto della forma giuridica riflessiva sono regolamenti repressivi ed invadenti. Ma perché succede questo? Il problema non può essere ridotto alla scelta tra regolamentare e non regolamentare (approccio paradigmatico scorretto). Piuttosto si tratta di inadeguata istituzionalizzazione del tipo di regolamento riflessivo "post-regolatorio" che è stato creato. Per evitare costose cause e pagamenti di danni, l’imprenditore "razionale" ora è incoraggiato a mettersi al sicuro e a iper-regolamentare il discorso e l’intimità tra i dipendenti. Il suo interesse non è salvaguardare la privacy, il primo emendamento o il diritto di associazione dei suoi dipendenti, ma tenere bassi i costi.

Sfortunatamente con la legge attuale l’imprenditore non deve scontrarsi con pressioni uguali e contrarie che limitino la sua tendenza ad iper-regolamentare. E questo per due motivi: per le regole di fondo che governano le prerogative del datore di lavoro nella maggior parte dei posti di lavoro privati e in molti di quelli pubblici e per la convinzione diffusa che la tutela costituzionale riguardi solo il rapporto tra l’individuo e lo stato. Negli Usa i datori di lavoro possono adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei loro dipendenti e rescindere il contratto di lavoro per un qualunque motivo. Inoltre si ritiene che laddove non c’è "azione statale", ovvero negli ambienti di lavoro "privati", non si applichino le garanzie costituzionali di libera espressione, giusta causa, e privacy personale.

Paradossalmente in tali condizioni la legge riflessiva può innescare ingerenze e controlli ancora più arbitrari del regolamento statale diretto. Ma poiché la legislazione del Congresso e i decreti della Corte suprema stimolano quei controlli, certamente questi finiscono per rappresentare l’azione indiretta dello stato di cui il datore di lavoro opera come agente. Di conseguenza credo che il regolamento aziendale in questo campo possa e debba a sua volta essere regolato e indirizzato da norme procedurali esplicite e da principi costituzionali adeguatamente interpretati.

Non è difficile immaginare una riforma statutaria che istituzionalizzi i meccanismi che obbligano il datore di lavoro alla discrezione per tutto il tempo in cui vengono raccolti i dati richiesti dalla procedura processuale, ispirata alle norme di fondo dell’equità. Questo dovrebbe garantire sia il presunto molestatore (da ingerenze e accuse infondate) sia la persona molestata (da vendette o licenziamento immotivato). Dovrebbe anche servire da deterrente nei confronti della iper-regolamentazione se sostenuto dalla possibilità di fare causa in caso di violazione.

I requisiti delle garanzie processuali e delle norme obbligatorie di imparzialità inoltre indurrebbero i datori di lavoro ad applicare i regolamenti costantemente. Questo rappresenterebbe una protezione da un lato rispetto alla soppressione delle denunce di molestia e dall’altra di denuncie ingiuste nei confronti di colleghi con scarso potere.

In breve la molestia sessuale da ambiente ostile dovrebbe continuare ad essere perseguibile e i datori di lavoro dovrebbero continuare ad esserne ritenuti responsabili in ultima istanza. Ma gli incentivi all’iper-regolamentazione e o all’arbitrarietà nell’applicazione andrebbero controbilanciati dalle garanzie procedurali di imparzialità, di diritto di parola, di privacy e di espressione non discriminatoria. Così riformato, il modello del regolamento post-regolatorio ci permette di sottrarci al dilemma di dover scegliere tra regolamento sostanziale invasivo per raggiungere l’uguaglianza di genere e le conseguenze anti-ugualitarie dell’assenza di regolamento.

Il paradigma riflessivo può anche essere costruito come "meta-paradigma" che permette l’uso flessibile o la combinazione delle varie forme di legge nelle diverse circostanze. La legge riflessiva non è una panacea, ma il paradigma riflessivo offre una nuova forma di legge e una nuova cornice all’interno della quale si può operare la scelta tra tutte le forme possibili di giurisdizione. E questo è importante perché i rapporti intimi si creano in una molteplicità di luoghi, in casa e al lavoro, ma anche a scuola e negli spazi pubblici. Questo richiede forme diverse di regolamento, dalla proibizione netta (penale e civile come nel caso delle leggi contro lo stupro e la violenza da parte del marito o le leggi contro le molestie con ricatto), fino alle garanzie costituzionali della privacy personale e dell’autonomia decisionale (diritto di decidere per la contraccezione, e l’aborto, riservatezza sulla storia sessuale delle vittime di violenza carnale, ecc.) fino alle leggi riflessive che permettono l’autoregolazione collettiva del tipo sopra descritto. Quale sia la modalità di giuridicizzazione più adatta alla problematica in discussione va poi deciso contestualmente, seguendo però una serie di principi, guidati dalle norme di uguaglianza civile, autonomia personale e cittadinanza democratica.

 


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