Privacy, discriminazioni e violenze nel
dibattito americano e europeo
Marina Calloni
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Privacy, discriminazioni e violenze nel dibattito
americano e europeo
Del mio disincanto (Una scrittrice racconta)
Se il pluralismo è alla base della
democrazia, nello stesso modo le democrazie non possono che essere plurali. Il che accade
anche per quei dibattiti pubblici che sebbene trattino di problemi simili, tuttavia hanno
approcci ed esiti diversi. L'analoga ma anche differente discussione su violenza e
molestie sessuali avvenuta in Europa e negli Stati Uniti è la conferma di come culture
costituzionali diverse possano influire sulle relazioni di genere e viceversa. Negli Stati
Uniti le grandi controversie relative ai diritti riproduttivi sono sempre state incentrate
sul principio costituzionale della privacy, che intende da una parte incarnare l'idea
liberale della neutralità dello Stato su questioni di valore (l'emendamento I della
costituzione afferma infatti che lo Stato non può obbligare il cittadino a professare
alcuna specifica fede); mentre dall'altra vuole sostenere l'autonomia individuale rispetto
all'intrusione dello Stato. In particolare, il diritto alla privacy viene affermato
nell'emendamento XIV, quale derivato dai principi basilari di libertà e di uguaglianza.
Ma la concezione di privacy è mutata nel corso del tempo. Tale svolta avviene negli anni
Sessanta, quando da principio atto a proteggere la vita privata dell'individuo
dall'intrusione di terzi o dalla curiosità dei mass-media, la privacy diventa l'elemento
fondante dei diritti riproduttivi. La sua storia è dunque racchiusa entro il mutamento
dei concetti di intimità, libertà sessuale, pratiche sociali e loro ammissibilità.
Infatti sulla base del principio alla privacy negli anni Sessanta vennero amessi la
vendita e la somministrazione di anticoncezionali anche per nubili e celibi, mentre negli
anni Settanta venne ammessa dalla sentenza Roe vs. Wade emessa dalla Corte Suprema per
sostenere la liceità dell'aborto procurato (su ciò si veda: S..Scoglio, Privacy.
Diritto, filosofia, storia, Roma: Editori Riuniti, 1994).
A partire dagli anni Ottanta, il principio formale della privacy è stato tuttavia messo
in discussione soprattutto da parte di alcune femministe che hanno viceversa sottolineato
l'importanza del diritto all'uguaglianza. L'emergere della giurisprudenza e politica
femminista non ha solo ha mutato la tradizionale critica al patriarcato, bensì ha
impresso una notevole svolta all'interno del diritto civile (e dunque del codice penale),
così come è avvenuto per la violenza sessuale, le molestie e la questione della
cittadinanza connessa all'intimità.

A tale proposito, si veda
l'ormai noto studio di Catharine MacKinnon (che era stata tra l'altro l'avvocato difensore
di Anita Hill contro il giudice Thomas), dedicato a Sexual Harassment of Working Women
(1979), che viene considerato come l'iniziatore del dibattito sulle molestie sessuali. La
questione del "potere della sessualità maschile" viene qui analizzata dal punto
di vista delle asimmetrie di genere esplicantesi mediante forme di violenza e di molestie.
Soprattutto le lavoratrici vengono sottoposte a discriminazioni sessuali ed economiche, a
scapito dei principi di uguaglianza e pari opportunità. Il riconoscimento delle molestie
come forma di violenza sessuale ha pertanto permesso l'avvio di legislazioni
anti-discriminatorie e quindi la possibilità di relative condanne. Nonostante le
concordanze di fondo, tuttavia nel dibattito femminista degli anni Novanta si è venuta a
formare una polarizzazione fra le sostenitrici della priorità dell'uguaglianza da una
parte e le fautrici della privacy dall'altra. MacKinnon ritiene infatti che il diritto
alla privacy sarebbe contrario al principio di uguaglianza, poiché se inteso come
"diritto privato" esso diventa accessibile solo a pochi individui. Nella vita
sociale infatti, "il significato politico e ideologico della privacy - intesa come
dottrina legale - è connesso con le concrete conseguenze che la spaccatura fra pubblico/
privato ha sulle vite delle donne. Così alle donne è permesso l'aborto come un
privilegio privato e non come un diritto pubblico." (Feminism unmodified. Discourses
on Life and Law, 1993). Jean Cohen - di cui viene qui pubblicato un saggio - ha cercato
invece di elaborare una new privacy, integrando il tradizionale principio/ diritto alla
privacy con la concezione dell'identità e dell'inviolabilità della personalità, intesa
come embodied selves.
Nonostante sia stato messo a sua volta in discussione da una terza variante: quella
postmoderna sostenuta da Judith Butler, tuttavia il dibattito femminista statunitense è
sempre partito da una specifica costellazione costituzionale di tipo liberale messa poi
sotto criticata, a partire da un'ottica di genere. Con ciò, il dibattito statunitense
viene a differenziarsi dalle discussioni femministe avvenute in molti altri paesi europei,
dove è stato sostenuto un tipo di diritto sessuato, come basantesi su una teoria della
differenza sessuale.
Il dibattito sulla violenza sessuale in
Italia e in Europa
"Volevo i pantaloni" recitava il titolo di un libro pubblicato alcuni anni
orsono da un'adolescente siciliana che vedeva in tale "costume" la possibilità
di liberarsi dalle leggi oppressive del villaggio patriarcale. Mutatis mutandis, oggi
"vogliamo i blue jeans". Purtroppo non si tratta di una questione di moda, che
indica la "modernizzazione" della donna italiana. Si tratta invece di un
problema più grave che indica in controluce il ritardo cronico e la persistenza culturale
di certi stereotipi di genere che permangono in certa mentalità giuridica, facendo
regredire il patrimonio democratico accumulato. Alla luce della nostra sensibilità e
storia, sembra infatti incredibile dover ancor oggi leggere perentorie affermazioni legali
che rimandano invece a radicati pregiudizi paternalistici e ad assunzioni psicologiche
assolutamente controvertibili. Come afferma la recente sentenza della Corte di Cassazione
(11-2-1999): sarebbe "illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno
stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di subire altre ipotetiche, e
non certo più gravi, offese alla persona fisica." Il modello culturale che tale
passaggio sembra evocare è indubbiamente quello di Santa Maria Goretti, la vergine
indicata a tutte le fanciulle italiane come esempio di virtù, dal momento che preferì
farsi ammazzare dal suo violentatore, piuttosto che "cedere" alla sua violenza.
La democrazia italiana, se vuole essere davvero tale, deve dunque liberarsi anche da
questo complesso - in cui si vede per altro la paura di castrazione dell'uomo -, che di
fatto impedisce di accettare la donna come pieno soggetto di diritto.
La questione inquietante è in ogni caso il fatto che dietro a tale sentenza si adombrino
ancora resistenze psicologiche e culturali nell'accettare una legge sulla violenza
sessuale che è stata approvata dal parlamento italiano solo nel 1996 (n.66, 15-2-1996),
con un ritardo davvero inconcepibile per qualsiasi Stato democratico. Mentre gli altri
Paesi discutevano l'integrazione dei casi di molestia e di violenza psicologica nel codice
penale, in Italia si stava invece ancora cercando di convincere gli obiettori che la
violenza sessuale non riguardava la moralità, bensì era un crimine contro la persona.
Tale legge - che ha indicato per la prima volta solidarietà trasversali fra donne
in una sorta di lobby femminile - era in effetti l'unica battaglia civile su
"pubblico-privato" rimasta inspiegabilmente aperta dagli anni Settanta, in cui
si erano stati invece ottenuti il diritto di divorzio e aborto. Già nel 1979 erano state
infatti raccolte 387.00 firme per una riforma della precedente legge sullo stupro, emessa
durante il fascismo. Nell'immaginario di molti di noi si erano nel frattempo impressi i
fotogrammi di reportage relativi a "processi per stupro", in cui i visi delle
vittime si confondevano con angoscia fra le domande imbarazzanti e incalzanti degli
avvocati che difendevano gli aggressori e che riperpetuavano in chi aveva ricevuto
l'offesa un'ininspiegabile senso di colpa e di vergogna per l'essere state violate. La
recente sentenza spinge dunque ancora in avanti vecchi fantasmi che acquistano nuove
sembianze. Ancora una volta, si è venuta a mostrare un'immotivata tensione fra società
civile e istituzioni penali (che non hanno neppure mostrato sensibilità nell'uso del
linguaggio, per altro triviale), nonostante sia comune l'interesse non solo di punire i
violentatori, ma anche di approvare un'adeguata legislazione in materia di violenza
sessuale. Eppure le evidenze al riguardo sono molte, soprattutto con l'aumento del numero
degli adolescenti (maschi e femmine) sottoposti a diversificate forme di abusi. Su tali
questioni sono stati negli ultimi tempi pubblicati molti studi e sono stati organizzati
molti convegni, tra cui uno a Bologna qualche mese fa che riprendeva con decisione la
campagna lanciata dal Parlamento Europeo sulla "Zero Tollerance of Violence against
women".

Nel rapporto del 16 Luglio 1997, la
relatrice Marianne Eriksson sottolineava la necessità di prendere misure operative al
proposito, constatando che la violenza sessuale è un fenomeno diffuso ed in incremento.
Tale risoluzione venne poi votata da 419 membri del Parlamento Europeo con soli 2 contrari
e 5 astenuti. In effetti ci si trova di fronte alla necessità di ridefinire nel suo
complesso il fenomeno delle violenza attraverso le sue diversificate e recenti morfologie.
Il femminismo non ha infatti messo in luce la necessità di combattere solo la
prostituzione, la pornografia e il traffico di donne e bambini. Ha bensì
riconcettualizzato il "significato" stesso della violenza, a partire dai luoghi
del privato familiare. Una Dichiarazione votata dall'ONU e rinforzata nel 1995 a
Pechino durante la IV Conferenza mondiale sulle donne dà una chiara definizione di
violenza. Si tratta di tutti quegli "atti basati sul genere che si risolvono o
sembrano risolversi in un danno fisico, sessuale e psicologico, o nella sofferenza delle
donne, includendovi le minacce, oltre che la coercizione o la deprivazione arbitraria
della libertà". In particolare, se lo stupro viene definito come "un attacco e
una distruzione delle frontiere mentali e fisiche del Sé", la violenza domestica
viene sottratta dalle mura domestiche per essere introdotta nell'agenda politica e
giuridica quale urgente questione sociale. E le statistiche indicano l'aumento di tale
fenomeno. Sorprendente, ma viene stimato che in Svezia ogni 10 giorni una donna venga
uccisa quale risultato della violenza domestica. In Gran Bretagna si ritiene che solo 1
caso su 5 di violenza domestica venga denunciato. In Irlanda sarebbe il 18% le donne
soggette a diverse forme di violenza. In Germania 1/3 di donne avrebbe subito violenza
domestica durante la loro vita. Un'inchiesta condotta in Portogallo nel 1995 avrebbe
indicato che il 52% di donne intervistate avrebbero subito forme di violenza. Non si può
dunque tornare all'anno zero della lotta contro la violenza sessuale, bensì vedere i suoi
nuovi volti. E su tale problematica generale si sono ricompattate le reti delle donne a
livello mondiale, così come anche dimostrato dal dibattito internazionale via Internet su
"End Violence", quale preparazione di una videoconferenza mondiale sul tema. Il
riparlare di violenza sessuale in Italia significa dunque considerare il riperpetuarsi di
antiche usanze assieme all'affermarsi di nuove pratiche (come quelle relative al traffico
di donne e ai fenomeni di pedofilia).
Il faticoso iter sociale e culturale della legislazione italiana viene ora ben tracciato
nel volume curato dalla Commissione Nazionale per le Pari Opportunità su Violenza
sessuale: 20 anni per una legge (1997), in cui la giurisprudenza italiana viene
considerata alla luce del dibattito parlamentare, ma soprattutto della casistica e
dell'apporto dato dalle donne al proposito. Non si tratta però solo di storia, ma
anche di presente. Nel 1998 il Ministero per le Pari Opportunità italiano ha infatti
presentato all'ONU il terzo rapporto relativo alla "convenzione sull'eliminazione di
tutte le forme di discriminazione contro le donne". Qui si sottolineava la necessità
di introdurre nuove politiche sociali ricorrendo al mainstraming e all'empowerment e
mostrando la forza della "differenza di genere". Fra le molte minute indicazioni
che venivano riportate, vi era anche un capitolo dedicato alla violenza domestica, in cui
si legge che i casi denunciati fra il 1992 e il 1995 sono aumentati da 1907 a 2097.
Inoltre, i 1.800.000mila casi annualmente indicati come incidenti domestici possono invece
in gran parte essere attribuiti a forme di percussioni agite da uomini contro donne,
piuttosto che a fratture e traumi dovute a incidentali cadute. In molte città italiane
sono inoltre da anni in attività centri di accoglienza per donne e bambini seviziati
(Bologna, Milano, Roma, Venezia, Palermo, Merano, Parma, Modena, Reggio Emilia, Livorno).
Sulla base di tali elementi, è stata proposta una legge che intende capovolgere l'attuale
legislazione in cui sono le donne maltrattare a doversi rifugiare in case d'accoglienza,
affermando invece l'obbligo dell'allontanamento da casa del marito violento, in tutti quei
casi in cui se ne presentasse l'evidenza. Proposte legislative ed approfonditi studi su
violenza/ molestie sessuali in genere e su quella domestica in particolare hanno dunque
riportato la questione entro l'agenda politica. In un'importante ricerca su "La
sicurezza dei cittadini" (1998) condotta per l'ISTAT, Linda Laura Sabbadini indica
una specifica difficoltà per la scienza statistica nel rilevare appieno la gravità della
questione della violenza sessuale, pur sottolineando la necessità di "aprisi a nuovi
fenomeni".
La delicatezza del caso, la sensibilità individuale nel parlare dell'offesa e il risvolto
psico-emotivo del trauma rendono infatti molto spesso difficili i rilievi sull'esperienza
della violenza. Infatti, i numeri non sempre riescono ad esprimere appieno il peso reale e
le conseguenze psicologiche e sociali che atti di offesa possono avere sulla vita dei
cittadini nel corso del tempo, quale perdita dell'autostima e della sicurezza di sé.
Tuttavia, proprio sul "numero oscuro", sul fenomeno sommerso e sulle
connivenze sociali, Sabbadini lancia la sua sfida, cercando di tracciare un profilo delle
varie tipologie di violenza e molestie sessuali che accompagnano spesso l'esistenza
quotidiana di tutte le donne. "Una donna su due nel nostro Paese ha subito nel corso
della vita una molestia fisica, una telefonata oscena o forme di esibizionismo. 714mila
donne italiane hanno subito stupri o tentati stupri, e un'infima parte è stata
denunciata. Più di mezzo milione di donne hanno subito ricatti sessuali sul lavoro. Si
tratta di un fenomeno delinquenziale specificamente diretto contro più della metà della
cittadinanza di genere femminile, che va a cumularsi ai fenomeni delinquenziali che
colpiscono tutta la popolazione del nostro paese." Non è un fenomeno agito solo da
estranei, ma soprattutto da parenti e conoscenti. La violenza può dunque avere un volto
"familiare", ma proprio per questo è più grave e inquietante. E' infatti la
sorpresa e il terrore di essere stati violati o di poter essere umiliati da parte di
coloro di cui si ha fiducia, tanto da non temere aggressioni. La sicurezza sociale passa
dunque anche attraverso l'attuazione di misure preventive contro ogni tipo di violenza
sessuale e molestia. La lotta contro la violenza sessuale è però solo parte della
necessità più globale di riformulare in toto la critica della violenza, a partire dal
"privato". Una cittadinanza che voglia dirsi soddisfatta deve infatti basarsi
sul pieno rispetto e sul potenziamento delle capacità e delle volontà di individui -
uomini e donne - liberamente consociati, possibilità che l'esperienza mutilante della
violazione viene invece a precludere.
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