Guerra/Arkan: 47 candeline per un carnefice
Alberto Nerazzini
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A Belgrado, fare il nome di Zeljko Raznatovic ha sempre scatenato
reazioni diverse. Qualche tempo fa, il brillante giornalista Milos Vasic, forse il più
conosciuto tra i pochi cronisti indipendenti della capitale jugoslava, con tono lapidario
parlava di lui come della "peggior vergogna del popolo serbo". Ma per buona
parte di quello stesso popolo, Arkan è sempre rimasto un eroe nazionale, un "grande
serbo". C'era anche chi lo difendeva dall'Italia, vantandosi di conoscerlo
personalmente. Basti pensare a due celebrità del nostro campionato di calcio, il
serbo-croato Sinisa Mihajlovic e il montenegrino Dejan Savicevic. Entrambi hanno sempre
approfittato di ogni occasione buona per difenderlo apertamente dalle accuse di genocidio
che mezzo mondo gli rivoltava contro. Tutto questo, dicevamo, accadeva solo qualche anno
fa. Gli scontri in Bosnia si erano da poco conclusi, e in una cittadina dell'Ohio, Dayton,
le parti in conflitto raggiungevano, con la benedizione americana, un accordo di pace.

Arkan era tornato a vivere stabilmente a Belgrado, e dalla pulizia
etnica era passato direttamente alla gestione dei suoi mille loschi affari. Da allora
molto e forse troppo poco è cambiato. La guerra è tornata nei Balcani, in questa terra
dove il risentimento e l'odio etnico sembrano essere stati sempre di casa (anche se questa
- può apparire banale, ma è bene ricordarlo - è una guerra diversa). E in tempi come
questi si torna a parlare del signor Raznatovic, per tutti Arkan, il comandante delle
terribili "Tigri", le truppe paramilitari serbe, mentre nel Kosovo bruciano i
villaggi degli albanesi e lunghi fiumi umani, lenti e disperati, valicano i confini
macedone e albanese. Dopo otto anni di conflitti, oltre 250 mila morti e migliaia di
villaggi divorati dalle fiamme, dalla Croazia alla Bosnia, dalla Bosnia alla Serbia, le
immagini di queste settimane ci risultano famigliari. E di questa ennesima tragedia
conosciamo già i protagonisti. Ma a Belgrado le centinaia di migliaia di persone che poco
più di due anni fa, nell'inverno 1996-1997, manifestavano contro Milosevic sono un
ricordo lontano, lontanissimo. Di quella opposizione forte e impressionante, fino a poco
tempo fa sfinita, ora non c'è più traccia. Uno dei leader di quelle piazze, Vuk
Draskovic, dopo essere passato dalla parte di Milosevic e avere ottenuto la nomina di vice
presidente del Consiglio della Federazione jugoslava, non ha perduto la caratteristica
aggressività che oggi, però, scaglia contro le bombe della Nato. In questa Belgrado
snervata, dove l'effetto coagulante dei missili che arrivano da occidente ha spento le
ultime voci indipendenti dal regime e ha riunito un popolo, sabato 17 aprile Arkan
festeggia il suo quarantasettesimo compleanno.
Quarantasette anni vissuti appieno, durante i quali ha impersonificato
mille ruoli diversi: rapinatore di banche, pasticciere, uomo politico, sporco
imprenditore, proprietario di una squadra di calcio, prolifico padre di famiglia e,
soprattutto, orribile criminale nelle guerre di Bosnia e Croazia.

Figlio di un ufficiale della Jna, l'armata popolare jugoslava,
l'ultranazionalista serbo Arkan nasce a Brezica, in Slovenia. Dalla più tenera età
mostra un'eccezionale vivacità: ha soltanto nove anni quando scappa di casa per la prima
volta e ne ha meno di diciotto quando viene arrestato per la rapina in un bar di Zagabria
e conosce il primo di una lunga serie di penitenziari. Negli anni Settanta si aggira per
l'Europa, svolgendo attività spionistica per conto dell'Udba, la polizia segreta
jugoslava, anche compiendo missioni contro emigrati poco graditi al Partito. In cambio i
servizi gli offrono protezione, armi e documenti falsi, tutti mezzi che Arkan sfrutta per
la sua carriera di insaziabile rapinatore: in Svezia, in Olanda, in Belgio e anche in
Italia, dove è imprigionato a San Vittore e organizza una rivolta nel carcere. Negli anni
Ottanta, dopo numerose evasioni, condanne per venticinque anni e un bottino non
indifferente, fa ritorno a Belgrado. Acquista una bella casa e diventa rapidamente il
leader della tifoseria della Stella Rossa, la Crvena Zvezda, la Signora del calcio
jugoslavo.
Proprio sugli spalti del Marakana si forma l'Arkan nazionalista: unisce
le diverse fazioni in cui sono divisi gli ultrà in nome di Slobodan Milosevic e in dono
dalla dirigenza della squadra riceve una pasticceria, che diviene il "covo" dei
suoi uomini. Quando inizia la guerra con la Croazia, i vertici jugoslavi pensano a lui per
organizzare le milizie di volontari. Volontari che Raznatovic non fatica a reclutare,
attingendo tra i tifosi del Marakana e nelle carceri belgradesi, imbottite di criminali
comuni in cerca di avventura. Alla fine del 1991 è già il Comandante della Guardia
volontaria serba, le addestratissime "Tigri" protagoniste dell'orrore di
Vukovar. I già citati Savicevic e Mihajlovic di certo ricorderanno quella giornata del
dicembre 1991, quando, reduci dalla vittoria nella Coppa Intercontinentale a Tokyo, ad
accogliere i giocatori della Stella Rossa, la loro squadra di allora, all'aeroporto di
Belgrado trovano l'"amico" Raznatovic. E da qualche parte, forse, conserveranno
ancora il curioso dono, una zolla di terra della Slavonia a testa, ricevuto dalle mani di
Arkan con la promessa di "liberarla" tutta. Le "Tigri" rimangono in
attività fino all'ultimo giorno di guerra in Bosnia, distinguendosi per le efferatezze
gratuite e coordinando le ondate di pulizia etnica a Banja Luka, Sanski Most, Prijedor. Se
oggi Arkan è miliardario, lo deve principalmente alla guerra: gli innumerevoli saccheggi,
il contrabbando di armi, benzina, armi e sigarette, il traffico della macchine rubate.
Tutte fonti delle ricchezze che il Comandante ha sempre ostentato nella sua vita
belgradese.
Nel giorno del suo compleanno numero quarantasette, per Arkan in
realtà da festeggiare non c'è molto. Nei giorni scorsi il procuratore capo del Tribunale
dell'Aja, la canadese Louise Arbour, ha finalmente ufficializzato il suo mandato di
cattura, rendendo pubblica un'incriminazione per crimini contro l'umanità risalente al 30
settembre del 1997. La Corte dell'Onu aveva deciso di tenere segreti gli atti d'accusa e
il mandato nella speranza di facilitare un arresto al di fuori dei confini jugoslavi.
Speranza in fondo vana, poiché Raznatovic già da anni non viaggiava all'estero, essendo
rincorso da una sfilza di ordini d'arresto dell'Interpol per rapina e omicidio (sono ben
177 le polizie dei Paesi con dossier intitolati a suo nome). Va comunque segnalato che, a
differenza del governo di Milosevic, pronto a rifiutare il mandato di arresto per Arkan,
lo stesso uomo incriminato ha deciso di contattare il Tribunale per mezzo del suo
avvocato, come ha confermato il procuratore Blewitt, annunciando di essere in attesa della
deposizione. Ciò non toglie che Raznatovic, in seguito alla pubblicazione del mandato di
cattura, che è soprattutto un preciso avvertimento al Presidente jugoslavo, abbia
approfittato delle telecamere della Cnn per attaccare la Corte dell'Aja: "È un
tribunale politico", ha detto, "appositamente creato in funzione
antiserba". Le stesse parole usate nel febbraio 1996, quando furono consegnati
all'Aja due alti ufficiali serbo-bosniaci, e Arkan insultò i componenti del Tribunale,
"diretti discendenti dei fascisti responsabili del genocidio dei serbi e degli
ebrei".

Per quanto riguarda la guerra del Kosovo, di certo Arkan non è stato
colto di sorpresa. L'intervento della Nato era diventato inevitabile: lo avevano cercato
sia l'intransigenza di Milosevic, sia quella degli americani (lo stesso Henry Kissinger ha
criticato Clinton per aver portato a Rambouillet una soluzione inaccettabile per i serbi).
E da giorni sui giornali dei Paesi in guerra si susseguono le notizie sul temuto Arkan,
che in Kosovo ripeterebbe le schifose azioni di guerra cui ci ha abituato negli anni
passati. Proprio in queste ultime ore dal sottosegretario alla Difesa britannico, George
Robertson, abbiamo appreso che anche il generale Ratko Mladic, ex comandante dell'esercito
serbo-bosniaco, è tornato in attività. Niente di più probabile. Ma rimane la sensazione
di un'informazione generalmente precaria e faticosa, anche da questa parte. E con ciò non
intendiamo fare alcun paragone con la tremenda propaganda, o meglio disinformazione che
Milosevic ha organizzato nel suo Paese (siamo poi così sicuri che i serbi di Belgrado non
siano a conoscenza di ciò che sta succedendo in Kosovo? Alcuni degli interlocutori di
Santoro, l'altra sera, dal ponte Brankov citavano la Cnn e i quotidiani stranieri. Il
meccanismo complesso messo in moto dal Presidente jugoslavo è piuttosto ancora frutto
della disinformazione pre-bellica che ha caratterizzato la fine degli anni Ottanta e di
cui Paolo Rumiz parla nel suo Maschere per un massacro, Editori Riuniti, 1996).
Arkan ovviamente nega di essere presente in Kosovo, né di avere
inviato i suoi uomini. Le smentite, più che altro di tipo sentimentale, arrivano per
mezzo del suo portavoce e socio in affari, il molisano Giovanni Di Stefano, detto Johnny,
raggiunto telefonicamente a Bruxelles, dove, in veste di rappresentante del governo
dell'"amico Milosevic", lavora per una soluzione politica del conflitto:
"Arkan non si è mai spostato da Belgrado. Non ucciderebbe mai un albanese del
Kosovo", giura Di Stefano, "è profondamente legato a quella terra e a quella
gente. La stessa madre di Arkan è di Pristina, la città che nel 1992 lo ha eletto come
indipendente nel Parlamento jugoslavo" (il partito di Raznatovic e Di Stefano, l'Ssj,
Partito dell'unità serba, oggi conta solo 3 deputati montenegrini). Johnny Di Stefano è
anche vicepresidente della squadra di calcio Campione di Jugoslavia Obilic Belgrado,
acquistata tre anni fa da Raznatovic. Nelle partite giocate in Europa è stata la moglie e
presidente del team Ceca a seguire l'Obilic, appunto perché Arkan è stato costretto a
restare a Belgrado per evitare un arresto.
E il fatto che il nome della squadra, intitolata all'eroe serbo Milos
Obilic - che, per la tradizione, sul Kosovo polje, nel 1389, uccise il sultano turco Murad
I - testimonierebbe ancora una volta l'amore di Arkan per quella terra, "culla"
della Serbia. Ragioni sentimentali a parte, rimane la tragedia di un popolo. E potrebbe
anche essere come Arkan vuole farci credere, cioè che le sue truppe non siano ancora
entrate in azione. Anche perché, come ha detto qualcuno, oggi Raznatovic è "il
principale prodotto serbo di esportazione giornalistica": riempie le pagine dei
giornali, con la sua miscela di terrore e folklore. È stato scritto molto. Per esempio
che può contare su 30 mila uomini, quando le "Tigri" di oggi non sarebbero più
di mezzo migliaio. Uomini comunque pronti a combattere in caso di un intervento di terra,
mentre per le espulsioni e la pulizia etnica possono bastare i regolari dell'esercito
federale.
Ciò che è certo è che, anche tra "effetti collaterali" e
"profondi rammarici", questa guerra deve continuare e non sarà pulita, come ha
dichiarato il ministro degli Esteri statunitense Cohen. E per il tanto atteso epilogo
della storia del criminale Arkan bisogna attendere la caduta di Slobodan Milosevic.
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