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Archivio/Intervista sulla minaccia capitalistica (1997)

Giancarlo Bosetti

 

 

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Questa intervista a George a Soros risale al novembre del 1997 e fu realizzata per l’Unita’ all’epoca della crisi coreana in occasione della pubblicazione in Italia, nella collana dei libri di Reset, di “La minaccia capitalistica”. In quel libro erano gia’ sviluppati molti temi ripresi ora con “La crisi del capitalismo globale”.


New York - Dietro le vetrate del trentaduesimo piano di questo grattacielo grigio e senza segni particolari, uffici e basta - i turisti qui vicino alla Carnegie Hall sono moltissimi, ma vedo che nessuno ritiene che meriti di alzare lo sguardo - lavora George Soros. L’appuntamento e’ per l’ora di pranzo, le 12 e 30. Si mangia presto, non come a Roma. Lui lascia la sua scrivania e ci spostiamo in un’altra stanza. A una estremita’ del lungo tavolo da riunioni sono preparati due coperti. Per trovare gli uffici di Soros, giu’ al pianterreno avevo dovuto cercare le targhette, piu’ o meno come quelle di un notaio qualsiasi. A due passi da qui nella calca della zona cruciale della quinta strada frotte di turisti contemplano la Trump Tower, orgia di rame e marmo rosso, fontane, cascate, borchie dorate. La scritta “Trump” (Donald, edilizia e altro) e’ grande come quella di “Togni” sui tendoni dei circhi. Differenze di stile.
Eppure da qui il finanziere-speculatore tiene i fili non solo del suo primo lavoro, il Soros Fund e tutto il resto, ma anche del secondo, le fondazioni “Societa’ aperta”, l’attivita’ cosiddetta filantropica, quella legata all’altra faccia della sua storia: gli studi alla London School of Economics, l’incontro con Popper, la passione politica liberale, le fasi alterne del suo impegno nella teoria filosofica, che ora sembra riaffacciarsi. Sono qui da lui per parlare del piccolo libro che ora in Italia viene pubblicato da “Reset”, “La minaccia capitalistica” e che raccoglie la discussione che lui ha aperto con il saggio che porta quel titolo. Vargas Llosa l’aveva criticato con violenza. E infatti e’ un attacco chiaro e durissimo all’ideologia neoliberale, ai profeti della globalizzazione, al mito del laissez-faire su scala internazionale. L’argomentazione e’ sostenuta con i classici strumenti popperiani: fallibilismo, rifiuto dei dogmi, riformismo, gradualismo.
Soros sa benissimo - lo dice - che i soldi danno peso agli argomenti e ne approfitta deliberatamente. Il famoso assalto alla sterlina del ’92, che gli frutto’ un miliardo di dollari in un intenso pomeriggio di lavoro, non solo lo ha reso celebre, ma ha incrementato vertiginosamente la sua capacita’ di farsi rispondere al telefono. Non che prima fosse povero e trascurato, ma non riusciva a parlare subito con la Thatcher o Bush, gli passavano un sottosegretario. Adesso non si nega piu’ nessuno. Quanto alla filosofia, ci va cauto, ma si capisce che gli piacerebbe sviluppare la sua teoria della riflessivita’ fino a farne uno strumento generale di interpretazione dei fenomeni sociali e dell’economia almeno quanto gli piace incrementare gli utili del Quantum Fund. E forse persino un po’ di piu’. Intanto, mentre in Italia esce il libro di “Reset”, sta preparando un altro saggio.

Lei, Mr. Soros, ha sempre messo in guardia contro il rischio di un collasso del sistema, non solo dopo l’ultimo crack finanziario. Non e’ curioso: uno speculatore che chiede di regolare di piu’ i mercati e si batte contro l’eccesso di laissez-faire?
Mi propongo due obiettivi: uno e’ quello di migliorare il sistema, introducendovi maggiore giustizia sociale e limitandone gli aspetti negativi e dolorosi; l’altro e’ quello di preservarlo, il sistema, perche’ e’ instabile e tende verso il crollo se non ce ne rendiamo conto in tempo e non facciamo qualcosa per stabilizzarlo. Guardi, proprio ora siamo in una fase dello sviluppo del sistema capitalistico globale che richiede la massima attenzione. C’e’ una grande crisi finanziaria nel mondo ed io vedo chiaramente la possibilita’ di un crollo.

 

Qual e’ il punto piu’ debole del sistema? E’ l’Estremo Oriente, la Corea?
E’ l’intero sistema finanziario e bancario internazionale, perche’ la crisi riguarda il modo in cui i capitali si muovono in tuttoil mondo. Questa e’ la terza maggiore crisi. La prima e’ stata quella dell’82 ed era nata dai prestiti internazionali a stati debitori, come Messico, Brasile ed altri, che non potevano piu’ pagare. La seconda e’ arrivata nel dicembre 1994; e’ partita ancora il Messico che accumulava debito ed emetteva buoni fino al crollo. Stavolta invece e’ partita dalla Tailandia e si e’ allargata al resto dell’Est Asia, ora alla Corea. E da li’ si allarga sul Giappone, e poi naturalmente in Russia ed in Ucraina, anche se questa ha appena cominciato a chiedere prestiti. La cosa singolare e’ che questa e’ la piu’ grave delle tre crisi eppure l’esito piu’ probabile e’ che verra’ superata. Ma c’e’ una reale possibilita’, anche se relativamente piccola, che la crisi si aggravi e provochi un collasso anche del commercio internazionale. Il che puo’ accadere anche in pochissimi giorni.

D. Da che cosa dipende questa possibilita’?
R. Potrebbe accadere che la Corea non riesca a contenere la crisi bancaria al suo interno, che non consenta fallimenti di singole banche ed intervenga per salvarle. In questo caso potrebbe accumulare obbligazioni alle quali poi non potrebbe far fronte. E questo potrebbe riflettersi sul Fondo monetario internazionale e su una generale sfiducia nei debiti degli stati. L’altra possibilita’ di una crisi rovinosa e’ che la Corea, che ora sta svalutando perche’ non riesce a proteggere la sua valuta, venda la sua produzione a qualunque prezzo facendo del dumping internazionale. Il che farebbe anche bene a tutta l’economia mondiale perche’ abbasserebbe la pressione inflazionistica soprattutto in America, ma quel bene potrebbe anche diventare troppo nel senso che un eccesso di dumping da parte della Corea si estenderebbe anche al Giappone e ad altri paesi asiatici. Allora ci sarebbe una svalutazione competitiva in Asia che spingerebbe al protezionismo l’America e l’Europa. Di qui un altro modo di mettere in pericolo il sistema.

D. Ma lei vede il rischio di un collasso che coinvolga l’America e l’Europa occidentale?
R. No, penso che gli Stati Uniti beneficino attualmente della crisi inmodo molto netto perche’ essa consente alla fase di prosperita’ di durare piu’ a lungo; infatti senza questa crisi avrebbero dovuto alzare il tasso di interesse e questo avrebbe rallentato l’economia. Cosi’ invece il rallentamento e’ bilanciato da benefici commerciali che hanno lo stesso effetto di un rialzo dei tassi. Questa condizione positiva dell’economia americana permette ai paesi che hanno un debitotroppo alto di pagarlo esportando piu’ di quanto importino. In questo modo il sistema si regge perche’ bilancia fattori diversi: una profonda recessione nei paesi debitori, che cosi’ esportano di piu’ e importano di meno, e possono pagare o ridurre il debito.

D. In caso di tracollo finanziario si capisce che molta gente sarebbe rovinata, ma quali sarebbero le conseguenze sull’economia, sull’industria, sui consumi, il lavoro?
R. Gli effetti sarebberoinevitabilmente negativi nei paesi dove c’e’ la crisi: Tailandia, Malesia, Indonesia, Corea: un sacco di gente licenziata perche’ le aziende chiudono. La crisi finanziariua avrebbe un effetto molto concreto: depressione nell’Est asiatico. Invece in America l’effetto sarebbe positivo. Bene qui , male la’. Si accentuerebbe molto la differenza tra lo stare al centro e alla periferia del sistema internazionale.

D. Qualche volta lei parla dell’Unione europa come di un processo soggetto al rischio di una disintegrazione catastrofica.
R. Credo che la disintegrazione europea avrebbe conseguenze catastrofiche per ragioni sia finanziarie che politiche, perche’ fondamentalmente l’Europa ha alle spalle una lunga storia di guerre e se non si completa l’Unione si trona a quell’equilibrio di poteri del passato che ogni tanto precipita in guerre. Ma anche in termini di prosperita’ se non si stabilizza un mercato comune ci sara’ lo stesso tipo di instabilita’ che vediamo nel Sud Est asiatico. Senza moneta comune l’Europa soffrirebbe lo stesso genere di tempeste valutarie che vediamo in quei paesi. Non dimentichiamo che quando il meccanismo europeo dei cambi si ruppe e l’Italia svaluto’, in Francia si fece molto rumore circa il fatto che bisognava difendersi dall’iniqua competizione dei prodotti italiani. Gli Stati Uniti e l’Unione Europa sono molto meno vulnerabili dai disordini valutari perche’ hanno un grande mercato interno. E dentro questo mercato una valuta stabile.

D. Il futuro e’ aperto,come si dice, e dipende da quello che faranno gli attori in scena. Uno di questi e’ la Bundesbank. Lei ha scritto qui c’e’ un punto di resistenza, dal momento che ogni istituzione si difende: mettere l’euro al posto del marco e’ un passo molto duro…
R. Proprio cosi’. Guardi quanta resistenza viene dalla Germania ad accettare l’Italia nella moneta comune. Tuttavia credo che, a dispetto diogni resistenza, la moneta comune stia andando avanti e che la Bundesbank abbia incontratouna forza ancora maggiore della sua. E si tratta di Kohl. Anche al momento della riunificazione tedesca fu lui a decidere quale doveva essere il tasso di cambio contro le proteste della Bundesbank. Poehl si dimise perche’ disapprovava, ma si ando’ avanti come voleva Kohl. Percio’ io ho sempre scommesso volentieri sulla Bundesbank contro le altre valute, ma non scommetto volentieri sulla Bundesbank contro Kohl.

D. Mr. Soros, mentre la scena valutaria mondiale e’ cosi’ movimentata, lei interviene con degli scritti che parlano di economia ma soprattutto di teoria e filosofia. Lei mette accanto all’idea popperiana di “societa’ aperta” la sua personale “teoria della riflessivita’”. Ci spiega che cosa e’?
R. La mia convinzione, che deriva dal pensiero di Popper’, e’ che dobbiamo riconoscere che gli esseri umani partecipano ai fatti sociali non come entita’ inorganiche ma come soggetti pensanti e percio’ non si puo’ agire sulla base di una conoscenza scientifica. Questa e’ possibile solo per osservatori esterni, quali noi non siamo. Cerco di spiegarmi inmodo ancopra piu’ semplice e adatto a un giornale quotidiano: l’idea e’ che gli esseri umani devono riconoscere che la nostra comprensione dei fatti e’ intrinsecamente imperfetta, che le nostre azioni hanno conseguenze impreviste, nel senso che il loro esito e’ diverso dalle intenzioni, e che percio’ ogni disegno di un mondo perfetto e di una societa’ perfetta e’ destinato a realizzarsi in modo imperfetto. Dobbiamo dunque accettare che la perfezione non sia raggiungibile ed accontentarci di un “second best”, vale a dire di una societa’ imperfetta ma che noi possiamo migliorare. La “societa’ aperta” e’ aperta prima di tutto non solo nel senso che la gente possa entrare e uscire all’esterno, cambiare il suo status e la sua posizione dentro la societa’, ma nel senso che e’ aperta al futuro, al cambiamento, al miglioramento.

D. Naturalmente bisogna vedere di quali miglioramenti si tratta.
R. E gente diversa avra’ idee diverse su che cosa significa miglioramento. Io ho le mie. Per esempio nella situazione attuale credo che non si possa avere una economia globale senza una societa’ globale. Non basta un mercato per fare una societa’, questa e’ una idea falsa. Io mi oppongo al “laissez-faire” neoliberale perche’ non tutti i valori di cui una societa’ ha bisogno sono espressi dai mercati. I mercati riflettono semplicemente i valori che i partecipanti individuali pagano volontariamente ad altri partecipanti, non riflettono valori comuni. Non riflettono, per esempio, il valore dell’aria, il valore della liberta’, il valore della giustizia sociale. Questi valori dobbiamo introdurli con il consenso comune, attraverso un processo politico. Io parlo spesso della deficienza dei mercati, ma noi oggi abbiamo a che fare con la deficienza del processo politico, delle democrazie e del modo come funzionano. Soprattutto quello che ci manca e’ un processo politico a livello della societa’ globale, perche’ c’e’ molto poca cooperazione tra stati sovrani. E questo determina un vuoto.

D. Qualche volta lei ha spiegato la differenza tra societa’ aperte e chiuse come differenza tra sistemi dinamici e statici. Che cosa significa?
R. Un sistema aperto e’ aperto prima di tutto al cambiamento, un sistema chiuso definisce invece un programma, un dogma che chi ha il potere impone a tutti gli altri. Anche i sistemi chiusi cambiano ma non possono ammetterlo. La realta’ cambia, ma la visione ufficiale e’ fissa. Col tempo dogma e realta’ si allontanano e puo’ accadere che la tensione tra i due diventi cosi’ forte che il dogma si fa insostenibile. E’ a quel punto che il sistema crolla.

D. Ma anche le societa’ aperte non sono al riparo dai disastri economici e sociali.
R. Si’ ma questo on significa altro che noi operiamo con una comprensione imperfetta della realta’. E’ nella natura di un sistema dinamico che non si possa prevedere quello che accadra’ e percio’ non se ne ha neppure il controllo. Vede, per esempio io so bene in che sistema viviamo e come sono collegati tra loro i mercati finanziari, ma se mi si chiede come andra’ a finire non posso dirlo. Non si puo’ anticipare quello che accadra’ perche’ non e’ determinato, dipende da come la gente agira’ sulla base dei fatti e di una reazione ai fatti governata da una conoscenza imperfetta (la riflessivita’).

D. Qualche volta lei sembra alla ricerca di una teoria generale della societa’ e della storia.
R. Io rifiuto, come Popper, ogni pretesa di interpretare scientificamente la storia, ricavandone delle leggi generali, come nel marxismo. La base della teoria della riflessivita’ sta nell’abbandono delle false analogie con le scienze naturali, perche’ abbiamo a che fare con soggetti pensanti che agiscono sulla base di valutazioni, giuste o sbagliate, non determinabili. Non sono d’accordo con Popper invece quando estende il suo modello di conoscenza nomologico deduttiva ai fatti sociali. Credo che dobbiamo abbandonare anche la metafora contenuta nel concetto di “scienza sociale”. Non c’e’ unita’ della scienza. Abbiamo bisogno, certo, di cercare la verita’ anche nei fatti sociali, abbiamo bisogno di una teoria, ma dobbiamo riconoscere che non puo’ essere scientifica, non puo’ avere il rango di scienza, non deve pretendere capacita’ predittive. Questa e’ una conseguenza inveitabile dell’accettazione del principio di fallibilita’.

D. E questo vale anche per l’economia?
R. Certo, anche la teoria economica, che fornisce delle generalizzazioni e predizioni sui mercati, fallisce nell’intento dicogliere la natura dei mercati, specialmente di quelli finanziari. Essa fornisce una teoria dell’equilibrio, quando in realta’ i mercati sono in disequilibrio. Avremmo bisogno di una teoria generale del disequilibrio di genere tutto diverso.

D. Il libro insiste molto sulla fragilita’ della societa’ aperta, sui pericoli che corre, sul fatto che essa non riesce a mobilitare energie ideali come altre utopie.
R. La societa’ aperta ha bisogno di riaffermarsi e reinventarsi praticamente per ogni generazione. Ma la grande scoperta che ho fatto dopo il collasso dell’Unione sovietica, e’ che la societa’ aperta non e’ minacciata solo dalle societa’ chiuse e dalle ideologie totalitarie. E’ minacciata anche dalla mancanza disocieta’. E’ quello che vediamo chiaramente nella Russia di oggi. Lo spiega benissimo nel suo saggio Stephen Holmes: e’ illuminante l’idea che uno stato debole minaccia la societa’ aperta. Il nostro problema di oggi e’ che c’e’ una economia globale, ma non c’e’ una societa’ globale. Questa e’ una grande minaccia alla coesione sociale, con cui dobbiamo vedercela.

D. Nell’epoca della competizione globale lei ha un’idea dell’individuo molto poco eroica, molto poco trionfale.
R. L’idea di individuo e’ davvero la pietra portante della moderna concezione della democrazia e della liberta’. Tutta la nostra visione si basa sull’individuo come ultimo giudice e sulla sua liberta’ come criterio guida per una buona societa’. E’ certo tuttavia che questo io, questo soggetto, questo individuo non e’ abbastanza forte per reggere tutto il peso della costruzione. Perche’ l’individuo, in se’, non e’ quell’essere razionale che ci siamo figurati, dotato di un sistema di valori ben fondati e solidamente costruiti. L’individuo in realta’ e’ una entita’ incompleta, e’ molto influenzato dalla tradizione, dalsuo ambiente, e’ capace di abbandonare certi valori e assumerne altri. Percio’ la stabilita’ non e’ garantita. Il problema e’ che speravamo di fondare la nostra moderna concezione della liberta’ e del bene sociale, basandola suun individuo unencumbered, mentre abbiamo a che fare con un individuo encumbered e non razionale come quello immaginato dagli illuministi. Dopo duecento anni di eta’ della Ragione dovremmo riconoscere i limiti della Ragione e sostituire o ricostruire il nostro concetto di societa’ basandolo sulla fallibilita’ degli individui e non solla loro razionalita’.


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