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L'Unita', il giornale politico (fuori mercato) cerca un'anima

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Questo articolo e' apparso su "Il Foglio" (http://www.ilfoglio.it) di lunedi' 18 gennaio.

Torna in edicola dopo una crisi (solo rinviata). Piccola storia del quotidiano comunista, dei suoi vizi e vezzi, dei suoi dolori e delle sue glorie. Alcuni illustri direttori dicono: è come il suo partito, ha perso l'anima. Ma per decenni fu scuola, tribuna autorevole e molto altro ancora...

L'Unità è tornata in edicola, dopo tre giorni di sciopero, assemblee di redazione fiume e trattative con gli editori privati che dal '98 la controllano al 75% mediate da Palazzo Chigi dove un premier ex direttore siede circondato da consiglieri ex giornalisti del quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci. Sollievo e soddisfazione: gli 80 licenziamenti sono congelati, e così anche la chiusura delle redazioni di Bologna e Firenze.Ma tutti sanno - dal partito di riferimento ai 190 giornalisti - che la resa dei conti è solo rinviata. I dipendenti restano troppi, i costi pure, e gli editori dovranno comunque portare a compimento una ristrutturazione dolorosa che, anche nelle stanze grigie e un po' spoglie della redazione di via del Tritone a Roma, viene giudicata ormai non più scongiurabile.

L'Unità è in crisi ("Ma quando mai non lo è stata: si parlava di crisi già 25 anni fa, quando arrivai io.Il miracolo è che sia durata fino a oggi", sospira Nando Adornato, che dirige Liberal e che fu negli anni Ottanta l'inventore delle pagine "Cultura e spettacoli"). Crisi di vendite, economica, ma soprattutto di ruolo e identità di un giornale che volle essere "il Corriere della Sera del proletariato" ("Palmiro Togliatti ce lo spiegò così, all'indomani della Liberazione - ricorda un illustre ex direttore, Alfredo Reichlin - Voleva un grande giornale popolare che facesse compiutamente da contraltare alla stampa borghese, dando ai lettori oltre alla propaganda anche lo sport, la cronaca nera, il cinema.Lo è diventato, ma nel frattempo ha perso l'anima"). L'Unità fu la voce e il cuore del Pci, il braccio che ne diffondeva capillarmente la linea e il messaggio, superando di slancio il milione di copie diffuse nelle giornate fatidiche come il 1° maggio; la sua crisi rischia di deflagrare proprio quando gli eredi di quella linea approdano alla piena gestione del potere di governo. "C'è una crisi di funzione - spiega il direttore Paolo Gambescia - Una volta l'Unità svolgeva un compito politico primario per il Pci, in un'Italia in cui l'informazione pubblica e i grandi giornali non parlavano di comunisti neanche a morire. Ma il giornale non ha mai perso ruolo e autorevolezza.Per il mondo della cultura, della politica, dello spettacolo l'Unità resta un punto di riferimento indispensabile. La contraddizione sta nel fatto che ha smesso di esserlo per il popolo dei militanti".

Niente più mercato protetto Non esiste più quel "mercato protetto" assicurato dagli iscritti al Pci, disposti ad alzarsi all'alba della domenica per fare la diffusione militante e a comprare il "loro" giornale a 5.000 lire nei momenti di difficoltà, come ricorda Emanuele Macaluso, che dall'82 all'86 guidò la testata attraverso un'altra fase di smarrimento e di pesanti ristrutturazioni."I 1.250 dipendenti furono quasi dimezzati, le redazioni di Torino e Genova chiuse - ricorda - La tardiva introduzione dell'elettronica ebbe costi altissimi.A volte dovevo trovare i soldi per l'inchiostro della tipografia, se no non si usciva. Ma le vendite straordinarie furono un successo clamoroso e l'appoggio del partito fu corale.Allora l'Unità era la pupilla del Pci, ora non è neppure il dito mignolo: il giornale riflette la crisi esistenziale di un partito che non sa più cos'è". Lo emoziona ancora il ricordo di quei sette giorni dell'84, quando l'Unità si trovò a raccontare la malattia di Enrico Berlinguer, culminati in quel titolo secco: "E' morto".

Macaluso giunse come direttore a via dei Taurini (sede storica fino al '92) dopo l'incidente del falso documento Cirillo sulle trattative tra esponenti della Dc e la camorra per ottenere la liberazione dell'assessore napoletano rapito dalle Br, fatto poi confermato dalle inchieste giudiziarie, che segnò uno spartiacque nella storia del giornale. "Da quel momento in poi, per i militanti, Unità smise di far rima con verità", ricorda un veterano della redazione come Vincenzo Vasile, e Forattini disegnò su Repubblica un'Unità stampata su carta igienica. L'incidente costò la direzione a Claudio Petruccioli, uno dei dirigenti del Pci-Pds dell'ultima generazione che si fece le ossa al giornale. Come fu subito dopo la Liberazione per Aldo Tortorella, che a 19 anni, già redattore capo, si agitava in redazione ripetendo "mevda mevda mevda" e che fu direttore tra il '70 e il '75, all'apice della parabola politico-elettorale del Pci e delle vendite del giornale (280.000 copie), alla vigilia del compromesso storico. Suo il titolo trionfale ("L'Italia è cambiata davvero") dopo le amministrative del '75, e l'accelerazione imposta alla campagna per il referendum sul divorzio mentre - si ricorda nel bel libro "Voci dal quotidiano" di Alberto Leiss e Letizia Paolozzi - il segretario Berlinguer "tentava continuamente di rinviare, perché si cercava l'accordo con i cattolici con i quali si temeva una rottura". A quel tempo, dice Tortorella, "eravamo il giornale, ma eravamo anche il partito.Spesso la linea la imponevamo noi". Berlinguer, come nota Reichlin, a differenza di Togliatti "si comportava da puro segretario, non aveva curiosità vera per il giornalismo.Non mi dettava nulla, benché si considerasse un po' un padre della patria".

Iniziò qui Pietro Ingrao, cronista durante la clandestinità imposta dal fascismo e direttore dal '47 (allora il giornale aveva due pagine e quattro edizioni: Roma, Milano, Genova e Torino) al '57.Direttore e anche, come ricorda lui, "amministratore d'anime", in quella redazione "militante e conventuale" dove sbocciavano amori e odi privati. In terza pagina firmavano Salvatore Quasimodo, Italo Calvino, Sibilla Aleramo, Elio Vittorini.Il Giro d'Italia veniva raccontato in prima dal poeta Alfonso Gatto ("Eccolo il nostro gramscianesimo - dice Ingrao - in quel rapporto tra intellettuali e popolo"); Lietta Tornabuoni (da secoli alla Stampa) intervistava Renato Guttuso sulla Biennale di Venezia, Mario Pirani (ora a Repubblica) seguiva la Dc, Arturo Gismondi (alla Rai e poi al Giornale) il Festival di Sanremo e il boom tv di "Lascia o raddoppia".A Torino erano capiredattori il filosofo della scienza Ludovico Geymonat e Gianni Rocca (poi a Repubblica), il futuro attore Raf Vallone faceva l'inviato di cronaca con il sociologo Aris Accornero, un impiegato licenziato dalla Fiat. Fu Ingrao (con Tommaso Chiaretti) a inventare le rubriche "Il dito nell'occhio" e "Il fesso del giorno", poche righe in prima di aspra polemica politica; una tradizione che fu innovata nel '67 con il celebre corsivo quotidiano di Fortebraccio, inventato da Maurizio Ferrara, finché negli anni Ottanta, con Staino e Tango, Macaluso ruppe il tabù dando inizio a una satira non più di propaganda ma rivolta anche a se stessi, a prezzo di scontri e scomuniche del segretario Alessandro Natta, ritratto nudo in una storica vignetta).

"Togliatti seguiva il giornale ogni giorno - ricorda Ingrao - era un lettore pignolo e cattivo", capace di cestinare il pezzo di un cronista parlamentare e riscriverselo da solo."Gran parte delle sue osservazioni non riguardavano la politica ma la scrittura: aveva grandi civetterie linguistiche", e chiamava il direttore per imporre che si scrivesse "arme" e non "arma".La linea politica non si discuteva, fino all'anno "indimenticabile": il '56 della rivolta d'Ungheria repressa dai carri sovietici, dell'abbandono di tanti intellettuali (Calvino, Sapegno, Giolitti), della censura spietata ai pezzi dell'inviato Alberto Jacoviello (poi a Repubblica) troppo filo-insorti, della prima spaccatura in redazione.

Arrivò la direzione Reichlin, poi nel '62 quella di Mario Alicata, astro nascente amendoliano messo in quarantena da Togliatti ma lanciatosi con passione nell'impresa, tra memorabili scontri con i suoi vice ingraiani, Aniello Coppola e Luigi Pintor (che nel '69 verrà radiato con il gruppo del Manifesto), che abbandonarono il giornale.Come fece anche Miriam Mafai (ora a Repubblica): "Non per dissenso politico: non ne sopportavo l'aggressività".Misurata sulla propria pelle da Franco Magagnini (poi caporedattore a Repubblica), licenziato in tronco nel '66 per aver obiettato al modo in cui venne seguita l'alluvione di Firenze. Fu Alicata a lanciare un'iniziativa che precorse i tempi, distribuendo con il giornale una collana di classici (da "Don Chisciotte" a "Capitan Fracassa"). Morì improvvisamente ("tra le braccia di una donna", si sussurrò con scandalo) dopo un appassionato intervento in Parlamento sul "sacco di Agrigento", scandalo sollevato dopo la frana del '66 da un'inchiesta dell'Unità.

Poi arrivò Maurizio Ferrara (già corrispondente da Mosca), negli anni della contestazione studentesca (un articolo sulle "ragioni degli studenti" gli provocò non poche critiche dal partito) e del drammatico scontro sull'invasione della Cecoslovacchia. "Fu la rottura di un tabù", ha poi raccontato Ferrara.Fino ad allora "l'informazione dell'Unità doveva essere ricca e anche spregiudicata, purché non sfiorasse certi argomenti: il partito, i rapporti con l'Urss". Nell'86, dopo Macaluso, fu la volta del compianto Gerardo Chiaromonte, tuttora il più amato dalla redazione, dove si raccontano aneddoti sul "diavoletto" che si mise sulla scrivania dopo la conversione in punto di morte di Guttuso ("Se comincio anch'io a parlare di Dio, legatemi") e sulla sua difesa, pur essendo autorevole dirigente del partito, dell'autonomia del giornale.

Quando arrivò D'Alema D'Alema arrivò nell'88 e pilotò il giornale tra i flutti della "svolta" schierandolo con Occhetto.Di lui si racconta che passava ore davanti ai videogiochi e che già allora detestava i giornalisti, anche quelli dell'Unità: "iene dattilografe", diceva con il sarcasmo di certi timidi che non sopportano di non essere abbastanza amati.Con gran simpatia viene invece ricordato il facile e giocoso Walter Veltroni, ultimo direttore-politico, che rilanciò il giornale con il gioco delle cassette.

Altri nomi, oltre a quelli dei direttori fanno la storia dell'Unità. I corrispondenti da Mosca, terminali del partito nella capitale sovietica: il compianto Giuseppe Boffa, che si fece poi storico, e il gorbacioviano Giulietto Chiesa.I mitici "resocontisti" del segretario: Luciano Barca e Pintor con Togliatti, Ugo Baduel con Berlinguer, Enzo Roggi, il notista politico che "dava la linea", con Natta ("Ma allora Roggi esiste davvero!" esclamò Ciriaco De Mita incontrandolo per la prima volta a un funerale). E poi Gianni Rodari, Oreste Del Buono, Renato Mieli, Emmanuele Rocco, Franco Calamandrei, Paolo Spriano, Saverio Tutino inviato in Algeria, Valentino Parlato, Sandro Curzi corrispondente da Praga, Renzo Foa inviato in Vietnam, e Maria Giovanna Maglie, poi inviata di esteri, che ancora oggi ricorda Reichlin che, perfido, stracciò un'editoriale di Occhetto, allora responsabile del settore scuola del Pci: "Lascia perdere Achille, te lo riscrive la Maglie e poi ci mette la tua firma".


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