Gli errori di gestione non cancellano i
successi
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il senatore Gian Giacomo Migone, presidente della Commissione Esteri
di Palazzo Madama, è direttamente coinvolto, nel senso che ne ha
fatto le spese. Era infatti stato indicato, prima da solo, poi con
Emma Bonino, come candidato italiano alla carica di alto commissario
Onu per i rifugiati. Invece il segretario generale delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, ha scelto l'olandese Ruud Lubbers.
Malgrado lo smacco, il giudizio di Migone sulla politica estera del
centrosinistra resta largamente positivo. "Negli ultimi anni -
ricorda - il governo ha ottenuto grossi successi. Penso all'intervento
in Albania, risolutivo per le sorti di un Paese che rischiava di
disgregarsi e di finire in mano al crimine organizzato. Oppure alla
difficile crisi del Kosovo, nella quale l'Italia ha fatto egregiamente
la sua parte. E non dimentichiamo l'adesione all'euro: di recente, in
un dibattito, all'ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, che
rivendicava a se stesso e a Giulio Andreotti il merito indiscutibile
di aver negoziato il trattato di Maastricht, ho ricordato che però la
politica economica del loro governo era tale da escludere la
possibilità di un ingresso della lira nell'Unione monetaria europea.
C'è voluto il rigore di Amato e Prodi per centrare l'obiettivo".
Da qualche settimana però stiamo subendo delle battute a vuoto.
Irlanda e Norvegia ci hanno superati nella corsa al Consiglio di
sicurezza dell'Onu. E la vicenda dell'alto commissario per i rifugiati
si è conclusa negativamente.
Si tratta di episodi circoscritti e abbastanza diversi tra loro. Se
c'è un filo comune che li lega, esso riguarda non la definizione, ma
piuttosto la gestione della politica estera. Comunque vanno affrontati
caso per caso.
Cominciamo dal mancato conseguimento del seggio temporaneo nel
Consiglio di sicurezza.
Qui, se c'è stato un errore iniziale, l'abbiamo commesso tutti,
maggioranza e opposizione, a cominciare naturalmente da me stesso.
Avevamo infatti elementi di valutazione sufficienti per ritenere
inopportuna la candidatura italiana, ma nessuno ha sollevato dubbi.
Per giunta ci siamo mossi in ritardo e abbiamo finito per spaccare la
coalizione di medie e piccole potenze di cui abbiamo bisogno per
condurre la battaglia sulla riforma del Consiglio di sicurezza e
opporci all'attribuzione di seggi permanenti a Germania e Giappone,
che accentuerebbe la natura oligarchica dell'organo supremo dell'Onu.
Inoltre c'è stata una gestione poco accorta. Quando abbiamo visto che
nello scrutinio a noi più favorevole eravamo andati sotto di venti
voti, avremmo dovuto prendere atto della situazione e ritirarci, come
ha fatto la Turchia.
Ma si è trattato davvero di un insuccesso tanto pesante? Il
ministro degli Esteri Lamberto Dini, per esempio, tende a
ridimensionarne la portata.
Certamente si può sopravvivere a sconfitte del genere. Il Giappone, a
suo tempo, è stato sconfitto dal Bangla Desh, ma non ha certo perso
il suo prestigio internazionale. Tuttavia la nostra bocciatura è
stata preceduta da un fatto estremamente grave. Il segretario generale
della Farnesina, Umberto Vattani, ha inviato ai Paesi baltici alcune
lettere nelle quali, in termini velati, li si minacciava di chiudere
le ambasciate d'Italia presso di loro nel caso non avessero votato per
noi all'Onu. Eppure il Parlamento si era pronunciato per il
rafforzamento della nostra presenza diplomatica nei piccoli Paesi di
recente indipendenza, quali sono appunto Estonia, Lettonia e Lituania.
La vicenda, in realtà, non è che la spia di un più ampio problema
di gestione del Ministero degli Esteri. E poiché Dini ha chiarito che
non era a conoscenza del contenuto delle lettere incriminate, credo
sia necessario trarre le conseguenze dell'accaduto e sostituire il
segretario generale che le ha firmate.

Passiamo alla vicenda del Commissariato per i profughi, in sigla
Unhcr.
In questo caso la mia testimonianza può apparire sospetta, perché
sono parte in causa, ma mi pare che i fatti siano chiari. Sono stato
proposto per la carica di alto commissario ufficialmente, per
iscritto, e sono rimasto l'unico candidato dell'Italia per alcuni
mesi. In seguito il mio nome è stato prima affiancato e poi
sostituito da un'altra candidatura, che non aveva possibilità
oggettive di passare, ma era espressione di ragioni concernenti
soprattutto la politica interna italiana. Stando così le cose,
l'esito finale era scontato.
Sta per tornare d'attualità la riforma del Consiglio di sicurezza.
Non è stato un atto di presunzione controproducente, da parte
dell'Italia, opporsi alle ambizioni di Germania e Giappone, irritando
anche gli Stati Uniti?
Innanzitutto vorrei ricordare che l'impostazione di questa battaglia
è stata sostenuta dal Parlamento all'unanimità. E l'hanno portata
avanti coerentemente, grazie a un esecutore capace come l'ambasciatore
Fulci, tutti i governi da Ciampi in poi, compreso quello guidato da
Silvio Berlusconi. Detto questo, entriamo nel merito. Se ci fossimo
battuti per un seggio permanente italiano, sarebbe stata una posizione
legittima, ma perdente e di scarso significato. Invece abbiamo posto
un problema generale: il Consiglio di sicurezza ha una composizione
anacronistica, perché Francia e Gran Bretagna non sono certo oggi
potenze più importanti della Germania, del Giappone, dei giganti del
Terzo Mondo e della stessa Italia. Non si tratta quindi di aggiungere
al club dei vincitori del secondo conflitto mondiale qualche Paese
ricco e influente, ma di rendere più rappresentativo l'intero
Consiglio. Un obiettivo sul quale abbiamo raccolto vasti consensi,
ottenendo notevoli successi procedurali.
Ma ora questa battaglia ha un futuro o rischia di rimanere fine a
se stessa?
Guardiamo all'evoluzione dello scenario europeo. Nel momento in cui
cerchiamo di costruire una politica estera e di sicurezza comune, ha
senso che in sede Onu il nostro continente sia rappresentato
all'infinito dalla Francia e dalla Gran Bretagna? Non è più
ragionevole porre il problema di un seggio permanente dell'Unione
Europea e di rappresentanze regionali anche per altri grandi blocchi
geografici? Non contribuiremmo così a fare delle Nazioni Unite, se
non un governo planetario, almeno una sede in cui questo mondo
pluricentrico possa rispecchiarsi in modo più equilibrato? Insomma,
se la nostra proposta va nel senso della storia, vale la pena di
pagare, per sostenerla, qualche prezzo di natura diplomatica.
Però Francia e Gran Bretagna possono far pesare il loro rango di
potenze nucleari. E Londra, che è rimasta fuori anche dall'euro, ben
difficilmente potrebbe accettare di essere rappresentata dall'Unione
Europea nel Consiglio di sicurezza.
Oggi come oggi, a mio parere, le armi atomiche sono sempre meno uno
"status symbol" e sempre più una fonte di pericolo da
controllare. Quindi non mi sembra che possederle sia un elemento
dirimente. Quanto alle resistenze britanniche, c'è un dato da
ricordare: ogni volta che l'Europa si è fermata ad aspettare Londra,
il processo di unificazione si è arrestato e la posizione inglese si
è indurita; quando invece la Comunità ha avuto la forza di andare
avanti, la Gran Bretagna ha finito per seguirla.
Ma la nostra linea sulla riforma del Consiglio di sicurezza ci
mette in contrasto anche con Berlino.
In realtà la Germania conduce questa battaglia con scarsa
convinzione. I due maggiori partiti, Spd e Cdu, hanno più volte
dichiarato che preferirebbero ci fosse un seggio permanente europeo,
piuttosto che tedesco. Si rendono conto che una rivendicazione
puramente nazionale risulta incoerente rispetto alla loro politica
estera, così come l'hanno definita Willy Brandt ed Helmut Kohl.
Insomma, i margini per discutere ci sono: la Francia, ad esempio, ha
una posizione molto meno rigida della Gran Bretagna.
A proposito di Europa, Giuliano Amato ha chiesto al centrodestra di
appoggiare l'azione del governo a livello comunitario, ma finora
l'appello non ha dato grandi risultati. Lei che ne pensa?
Secondo me la tradizione europeista italiana è talmente forte che il
Polo dovrà obbligatoriamente tenerne conto, se non vuole pagare un
prezzo molto alto anche in politica interna. Forse in passato nel
nostro Paese il consenso intorno all'Europa era eccessivo, per cui una
sua riduzione si può ritenere fisiologica, ma resta nondimeno ben
solido. E poi chi si muove in direzione opposta - penso ai
pronunciamenti di Umberto Bossi - dimostra una tale confusione
ideologica e mentale da non poter esercitare alcuna attrattiva sulla
grande maggioranza dell'opinione pubblica.
Eppure c'è chi teme che una vittoria elettorale del centrodestra
ci porterebbe fuori dall'Europa.
Il problema esiste, perché la conduzione del governo Berlusconi, nel
1994, fu da questo punto di vista molto incerta. Il ministro degli
Esteri Antonio Martino si collocò su posizioni vicine a quella di
Londra e contrarie all'unificazione monetaria. Credo che il Polo debba
fare ancora grossi sforzi per elaborare una politica europea
credibile, se vuole arrivare preparato all'appuntamento con il
governo. Ma porrei la questione in un'altra maniera: se viene meno
all'impegno europeista, il centrodestra a quell'appuntamento non
arriverà affatto, perché glielo impediranno gli elettori italiani.
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