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"Dio lavora troppo lentamente"



Paola Casella



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X Men, scritto da David Hayter su un soggetto di Tom DeSanto e Bryan Singer, diretto da Bryan Singer, con Ian McKellen, Patrick Stewart, Famke Ianssen, Halle Berry, Hugh Jackman, Bruce Davison, Anna Paquin

C'erano mille potenzialità, nel trasporre sul grande schermo la vicenda fumettistica degli X-Men, i personaggi creati da Stan Lee della Marvel Comics. Ma c'erano anche più pericoli. Il primo era quello di offendere i fan degli eroi di cartone - e sono intere legioni - rivelandosi poco fedele all'originale, o tradendo l'essenza della storia a fumetti. Il secondo era quello di deludere i cinefili, soprattutto quelli che non conoscono i personaggi ai quali il film è ispirato, rimanendo troppo aderente alla bidimensione, o troppo legato alle complessità della vicenda, o anche semplicemente dando per scontata una conoscenza di fondo degli spettatori tale da non fornire sufficienti spiegazioni.

X-Men, the movie, non cade in nessuna di queste trappole, a cominciare dall'ultima: la presentazione dei personaggi e la semina delle informazioni necessarie a seguire la vicenda del film anche se si è digiuni di cultura fumettistica sono graduali, ben dosate, sufficientemente fedeli all'agiografia e allo spirito del fumetto. Soprattutto, sono cinematografiche, nel senso di consone al medium, che non è la carta stampata (o inchiostrata) - maneggevole, consultabile secondo i propri ritmi, ripercorribile più e più volte - ma uno schermo immenso su cui la trama scorre a una velocità controllata solo dal regista, ed è rivedibile solo al prezzo di un secondo - o terzo, o quarto - biglietto (e c'è già chi negli Stati Uniti, dove il film è stato campione di incassi, è ritornato in sala anche dieci volte).

Nella presentazione dei personaggi, il dosaggio è fondamentale, e quello di X-Men è quasi scientifico, soprattutto in vista dei sequel che inevitabilmente verranno: per questo alcuni ruoli destinati a diventare fondamentali nelle puntate successive vengono qui appena accennati (per non dire "buttati via"). E' il caso di Kitty (Sumela Kay), la ragazzina che passa attraverso le pareti, che diventerà Shadowcat, o di Bobby (Shawn Ashmore), qui liquidato come il compagno di scuola di Rogue, e destinato invece a diventare l'Uomo Ghiaccio.


Ma da manuale è la presentazione di Wolverine (Hugh Jackman), che il regista Bryan Singer (quello dei Soliti sospetti e dell'Allievo) e lo sceneggiatore David Hayter hanno scelto come il personaggio centrale, o eroe, della versione cinematografica di X-Men (nei fumetti, Wolverine è un personaggio importante ma non il protagonista). Quando incontriamo per la prima volta Wolverine sul grande schermo non lo vediamo in faccia: è una figura indistinta in fondo a una gabbia, poi un corpo visto di schiena. Sappiamo che in quella gabbia Wolverine combatte contro nemici agguerriti che si presentano a lui a mani nude; intorno a lui avvertiamo un'aura di paura ed eccitazione.

Wolverine ci viene presentato come un animale da combattimento, una bestia la cui fisicità è la caratteristica saliente, che suscita un misto di orrore e di fascinazione. E' una presentazione che ricorda quella di Hannibal the Cannibal nel Silenzio degli innocenti (il mostro nella gabbia), quella di Conan in Conan il barbaro (il combattente sul ring) e soprattutto quella dell'Elephant man di David Lynch, che a un certo punto gridava, davanti agli uomini (???) che gli davano del mostro, "Non sono un animale, sono un essere umano". In quella esclamazione era contenuto anche il dramma di Wolverine, che non solo è metà bestia (in inglese il wolverine è un animale, da noi chiamato ghiottone) e metà uomo, ma non ricorda nulla del suo passato, quindi non ha una memoria che spieghi la sua identità di mutante.

Il concetto stesso di mutante è quantomai attuale, in un'epoca in cui i progressi (???) della genetica sono l'argomento du jour. Gli X-Men rappresentano lo stadio successivo (the next thing, come dice lo spot Telecom), in un futuro non troppo lontano (come dice la voce narrante all'inizio del film), di un'evoluzione della quale non si conoscono gli esiti o le conseguenze. Di più: secondo il film, gli X-Men rappresentano contemporaneamente il risultato di un'evoluzione darwiniana (quindi per definizione destinata ad avere la meglio sulle specie precedente, cioé gli umani), ma anche una minoranza che la specie precedente vuole/deve eliminare, sia per assecondare il proprio razzismo "innato" sia per garantire a se stessa un futuro che sfugge al suo controllo.

Come già Matrix, X-Men asseconda la geniale intuizione dei film d'azione più recenti, quella di far coesistere passato e presente, personaggi simili a noi (anzi, più arretrati di noi: gli umani del film sembrano congelati nei primi anni Cinquanta) ed esseri dotati di facoltà superiori, anche se distribuite in modo apparentemente irrazionale (non c'è una spiegazione del perché certe caratteristiche appartengano a loro piuttosto che ad altri), ed elargiti con parsimonia (ciascun X-Men possiede al massimo un paio di poteri, e probabilmente non quelli che avrebbe scelto per se stesso).

Persino il paesaggio lascia coesistere presente e futuro, realtà e fantasia. Ellis Island (il porto di accesso degli immigrati, altra specie di mutanti, secondo l'americano medio) e la Statua della Libertà, e in generale la città di New York rimangono riconoscibili (senza trasformarsi in Gotham City o Metropolis, per intenderci) e coesistono spaziotemporalmente con il rifugio avveniristico di Magneto (Ian McKellan) o il laboratorio scientifico del professor Xavier (Patrick Stewart). La stessa presenza di due attori scespiriani come McKellan e Stewart in un film d'avventura fantascientifico è un tentativo di ancorare il futuro al passato, di combinare tradizione e progresso.

X-Men è un gioco di echi e di rimandi, non solo al fumetto al quale si ispira, ma al cinema in generale. Perché altrimenti, fra milioni di aspiranti (e visto che una delle esigenze della produzione era quella di mettere insieme un cast di facce seminuove), scegliere per il ruolo di Wolverine un attore che dal naso in su sembra la copia carbone del primo Clint Eastwood, quello eroico del western e del poliziesco (dal naso in giù sembra il gemello di Andrea Occhipinti, ma non credo che Hollywood ne sia cosciente)? Perchè affidare a Patrick Stewart, l'attore diventato celebre come il Capitano Picard di Star Trek, un ruolo pressoché identico in X-Men? Perché Sabretooth (Tyler Mane) sembra un incrocio fra il Chewbacca di Guerre stellari e il protagonista maschile della miniserie televisiva americana La Bella e la Bestia? Perchè Ray Park, l'attore che interpreta Toad, in una scena ripete esattamente la stessa sequenza di movimenti che eseguiva Darth Maul, il personaggio che Park interpretava in Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma?

Moltissimi anche gli agganci alla realtà storica: il senatore Kelly (Bruce Davison), che istiga il popolo americano a una crociata contro i mutanti chiedendo che i loro nomi vengano inseriti in una "lista", è un clone di Joseph McCarthy; Tom DeSanto, il soggettista del film, ha paragonato Magneto e Xavier a Malcom X e Martin Luther King, e Magneto pronuncia il celebre motto del leader dissidente della Nation of Islam, "con ogni mezzo necessario" (e del resto l'intera saga di X-Men, nata contemporaneamente alle battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti, è una metafora della tolleranza, o intolleranza, verso le minoranze etniche). Anche a livello storico, la commistione fra realtà e fantasia è totale: il film inizia infatti con una scena ambientata in un campo di concentramento nazista, dove il giovane zingaro (ma nel film è mescolato agli ebrei con stella gialla sul petto) che diventerà in seguito Magneto si vede portar via i genitori, e scopre così per la prima volta i propri poteri sovrannaturali.


Per Rogue (Anna Paquin, la bambina di Lezioni di piano, ora adolescente) la scoperta è invece casuale, oltre che spiacevole: nella sua camera da letto, Rogue bacia per la prima volta il fidanzatino (anche qui, un dettaglio retrò: nel Duemila una sedicenne sarebbe già al dessert) e così facendo lo stecchisce, anzi, lo rinsecchisce, succhiandogli l'energia vitale (inevitabili le metafore). Per Wolverine la mutazione avviene con dolore, dolore fisico, oltre che psicologico.

La sofferenza dei mutanti deriva principalmente dalla coscienza della propria diversità: e quale soluzione il saggio Xavier trova a questo senso di non-appartenenza, se non quella di confinare i mutanti nello splendido isolamento di una scuola tutta per loro (un eco della politica segregazionista che voleva bianchi e neri "separate but equal"), una specie di college (uscito da una cartolina anni Cinquanta) che ricorda la Scuola di maghi di Harry Potter.

L'obbiettivo di Xavier è quello di insegnare ai mutanti ad usare i loro poteri a fin di bene, ma la sensazione, nel vedere il professore che indirizza paternamente Rogue verso un'intera classe di "diversi", è quella che la confini in una sorta di ghetto.

I mutanti di X-Men sono una forma incompleta: non più umani, non ancora creature nuove. E questi esseri-ponte sono ben coscienti della loro valenza potenziale di capro espiatorio: "è per questo che esistono persone come me", dirà Wolverine, in uno dei suoi momenti di autocommiserazione. E il lungimirante Magneto, che invece che sullo svantaggio attuale della sua diversità (di zingaro, o ebreo, prima ancora che di mutante) preferisce concentrarsi sulle prospettive di dominio future, si adopera per accelerare il processo darwiniano, osservando: "Dio lavora troppo lentamente".

Ma X-Men, con saggezza degna di Xavier, si guarda bene dall'accelerare il proprio ritmo narrativo, di proiettarsi troppo velocemente nel futuro. Ed evita scientemente quell'escalation da fuochi artificiali che ha progressivamente (ma inesorabilmente) desensibilizzato lo spettatore contemporaneo di action movie: gli effetti speciali sono limitati all'indispensabile, così che la vicenda mantenga ancora una dimensione accessibile, anche se alcuni dettagli "tecnici" lasciano a bocca aperta: la liquefazione di uno dei personaggi, ad esempio, o il modellino semovibile (un mutante geografico) della città di New York.

La fisicità sanguigna (o "naturale") di Wolverine e le evoluzioni acrobatiche di Toad (Ray Park, una specie di Gobbo di Notre Dame, sgraziato come Danny De Vito nei panni del Pinguino di Batman e repellente come Tom Waits nel Dracula di Coppola: visto come è facile fare il gioco dei riferimenti cinematografici?) sono ben lontane dalle coreografie da balletto o dai richiami alle arti marziali che Hollywood ha recentemente importato da Hong Kong.

Il risultato è magico proprio nella sua artigianalità, immediato nella sua somiglianza al reale: X-Men è un mutante che - per fortuna - non ha ancora completato la trasformazione. Persino le metamorfosi di Mystica (Rebecca Romijin-Stamos) sono in qualche modo retrò (pensate ai livelli di perfezione tecnica già raggiunti da Terminator, e qui solo appena accennati). Assai più importante, nella caratterizzazione di Mystica, è la bellezza statuaria dell'attrice-modella, perfetta incarnazione di un sogno adolescenziale maschile (insieme a Rogue, la "compagna di banco", innocentemente sensuale e per questo mortalmente pericolosa).

Non dimentichiamo che la serie X-Men ha attecchito in primis sui teenager, "mutanti" per antonomasia che si sono immediatamente riconosciuti nella crisi di identità e l'alienazione dei protagonisti del fumetto, in equilibrio fra inadeguatezza e onnipotenza, fra la percezione della propria immortalità e quella della propria impotenza. Tra l'altro inizialmente gli X-Men erano proprio un gruppo di adolescenti ("The strangest teens of all"), e uno degli slogan di lancio del comic book era "Vi sentite incompresi?".

Se l'identificazione - nel caso del film, quella del più vasto pubblico possibile - è la misura del successo di X-Men, allora si capisce perché Wolverine e Rogue ne sono diventati i personaggi centrali: perché sono i più umani, e i più umanamente combattuti. Non a caso Wolverine salva la propria pelle (e quella dei suoi superdotati compagni) facendo affidamento sul proprio istinto e sul proprio street smart e non solo sui superpoteri: la scena madre, per Wolverine, è quella in cui affronta se stesso, cioé quella alterità con la quale è costretto a convivere e che vede finalmente oggettivizzata. E non a caso Rogue si innamora proprio di lui, eroe tormentato e riluttante, e non del tenero Bobby, il cui potere (quello di "generare" ghiaccio) si concretizza (almeno in questa prima "puntata" della serie) in una rosa.

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