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Reset/E se le "Coop rosse" fossero la Terza Via?

Paolo Marcesini

 

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Questo pezzo è uscito sul numero di gennaio/febbraio di "Reset".

La cooperazione, per definizione, è alternativa alla competizione individuale, al liberismo, al profitto fine a se stesso. In Italia il modello economico e sociale della cooperazione è rappresentato dalla Lega delle Cooperative, oltre diecimila aziende che, nonostante i molti limiti statutari (il governo Prodi stava esaminando la possibilità di un riordino legislativo dell'intero settore) e una concorrenza spietata dell’imprenditoria privata, ha visto salire il proprio fatturato dai 39.900 miliardi del 1994 ai 47 mila miliardi dell’anno scorso. E contemporaneamente è aumentato anche il numero di soci, ne contava 3 milioni 800 mila, oggi sono quasi 4 milioni e mezzo. Un esercito, capace da solo di produrre il 4 per cento della nostra ricchezza nazionale. Le "coop rosse" insomma sono in ottima salute. Ed è strano, a ben pensarci. Siamo di fronte alla rivoluzione tecnologica, viviamo l’era del post industriale, della globalizzazione, dei servizi di comunicazione, della rete digitale, della ridefinizione dei diversi modelli di welfare, dell'articolazione sempre più complessa della società e del lavoro. Il mondo insomma è cambiato e le cooperative, con il loro secolo di vita, potevano segnare il passo. Invece il movimento cooperativo italiano è cresciuto e si è sviluppato, e lo ha fatto organizzando risposte nuove alle crescenti domande di bisogni e servizi, attraverso l'organizzazione dei consumatori e degli utenti. C'è chi la definisce la terza via allo sviluppo economico, lontana dal dirigismo statico dell'impresa pubblica e dall'accanimento verso una logica del profitto "a tutti i costi". Una sorta di capitalismo riveduto e corretto attraverso le virtù sociali, alieno dal monetarismo e da una concezione iperliberista dell'economia.

Naturalmente sono cambiate anche le caratteristiche della nuova classe dirigente. Non è più sufficiente l’attivismo, il solidarismo, la meritocrazia aziendale, la militanza politica; per far carriera all’interno dell’azienda cooperativa occorre innanzi tutto essere dei bravi manager, inseriti a pieno titolo nelle logiche di mercato. In molti, all'interno delle coop ormai predicano un "aziendalismo apolitico" che tenga conto innanzi tutto delle logiche dell'economia privata. Non viene disconosciuto il valore "genetico" della solidarietà e dell'appartenenza, ma acquistano priorità (e non esclusività) l'efficienza della gestione, la redditività dell'impresa, la produttività, il fatturato, il valore della competizione, lo studio organico della concorrenza. In questo quadro la politica è una "stampella" dalla quale occorre rivendicare assoluta autonomia di gestione. Sono un po' orfane le "coop rosse", ma non rimpiangono i tempi del Pci, anzi. Flavio Casetti, dirigente del Dipartimento Risorse Umane della Lega, un esperto di formazione, il suo manager tipo lo descrive così: "Nel sistema cooperativo, il ruolo dei gruppi dirigenti, dei manager, assume un profilo particolare: accanto alle necessarie competenze professionali, integrato con esse, deve esistere e resistere un profilo "etico" (non saprei definirlo altrimenti) capace di organizzare partecipazione, piena consapevolezza e un dialogo continuo tra management e soci. I nostri dirigenti devono innanzi tutto possedere una piena indipendenza culturale che permetta di reinterpretare attraverso la cooperazione i mutamenti del mercato e della società globale. Naturalmente devono essere flessibili, capaci cioè di rendere stabile l'attitudine al cambiamento e all'adattamento". Un confine labile questo, un passaggio stretto. Eticamente condivisibile ma difficile da realizzare senza cadere in contraddizione. "Questa è la nostra promessa per il futuro, la nostra sfida", ci dice il presidente della Lega, Ivan Barberini: "Occorre trovare un giusto equilibrio tra forma cooperativa, con tutti i suoi vincoli e i suoi valori e l'organizzazione del mercato. Vogliamo che venga riconosciuta la nostra capacità imprenditoriale, perché il nostro modello di impresa è una ricchezza per tutto il paese, un valore da esportare". Semmai la differenza sta nella gestione del profitto, riserva indivisibile nelle cooperative, distribuito agli azionisti nelle aziende private.. Un riserva indivisibile che gode dell'esonero dal prelievo fiscale. Un privilegio che resiste, "uno dei pochi rimasti".

All'interno del processo di formazione della classe dirigente viene dato molto spazio alla cultura. Barberini: "Letture critiche e processi di apprendimento non sono per i cooperatori campi della speculazione teorica, ma azioni organizzative che incorporano valori, obiettivi generali, comportamenti sociali. La cooperazione non deve essere un ghetto, ma un mondo aperto alla conoscenza, un soggetto attivo nei processi di cambiamento. La nostra classe dirigente deve sviluppare curiosità verso la conoscenza del mondo in tutti i suoi aspetti. Senza cultura non c'è sviluppo".

E poi la cooperazione aiuta lo sviluppo economico del paese. Recentemente si è parlato molto delle iniziative legate alla Imprenditorialità Giovanile, quasi nessuno invece ha messo in evidenza gli ottimi risultati ottenuti da un'analoga iniziativa delle Lega chiamata "Fare Impresa", destinata ai giovani che vogliono iniziare un'attività e hanno bisogno di qualcuno che li sostenga soprattutto nella gestione aziendale. Nel sud sono stati selezionati e finanziati 150 progetti che hanno dato lavoro a 8.000 giovani, un risultato concreto in un'area dove creare posti di lavoro non assistiti e non socialmente utili, sembrava un sogno irrealizzabile.

Lavorare in una cooperativa significa condividere uno stile di vita dove ognuno si sente partecipe di un progetto comune, dove le finalità di ogni individuo sono le finalità del gruppo di appartenenza, dove la solidarietà non è solo una parola, ma una pratica quotidiana, dove il lavoro è uno strumento di vita e non viceversa. Casetti: "Il metodo cooperativo si è fondato sulla costruzione di reti di fiducia stabili, di legami forti, non solo materiali, ma culturali e sociali, con il territorio, di legami duraturi fra impresa e lavoratore socio". Una way of life brillantemente raccontato, e non poteva essere altrimenti, da Woody Allen negli spot della Coop.

 

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