Mangiare, bere/Alghero: zuppa di cozze, sarde
con le melanzane e bavettine al sugo d'aragosta
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Per secoli dominio di Madrid, Alghero ha conservato un legame speciale
con la Spagna L'impronta catalana, che ha modellato chiese, vie e porte, ne ha fatto
un'isola nell'isola. Tutta da scoprire. Senza dimenticare, però, che la città ha anche
un'altra anima. Marinara e solare
Anno Domini 1541. Carlo V, monarca assoluto di una Spagna al culmine
della sua potenza, sosta in Sardegna con la sua flotta di 40 galere da guerra sulla via
verso la riottosa Algeri. Ospitato in pompa magna nel gotico palazzo d'Albis il re,
acclamato dalla folla, si affaccia al balcone e definisce la città "Bonita, por mi
fé, y bien assentada" - "Bella, in fede mia, e ben solida" - e apostrofa
gli algheresi con la lusinghiera frase "Estade todos caballeros". Nella più
spagnola delle città di un'isola che fu per secoli dominio della corona di Madrid,
l'entusiasmo raggiunge il culmine: una gigantesca corrida si scatena per le vie e per le
piazze. La requisizione del bestiame necessario alle truppe spagnole, ordinata da Carlo V,
si tramuta da un'occasione di protesta in una festa a cui segue, sulla piazza Civica,
l'imponente macello delle bestie.
Oggi, giungere ad Alghero significa fare un passo verso una Sardegna
diversa dalle isole che appaiono su giornali e riviste. La costa fatta di mare, barche,
abbronzature e lottizzazioni a volte selvagge. L'interno dei silenzi, del vento, delle
sughere sulle grandi montagne dei pastori. Alghero è differente dalle altre città
dell'isola: avvolte attorno al suo centro storico color ocra, le strade, i viali lungo il
mare e il traffico sembrano per fortuna lontani dallo scalfire l'unità della vecchia
città murata e sonnolenta degli antichi e orgogliosi caballeros. La porta ideale per
entrare nella Alghero più antica è la piazza Porta a Terra dove l'occhio può salire
lungo le muraglie della Torre degli Ebrei, detta un tempo dels Hebreus a causa del
contributo della comunità ebraica cittadina allo sforzo militare del re Pietro III. Serve
una cartina del centro però per riuscire a visualizzare l'antica cinta di mura: un lungo
tratto è stato distrutto e sostituito dal tracciato dell'odierna via Sassari. Il più
imponente dei resti dell'epoca in cui, tutte le sere, le porte si chiudevano cigolando, è
la mole della torre dell'Esperò Real (il nome significa Torre dello Sperone Reale),
costruita nella prima metà del XVI secolo in sostituzione di una struttura militare più
antica.
I vicoli e le strette vie del '500 conducono verso i punti focali
dell'antica città - la Cattedrale, San Francesco, via Principe Umberto - e i passi
sfiorano le vetrine dei negozietti che vendono coralli (per secoli una delle forme di
artigianato più floride in città, grazie anche alla ricchezza dei fondali delle vicine
ripide scogliere di Capocaccia) e souvenir. CD e cassette degli oramai famosissimi Tenores
de Bitti (amati anche da Peter Gabriel), coltelli Pattada veri e finti (soprattutto finti,
provenienti dalla Toscana), cartoline e collane di corallo sembrano essere gli standard
offerti da cartolerie, tabaccai e negozi per turisti. Ma la città comincia ad apparire,
oltre le vetrine colorate, con un contrasto violento tra il nero dell'ombra e il giallo
vivo delle mura toccate dal sole. Nonostante le gravi distruzioni provocate dai
bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale, il cuore della città è ancora in
larga parte integro e dai cantieri e dalle ristrutturazioni più recenti si intuisce una
rinascita della città e della sua identità che sta prendendo forza. Sui cantoni, i
cartelli stradali indicano, dalla metà degli anni '70, gli originali nomi catalani di
vie, vicoli e piazze. I manifesti e le locandine di spettacoli (musica, teatro, mostre)
sono spesso bilingui o addirittura esposti solamente in catalano, a sottolineare l'amore
per il proprio passato che coincide con una notevole distanza dalla lingua e dalla cultura
del resto dell'isola. Il portale della Cattedrale di Santa Maria, curiosamente incastrato
in una strana posizione tra le mura delle case vicine, chiarisce se ancora ce ne fosse
bisogno che Alghero era una fortezza e che i suoi spazi non erano disponibili neanche per
accogliere i capolavori dell'architettura. Come San Francesco il più significativo
monumento catalano di Alghero e forse di tutta la Sardegna, la cui cupola maiolicata è
divenuta un po' il simbolo della città. Edificata alla fine del '300 e poi in parte
ricostruita a causa di un crollo nei primi del '600, la chiesa è splendida sotto alla
mole del campanile gotico e ospita, nel vicino chiostro trecentesco, ingentilito dai
capitelli scolpiti delle colonne, i concerti e le manifestazioni culturali dell'Estate
Musicale Internazionale di Alghero.
Ma le strette vie e i piccoli ristoranti quasi scavati nei pianterreni
delle antiche case rischiano di far dimenticare la seconda, fondamentale, natura di
Alghero: la città marina e il suo porto.
I genovesi Doria, nel 1100, avevano fondato la città per sancire il
loro potere sulla Sardegna ma, soprattutto, sul mare sardo, solcato all'epoca da
navigatori e mercanti di tutte le nazioni. Strappata ai sardi nel 1355 dalla corona di
Spagna, Alghero venne popolata da un folto gruppo di immigrati catalani che garantivano al
re lontano una fedeltà asssoluta. Come l'importanza, anche il nome è dovuto al mare: a
causa della grande quantità di alghe depositate dal mare sulle spiagge del golfo, la
città prese il nome di Alquerium e poi l'Alquer in catalano.
La passeggiata sul lungomare - dove qualche piccolo bar offre sosta
piacevole - porta sul lato solare e imponente della città murata: si susseguono una serie
di antichi bastioni fortificati - torre di San Giacomo, bastione del Mirador, torre de la
Polvorera, torre de Castilla - che conducono fino al porto. Non lontano dalla scalinata
che porta dal mare all'antica Porta a Mare, sorge la mole imponente del Forte de la
Magdalena, la più importante fortificazione di epoca spagnola della città, sulle cui
mura una lapide ricorda lo sbarco di Giuseppe Garibaldi nel 1855.
Lontano, sul mare verso occidente - oppure vicinissimo, nelle terse
giornate in cui il maestrale batte con violenza le antiche pietre - è il panorama della
ripida scogliera di Capocaccia che riporta, di colpo, nella Sardegna che più conosciamo,
fatta di natura selvaggia e di panorami vertiginosi. La scelta, sulla via per abbandonare
la placida Alghero e i suoi lungomare affollati di pacifici villeggianti, è tra il mare -
con la piacevole traversata che nella buona stagione permette di raggiungere la Grotta di
Nettuno a Capocaccia - e la strada che percorre il golfo nella stessa direzione.
Il primo a parlare al mondo della rupe sul mare di Capocaccia fu il
piemontese Alberto La Marmora, il vero esploratore della Sardegna dell'interno, che
pubblicò nel 1826 a Parigi il suo Voyages en Sardaigne. Altissimo sulle onde, il
promontorio è sormontato dalla macchia bianca di un faro e dall'alto delle scogliere il
panorama verso Alghero è eccezionale. L'inaccessibilità delle scogliere di Capocaccia ha
reso la zona ideale per la colonizzazione di molte specie di uccelli: negli anfratti della
vertiginosa scogliera nidificano i piccioni selvatici, i rondoni, i falchi pellegrini e i
gabbiani reali. Anche il nome del promontorio deriva dalla caccia ai piccioni selvatici,
un tempo molto praticata da spericolati cacciatori che non esitavano a calarsi lungo le
pareti per raggiungere le prede.
Sul versante occidentale del promontorio - al largo del quale è la
sagoma rocciosa dell'isola Foradada - si apre l'ingresso della più famosa grotta sarda:
la Grotta di Nettuno. Dalla sella che separa il promontorio dalla vetta su cui sorge il
faro, una ripida scalinata scende verso l'imbocco della grotta, attrezzata per le visite.
Il percorso dell'Escala del Cabirol - la Scala del Capriolo in dialetto algherese -
realizzata nel 1954, richiede circa 20 minuti in discesa e il doppio in salita, ma i
panorami sempre più selvaggi rendono la fatica assoluamente inevitabile. I 656 gradini
scendono per 110 metri di dislivello conducono alla grotta, che può essere raggiunta
anche in barca - con in mare in buone condizioni e quando non soffia il maestrale -
partendo dal porto di Alghero.
Esplorata a partire dal '700 (e da allora meta di viaggiatori e
naturalisti di tutto il mondo) la Grotta di Nettuno si sviluppa per 2.500 metri, mentre la
lunghezza dell'itinerario turistico supera i 200 metri. Dopo gli spazi e il vento del
capo, una volta assaporato l'odore della Sardegna del mare, si può decidere di proseguire
verso nord, saltando l'interno, agricolo e archeologico, per salire in direzione di Capo
Falcone, l'ultima punta nord occidentale dell'isola.
Sulla via si incontra uno dei luoghi più significativi dell'antica
Sardegna mineraria. All'Argentiera, non lontana dal moderno borgo di Palmadula, romani e
pisani si dedicarono per secoli all'estrazione del prezioso minerale che avrebbe dato il
nome alla zona. Affacciati sul mare da dove provenivano navi e barche da carico necessarie
al trasferimento del minerale, gli stabilimenti ottocenteschi appaiono oggi imponenti, con
le loro costruzioni di legno e muratura. Spettrale, come solo le grandi cattedrali
dell'archeologia industriale sanno essere, l'Argentiera ha un fascino sottile, che parla
delle grandi illusioni del passato, di quella Sardegna delle miniere che, oramai morente,
appare nelle nostre cronache solo in occasione dell'ultima, disperata protesta dei
minatori del lontano Sulcis.
Capo Falcone, l'estrema punta della Sardegna, è controllato da una
torre nel punto più alto e dalle due fortificazioni spagnole della Pelosa e dell'isola
Piana, piccolo brandello di terra davanti alla mole dell'Asinara. Affollatissimo d'estate,
il capo e la costa sottostante sono una meta notevole soprattutto nelle stagioni di mezzo,
oppure sul far della sera, quando il popolo dei bagnanti ha ripiegato teli e ombrelloni.
L'isola dell'Asinara fa parte, del Parco Nazionale del Gennargentu. Le sue coste integre e
le pochissime strade realizzate sui 50 chilometri quadrati dell'Asinara la rendono un
rifugio ideale per rapaci, uccelli marini, mufloni e cinghiali. Alghero, oramai lontana,
è un ricordo. Difficile da dimenticare anche quando negli occhi è tornata,
prepotentemente, la Sardegna bianca, blu e verde della natura a picco sul mare.
Il romanico del nord
Dopo la caduta dell'impero romano, la Sardegna tornò ad essere al
centro del Mediterraneo solo dopo l'anno 1000, quando mercanti, soldati e predicatori
pisani e genovesi entrarono in contatto con la cultura dei Giudicati isolani. Le chiese
romaniche del nord della Sardegna sono il frutto di questi incontri: difficile intuire
quanto i singoli monumenti furono frutto di un'arte locale e quanto invece prodotto di
maestranze esterne all'isola. Fatto sta che, a est di Alghero e Sassari, è possibile
seguire le tracce di un itinerario romanico eccezionale, con pochi paragoni anche nelle
regioni più rinomate dell'Italia artistica.
Al centro dei resti di un antico monastero fondato da monaci
provenienti da Montecassino, la chiesa di Nostra Signora di Tergu è in stile
romanico pisano. Edificata attorno al 1300 alternando blocchi di roccia vulcanica
rossastra con calcare chiaro, ha una facciata caratterizzata da una decorazione molto
delicata.
Se Nostra Signora di Tergu fa pensare al lavoro dei monaci affaccendati
in un monastero, San Pietro Simbranos è l'archetipo della chiesetta prediletta da
eremiti e mistici. Simbranos significa le immagini. Il nome della tradizone sarda deriva
dal bassorilievo che, sulla facciata, raffigura un abate e due monaci. La chiesa, nel
territorio di Bulzi, venne edificata nel 1113 e poi rifatta nelle forme attuali un secolo
più tardi. Isolata e serena, San Pietro è affascinante anche a causa del colpo d'occhio
sul paesaggo desertico circostante, fatto di canyon e rocce.
La chiesa della SS Trinità di Saccargia è senza dubbio il
capolavoro del romanico sardo. Chi non ha dimestichezza con la varietà e la ricchezza
architettonica dell'isola rimarrà impressionato dall'apparire di una costruzione romanica
a vive strisce bianche e nere in mezzo al paesaggio dell'interno sardo. A poche centinaia
di metri dalla più blasonata chiesa di Saccargia, San Michele di Salvènero - non
lontano da Ploaghe - venne edificata dai monaci di Vallombrosa, nell'XI secolo, insieme ad
un'abbazia nei pressi di un paese oggi scomparso. Oggi abbandonata al centro di un'orrida
serie di svincoli, la chiesa venne restaurata nel XIII secolo e nel 1912, poi abbandonata
a se stessa.
Imponente, scura e diversa dalle altre chiese del romanico pisano, Santa
Maria del Regno di Ardara venne consacrata nel 1107. La facciata è esposta a
meridione, forse per ingentilire l'effetto cupo dato dalla scura pietra vulcanica e dal
tozzo campanile.
Vicino al borgo di Ozieri, Sant'Antioco di Bisarcio è stata
creata dall'incontro dell'arte romanica pisana con influenze francesi. Un tempo
cattedrale, assunse la forma attuale alla fine del 1100, e differisce dalle altre chiese
di questo itinerario per una maggiore complessità architettonica data dalla presenza di
un avancorpo, di piccole finestre e di fregi che ornano la facciata.
In alto a dominare il lago Coghìnas,infine, Nostra Signora di
Castro - in comune di Oschiri - è il prodotto di influssi lombardi sull'architettura
isolana. Costruita nella seconda metà del XII secolo, la chiesa è circondata dal recinto
delle "cumbessias" (cioè degli alloggi per i pellegrini) di epoca posteriore.
Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo Alghero
p.zza Portaterra, 2
07041 Alghero
tel. 079/979054
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