Mangiare, bere/Trieste, discreta signora sul
confine
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Città storicamente scontrosa e difficile, oggi Trieste ricomincia
a guardarsi attorno, a ritrovare il suo territorio e ricucire legami interrotti. E il
visitatore avverte una gran voglia di rinascita
Se da ste parti si guardano ancora gli estranei con diffidenza,
bisogna capirlo. Fino a un pugno di anni fa questa era la città addossata al confine più
caldo dell'intero continente. Le era stato dato l'incarico di tenere barricato con le
spalle il portone. Era già stata usata per tutto il secolo per tamponare e sorvegliare un
panorama immobile che, per il gioco degli interessi e degli equilibri dei grandi, tale
doveva restare. Ma anche prima non è che coi forestieri Trieste avesse avuto vita facile.
Strapazzata dai romani, strangolata da Augusto imperatore, spazzolata dai Visigoti, presa
in cura da Attila, distrutta dagli Unni, devastata dai longobardi, presa a calci dai
bizantini, sopportò con pazienza gli sgarbi dei veneziani, la maleducazione dei feudatari
austriaci, il peso dell'impero viennese, le villanie delle truppe napoleoniche, per
riprendere fiato solo sotto la Restaurazione. Poi, come si sa, ci furono i molti casini
risorgimentali e irredentisti e le annesse guerre calde e fredde. Venne in visita, in quel
periodo, alla fine degli anni Cinquanta, Guido Piovene, nel suo lungo viaggio per
l'Italia, per capire che aria tirava. Guardò il porto, si fermò alla Borsa, alla Camera
di Commercio. Chiese pareri a quelli che in città contavano. Ma non dimenticò di andare
nella libreria del vecchio Saba. Il poeta disse del senso di tragedia che aleggiava, a suo
parere, in città.

Oggi, se entri in quella stessa libreria, rimasta intatta,
incontri il figlio di Carletto, l'angelo custode che ha seguito Saba per tutta vita. Ti
parla, come un po' tutti i commercianti triestini, dei troppi pensionati che vivono qua,
delle difficoltà del traffico, dei pochi parcheggi. Ma il senso di tragedia è rimasto?,
gli domandi. Si stringe nelle spalle: mah, non so. Ste cose dovrebbe dirle Saba, che era
un poeta, dice. Ma forse il tragico è questo: sapere che Trieste è un luogo con un
grande potenziale che sa solo continuare ad essere un posto marginale. Questa è una
bellissima donna, che si trucca e veste elegante, ma che non sa ugualmente spendere il suo
fascino. A parte san Giusto, piazza Unità e Miramare non abbiamo grandi momenti, dice il
libraio. Ma è attraente l'insieme, la combinazione urbanistica, il Carso. Eppure è come
se tutto fosse qui per essere goduto solo dai triestini. E' un luogo con una posizione
straordinaria da cui però non si passa e cui si può solo andare, dice uno degli
albergatori più noti della città. Trieste ha implicato sempre [nell'intrico dei suoi
valori simbolici di bastione, di finis terrae, di ultima oasi prima dell'hinc
sunt leones] un impegno della volontà, la determinazione ad arrivarci. Ed è stata
per decenni un binario morto che ha determinato un effetto serra: l'essere periferici, a
ridosso di un confine che, prima di essere geografico, era di sistema [altra lingua, altra
politica, alto mercato, altra economia, altro regime].

Ciò ha provocato una mentalità statica, da ultimo baluardo,
prima di sconfinare nel deserto dei tartari. Ma ha anche dato vita a uno sfruttamento
immobile delle rendite di posizione, un impiego passivo del vantaggio di una perifericità
che significava - perché si voleva che così fosse - assenza di rapporti e di
concorrenti. Lo scontro tra vecchio e nuovo è sordo e invisibile: il duello è tutto sul
cambiamento. E ancora una volta il dibattito si è riconcentrato sul porto, sul suo ruolo,
sul suo futuro. Eppure ti accorgi che anche i palazzi del centro storico, i vecchi caffè,
il lungomare, i molti antiquari, i rigattieri di via delle Beccherie, i molti musei, i
giardini, potrebbero avere un ruolo in questa partita. Se non altro perché costituiscono
un insieme che dovrebbe, per energia propria, animare un turismo ben più vivace di quello
che incontri in giro, più interessato allo shopping povero, al mordi e fuggi frontaliero,
alla deportazione scolastico-didattica. Allo smercio slavo di qualche banconota dai molti
cambiavalute in cambio di qualche centone da lasciare all'ipermercato. Ma non è neppure
vero che questa sia una città immobile. Senti che, nel bene e nel male, qualcosa,
soprattutto in questi ultimi anni, è cambiato. Delle decine di vecchie osterie di
Trieste, ad esempio, è rimasto solo il ricordo in qualche libro che vendono gli
antiquari. Di aperte ne sono rimaste pochissime. Per il resto incontri solo bar, caffè,
posti qualunque. E del resto, anche qui, i giovani non bevono più vino. I più audaci si
fanno uno spriz. Gli altri vanno ad aranciate. E sono almeno dieci anni che il bevitore di
vino ha dai quarant'anni in su. Marino Vocci, cultore della cucina carsolina, dice che
Trieste ha scoperto il vino di qualità molto tardi, almeno rispetto ad altre zone. E qui
il vino continua ancora ad essere di cantina. Quello in bottiglia, fino a metà degli anni
'70, era reperibile solo in un paio di locali. E non per ignoranza ma solo per abitudine,
per tradizione.
I triestini andavano - moltissimi lo fanno ancora - nelle Osmize,
le frasche, le rivendite dirette dei produttori [aperte, per privilegio imperiale concesso
nel 1784, per otto giorni o per un periodo multiplo di otto; osmica, infatti, in
dialetto sloveno significa ottavina]. E nelle Osmize trovavano un vino fresco, onesto,
senza troppe pretese, ma mai di una qualità tale da causare infatuazioni o innamoramenti.
E' così partito molto tardi il lavoro per il miglioramento della qualità, e soprattutto
per merito di Edi Kante di Prepotto [sopra Eurisina] che ha il vanto di aver lanciato il
vino di qualità a Trieste, dove l'abitudine era il vino di grande colore e un po' forte,
acido. Ma se vai in giro ti accorgi che vanno ancora forte gli spriz che sono la barbarie
di un bicchiere con metà vino [bianco o rosso] e metà acqua gassata. Del resto a Trieste
il vino è sempre stato legato al mondo povero, operaio, sudato, in tuta. La borghesia
razzolava nei caffè e beveva birra. Ma ora anche la birra qui è in crisi. Alla fine
degli anni '70 hanno chiuso quasi tutte le birrerie storiche [la Spatenbrau, la Dreher] e
la Forst, rimasta ferma per dieci anni, ha riaperto solo da poco offrendo birra e karaoke.
Ma un cronista fa il suo mestiere solo se è curioso, rompiballe. Allora entra in un bar,
fa domande, chiede a un avventore appoggiato al banco come si vive a Trieste: ti guardano
diffidenti poi, se ne hanno voglia, provano a risponderti. Cossa la vol, ...insomma, se
vivi discretamente, grazie a Dio. E quel discretamente sai che, più che abbastanza o
passabilmente, vuol dire soprattutto con prudenza, moderazione, educatamente, con
delicatezza. E che qui si campa in modo riservato, facendosi gli affari propri, senza che
nessuno, se è possibile, venga a romperti le scatole quando ti fai uno spriz coi gomiti
sul banco.

Anche se pure qui, ovviamente, c'è lo sbracalone, quello che ama
le smargiasserie e i monologhi da palcoscenico, che ti dice che a Trieste è un casino,
che si vive peggio che a Roma o a Milano, perché, per colpa dei pochi abitanti, no
semo calcoladi metropoli: gli altri prendono stipendi più alti e da loro la vita è
meno cara. E questa storia dei prezzi eccessivi delle botteghe di Trieste te la senti
ripetere spesso: i facili commerci con quelli dell'est hanno abituato molti a sfruttare
una domanda costante e spontanea, ma anche ad approfittarne. Eppure le cose stanno
cambiando anche per loro. Oltre confine non c'è più il deserto, la fame, il socialismo
straccione. Gli slavi che ancora vengono di qua a comprare sanno che, facendo un'altra
mezz'ora di treno, o arrivando fino a Udine o a Pordenone, possono acquistare meglio e
spendere meno. E allora si comincia anche qui a cambiare musica: molti negozi hanno
chiuso, altri hanno dovuto ripensarsi e hanno capito che la domanda va costruita,
sollecitata, e stanno cambiando pelle. Ma commerciare a Trieste non dev'essere facile. I
giovani sono pochi, i pensionati troppi, gli anziani abbondano. Chi volesse avere un'idea
dell'età media di questa città vada a farsi un cappuccino al Caffè Italia, al numero 2
di piazza Giovan Battista Vico [ci si passa salendo dal centro verso San Giusto]. C'è la
folla di una bocciofila durante un campionato. La ciurma centenaria di una tombola di
beneficenza. Età media dai sessanta ai cento. Vecchietti che si fanno briscole, scope,
spriz, parlando sotto voce, senza agitarsi, con un'eleganza che incanta.
E - a parte qualche locale encomiabile - anche della ristorazione
[dovendo rispondere alla domanda su come si mangia a Trieste], si potrebbe solo mormorare,
di nuovo, un "discretamente". Perché se non c'è un locale eccelso [il rado
turismo e l'abitudine dei triestini di andare a mangiare in campagna e nel Carso, non ne
hanno mai provocato la nascita], se manca un posto che ti sappia proporre piatti
indimenticabili, non c'è neppure all'opera quella cosca di avvelenatori che - più per
ignoranza che per perfidia - è all'opera in altre città -. Perché qui - nonostante
recenti conversioni al fast food anche sui piatti della tradizione - il livello medio è
comunque decoroso. D'inverno molti - non solo da Pepi S'ciavo o da Marascutti - sanno
consigliarti piatti locali, che essendo di ispirazione suina e di materia prevalentemente
porcella, circolano meglio col freddo, sposati al kren o alle patate. E non fai fatica a
trovare zuppe e trippe dell'antica tradizione agricola friulana. C'è soprattutto Suban,
che sa fare come dio comanda piatti di antica tradizione. E, coi primi tiepidi della
primavera e fino all'autunno, sanno che è bene attingere dall'altra tradizione, quella
del mare. E, male che vada, trovi quasi ovunque, senza fatica, e senza dover soffrire, una
zuppa o spaghetti decenti. anche i camerieri triestini sono gradevoli: hanno imparato alla
scuola dell'obbligo a dire scusi, prego e ad essere cortesi. Sul conto nessuno cerca di
fare il furbo. I tovaglioli sanno di bucato. Il resto è tutto ispirato all'essenzialità:
i triestini odiano il superfluo. Il massimo dello spreco è una candela sulla tovaglia e
un mazzolino di fiori essiccati in un bicchiere.

Eppure è soprattutto a tavola che avverti di essere attraccato in
una zona che ha subito influenze diverse. Intanto senti il legame di questa terra con
l'Istria [perché molti triestini sono istriani trapiantati, per l'abitudine consolidata
dei triestini di andare a mangiare in Istria e perché il pesce che si mangia qui, quando
è fresco, viene soprattutto da lì]. Ma annusi nei piatti anche brandelli di altri mondi:
c'è l'Austria dei bolliti, dei crauti, della iota. I semi di papavero della tradizione
slovena. I sughi di scuola magiara. La tradizione carsolina. Le zuppe di ispirazione
friulana. Ma c'è soprattutto molto di quel Mediterraneo cosmopolita e saporoso raccontato
da Predrag Matvejevic, a Trieste, che è l'angolo più nordico di questo mare. Se, con la
pioggia, o sotto le sferzate della bora, la città ha la cupezza di un nord arcigno, non
sa però mai perdere la solarità di un luogo di ulivi, pini, oleandri, cipressi. Senti
che la vicina Duino potrebbe essere stata rapita da un punto nascosto della costiera
amalfitana e riavvitata qui. Sandorligo della Valle, la zona degli oli migliori, è un
brandello di Liguria.
Sette anni fa l'impressione fu quella di una città immobile, di
un luogo irrequieto tormentato dall'attesa. Un posto che aspettava impaziente, col peso di
non sapere neppure cosa stava attendendo. Una città incarognita a vivere solo per la
propria immagine e, conseguentemente, rassegnata a immaginare di vivere, perché, quando
si accorge del vuoto della propria esistenza, la gente deve poi rassegnarsi ad
arrampicarsi sulla vita degli altri o sui propri fantasmi. E trovavi una Trieste che si
sgranava tra le dita il suo ruvido passato, o il velluto scolorito di antiche dominazioni
finite in soffitta. Oggi giri, fai domande ai bottegai, incontri ristoratori e gestori
d'albergo, parli con la gente, e ti accorgi qui si sta invece respirando un'aria nuova.
Forse solo per un caso, per un groviglio di situazioni che si sono miracolosamente
incontrate all'appuntamento [la caduta del muro, la fine dei regimi sui palcoscenici
dell'est, il cambio della compagnia cantante in Italia, l'arrivo di Riccardo Illy]. Eppure
senti che oggi questa città sta gioiosamente ritrovando il suo territorio. Sta ricucendo
legami interrotti. Sta rincollando cocci e ricostruendosi un'area. Era una città
scontrosa, difficile, complessa. Resta contorta, ma ha capito che bisogna cogliere la
sfida. Il sindaco precedente si vantava di non aver mai messo piede in Slovenia e in
Croazia. Illy è più spesso a Lubiana che a Roma. Ha cambiato bussola, ha spostato gli
obiettivi e invertito gli atteggiamenti. Ha saputo ricomporre un rapporto con un'area che
se in passato era collegata a Trieste per ragioni storiche, lo è tanto più oggi per
ragioni economiche e politiche. Si è cominciato a riaprire il dialogo, spalancare le
porte, ricominciare a guardarsi attorno. Se è stato un salto di qualità per la vita di
questa città, lo è ancora di più nell'atteggiamento che trovi nella gente verso chi
viene a curiosare da queste parti.
i senti sorprendentemente atteso, avverti un'insolita voglia di
accoglierti. Il bastione chiuso ai bordi del deserto ad osservare i movimenti dei tartari
sta forse diventando una città normale. Un luogo su un confine che non è più tra due
mondi, tra il bene e il male, tra il paradiso e la caienna, ma tra gente che dialoga.
Senza rancore, senza voglia di sorreggersi e di assistenza, ma orgoglioso di poter
sfruttare l'occasione di un confronto. Allora arrivi, incontri i triestini, li ascolti, li
lasci parlare. Lasci che ti raccontino ancora una volta come dovrebbero andare le cose,
cosa dovrebbe succedere. E senti che Trieste è ancora, come la descriveva Biagio Marin,
una città piena di tramonto e piena di ritorno. Ma che, questa volta - forse, dopo tanto
tempo, per la prima volta - avverti che in quel ritorno, in questa voglia di rinascita,
c'è anche un'imprevista fiducia in se stessi. Una freschezza che fa pensare in positivo.
Che, questa volta, promette bene.
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