Capitolo 1/Eureka Street
Robert McLiam Wilson
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Capitolo 1/Eureka Street
I brani che seguono sono tratti dai capitoli 10 e 11 di Eureka Street
Belfast
Quella sera in Poetry Street Jake dormì, come Chuckie e Max, Slat, Deasely e Septic,
il piccolo Roche e il grosso Clay Argyll e come tutti gli altri abitanti della città
esclusi gli insonni, i nottambuli e chi era al lavoro. Con così tanta gente addormentata,
Belfast sembrava una camera con la luce spenta.
La città palpita, si muove su e giù, a ritmo di musica, come se respirasse. Le strade
addormentate sono pervase da un senso di libertà, le vetrine dei negozi e i marciapiedi
illuminati di South Belfast sono deserti e silenziosi. Vicino a Hope Street un bevitore
solitario avanza barcollando. In una casetta a Moyard un vecchio smunto è disteso nel suo
letto, sveglio. In Carmel Street una ragazza mora perlustra la strada in ciabatte in cerca
del suo gatto. Ogni angolo è lo scenario di un piccolo evento: in Cedar Avenue, Arizona
Street, Sixth Street ed Electric Street gli agenti del Royal Ulster Constabulary
controllano non si sa che, fermano le poche macchine che passano, esaminano i documenti e
chiedono conferma dei dati via radio. Cedar Avenue, passo.
Sotto i lampioni, su ogni muro, spiccano le scritte ira, inla, uvf, uff, oag. È una
specie di diario: in una calligrafia sgangherata i muri, crepati e sbiaditi, raccontano le
vicende e gli odi della città. Qui a terre a guerre, sembrano dire. Manifesti e
volantini sventolano in mille direzioni diverse annunciando concerti, incontri religiosi,
rappresentazioni teatrali, svendite e altri incontri religiosi. In Brunswick Street una
lacera locandina arancione invita a una serata nella Cattedrale-discoteca viaggiante
del reverendo Ramsden. È gradito labito da sera. Ingresso vietato ai cattolici.

Qua e là, accanto a una finestra o in cima a una torretta, sventola una bandiera:
migliaia di stendardi, ma solo cinque colori: verde, bianco, oro, rosso e blu. I due
tricolori della discordia. Sparsi in tutta la città, sui marciapiedi, davanti ai portoni
o tra le aste delle inferriate, ci sono mazzi di fiori. In ogni angolo di strada, avvolti
in carta trasparente, piccoli giardini artificiali, fiori ancora freschi dai colori
vivaci, oppure avvizziti e spenti. Ogni passeggiata in città è cadenzata dal susseguirsi
di quei mazzi posati dagli abitanti di Belfast là dove sono stati uccisi i loro
concittadini. Quando i petali sono ormai secchi, ci si domanda chi sia morto in quel punto
e non si riesce mai a ricordarlo.
È solo in piena notte, dallalto, che la città sembra un insieme organico, un
tutto unico. Quando i suoi abitanti dormono, il disordine diurno si ricompone e, per lo
meno geograficamente, la città appare unentità compatta. Potrete scorgere allora
gli anelli di nero basalto che labbracciano, i monti, le colline e le distese
pianeggianti e vedere nella grande baia ai piedi della metropoli il mare scuro che ne
irrora il cuore.
Vi accorgerete che è, letteralmente, una discarica, un terrapieno, uno scosceso
arenile. Il suo nucleo si erge su una piana che due secoli fa non esisteva. Cumuli di
terra furono scaricati in mare e lì sopra sorse Belfast. I suoi abitanti dicono che è
emersa dalle acque come per miracolo, ma la realtà è che quando fu scagliata in mare,
non affondò.
Belfast ha più colli di Roma. È unAtlantide che affiora dal mare. E da
qualsiasi punto la osserviate, in qualsiasi direzione guardiate, le strade luccicano come
pietre preziose, come collane di stelle. Cè chi dice che sia una città di 279.000
abitanti, 130.000 uomini e 149.000 donne, ammassati in 11.489 ettari. Cè chi dice,
invece, che vi abitino mezzo milione di anime, considerando anche la periferia, Greater
Belfast. Due cattedrali, banchine di scarico, un porto e un gran su e giù di strade: una
città su unaccidentata lingua di terra a livello del mare.
Qualunque siano le sue dimensioni, è un luogo magico. Questa notte le strade odorano
di vecchio e di fatica. Laria gronda di rimpianti e di desideri. Il tempo non si
ferma mai. La città sente il peso degli anni.
Per quanto incantata e sfavillante, Belfast parla chiaro. Le bandiere, le scritte sui
muri e i fiori sui marciapiedi parlano chiaro. È una città in cui la gente è pronta a
uccidere e a morire per pochi brandelli di stoffa colorata. Questo si aspettano i due
popoli che labitano, divisi da quattro, o otto, secoli di differenze religiose e
civili. Unassurdità, un rompicapo che avvelena il sangue, una spirale senza fine
che impedisce ogni cambiamento. A notte fonda, però, la fresca brezza che attraversa
Belfast sussurra che lodio è come Dio: non lo potete vedere, ma se combattete in
suo nome e credete ciecamente in lui, riscalderà le vostre notti.
Se volgete lo sguardo sulla città (i vostri occhi devono, come i nostri, essere
democratici osservatori e imparziali testimoni della realtà), vedrete chiaramente che
cè davvero qualcosa che divide i suoi abitanti: qualcuno questo qualcosa lo chiama
religione, altri politica, ma è solo il denaro il vero motivo di differenza e discordia.
Ci potete scommettere, e non perderete il vostro denaro. Vedrete strade immerse nel verde
e strade soffocate dal cemento: immaginatevi vite immerse nel verde e vite soffocate dal
cemento. Nei quartieri ricchi e nei sobborghi senza un centimetro quadrato derba, i
vostri occhi scorgeranno la verità. Le cicatrici e i segni della violenza non sono
visibili ovunque. Molti se la passano bene, molti prosperano, ma molti altri soffrono.
Belfast è una città a cui è stato strappato il cuore. Una città di cantieri navali,
fabbriche del lino e corderie in cui oggi non costruiscono più navi, non si produce più
sartiame e non si lavora più il lino. Una città non può sopravvivere se non sa dove
sbattere la testa. Ma di notte, in mille modi diversi, è la prova dellesistenza di
Dio. Sembra il centro delluniverso. È spesso sui teleschermi, ma pochi turisti la
visitano. Hope, Chapel, Chichester e Chief Street sono attraversate dalle tracce viventi
delle migliaia di morti che hanno impregnato i marciapiedi, i mattoni, le porte e i
giardini di Belfast. Gli abitanti di questa città vivono in un mondo andato in frantumi,
ma ancora affascinante.
Dovreste fermarvi una notte in Cable Street, e mentre il vento vi sferza il viso,
ascoltare immobili, in estasi, la voce di un passato sconosciuto. Allora, non riuscireste
più a staccarvi questa città di dosso. In centro e nei quartieri popolari, le strade,
come luci nella casa dei vicini, raccontano di gesti, desideri, sofferenze e ricordi.
Lintera superficie della città pullula di vita. Il terreno è reso fertile dalle
ossa dei suoi innumerevoli morti. La città è uno scrigno di storie e di racconti
presenti, passati e futuri. È un romanzo.
La città è un semplice conglomerato di persone, e al contempo complesso distillato
geografico ed emotivo di una nazione. Non è la dimensione di un luogo che ne fa una
città, né la velocità dei suoi abitanti o la foggia dei loro abiti, il frastuono delle
loro voci. Ma soprattutto la città è crocevia di storie. Gli uomini e le donne che vi
abitano sono racconti affascinanti, infinitamente complessi. Anche la persona più noiosa
e ordinaria è un racconto che non teme il confronto con la trama più bella e più ricca
di Tolstoj. È impossibile rendere la grandezza e lincanto di unora nella
giornata di un qualunque abitante di Belfast. Nelle città le storie si incrociano e si
intersecano, i racconti si incontrano, si scontrano, si fondono e si trasfondono in una
Babele di narrazioni.
E alla fine, dopo generazioni e generazioni, e centinaia di migliaia di persone, la
città stessa comincia ad assorbire quei racconti come una spugna, come carta assorbente.
Il passato e il presente vi sono iscritti, a inconsapevole e integrale testimonianza.
Talvolta, a notte fonda, quando quasi tutti dormono come in questo momento, la città
sembra fermarsi, tirare un sospiro ed effondere quei racconti, che evaporano come calore
assorbito dalla terra destate. Se in un momento simile vi trovate in strada e per
qualche incredibile istante non passa una macchina e il rumore del traffico si
affievolisce, e voi vi guardate intorno contemplando i marciapiedi, i lampioni e le
finestre e ascoltate con attenzione, potrete sentire i sussurri dei fantasmi di quelle
storie.

Cè qualcosa di magico in istanti simili, qualcosa di prodigioso e impalpabile
che svanisce in fretta. Vi sentirete in presenza di qualcosa di più grande di voi.
Girando un poco lo sguardo lungo il perimetro del vostro campo visivo, vedrete strade ed
edifici in cui palpitano centinaia di migliaia, un milione, dieci milioni di storie
oscure, tanto intense e intricate quanto la vostra. Non cè nulla di più divino.E i
sonnecchianti mormorii di mezzo milione di persone si uniranno in una musica sublime. Se
riuscirete a sentirla, vi toccherà il cuore. Una città deserta alle quattro del mattino
può raccontare tutto quanto si può imparare su questa terra. Notti simili e simili
città sono il centro, il fulcro, il cardine attorno al quale ruota la nostra vita.
Le città, immerse nel sonno come i loro abitanti, attendono lo sviluppo degli eventi e
la ripresa delle storie sospese, che presto ripartiranno e si rimetteranno in moto. E
mentre gli angoli delloscurità cominciano ad arricciarsi, la città addormentata si
muove e si agita nel sonno. Presto si sveglierà. In questa città, come in ogni altra,
ogni mattina la gente si sveglia e indossa la corazza per affrontare la lotta quotidiana.
In tutte le piccole case di questa piccola città, uomini e donne si affacciano alla
finestra a guardare Belfast allalba, preparandosi alla battaglia che vi si
svolgerà.
Ma per ora sono ancora a letto e le loro storie sono temporaneamente sospese. Dormono,
come Jake. Sono meravigliosi così addormentati: eroici, commoventi e vulnerabili. A
Belfast, come in ogni altra città, cè solo un tempo, il presente, e ogni strada si
chiama Poetry Street.
La bomba
Rosemary Daye fece un pallone con il suo terzo chewing-gum alla nicotina. In tre
settimane aveva fumato solo due sigarette, tutte e due con Sean: era giustificata. Era la
seconda volta che si vedevano e lei quella sera al pub era nervosissima, accettare una
sigaretta laveva anche aiutata a creare quellaria raffinata con cui cercava di
affascinarlo. Adesso sapeva che avrebbe potuto benissimo risparmiarsi quello sforzo, Sean
era già ammaliato. Lei quella sera aveva il suo abito fantasia e lui aveva cominciato ad
ansimare prima ancora che lentamente se lo sfilasse.
A quel pensiero quasi le sembrò di sentire sulla pelle il calore dei deboli raggi del
sole. Attraversò Royal Avenue ed entrò nel suo negozio preferito, frequentato da ragazze
eleganti e alla moda. Si diede unocchiata in giro distrattamente. Decise di provare
una gonna verde di lino lunga fino al ginocchio, anche se era troppo cara e Rosemary non
era neanche sicura che le piacesse. Ripensando a quello che lui le aveva detto dei suoi
fianchi (ed era così evidente la sua sincerità) arrossì ancora. Si sistemò la gonna
davanti allo specchio che la rifletteva dalla vita in giù e si accorse che sotto
linguine si vedevano già alcune piegoline. Una settimana prima avrebbe pensato che
quella gonna la faceva sembrare una pera, adesso, invece, firmò soddisfatta
lassegno, senza neanche toglierla né pensare tanto al prezzo. Quelle piegoline, ne
era certa, avrebbero fatto impazzire Sean.
La commessa le sorrise e Rosemary si domandò se la ragazza avesse intuito i suoi
pensieri. La sua felicità quel giorno era contagiosa. Chissà se anche quella ragazza
aveva qualcuno che ladorava come Sean adorava lei. Senza motivo, sperò
generosamente di sì. Di fuori il sole era un po meno caldo adesso. Rosemary era
felice: cominciò persino ad ancheggiare leggermente.
Non riusciva a capire perché prima di quella sera non si fosse accorta della bellezza
di Sean. Adesso avrebbe voluto mangiarsi il suo sorriso. Prodigiose vampate di calore la
inondavano se solo pensava ai suoi denti, così perfetti, con quel minuscolo spazio
davanti, al mento virile, alla pelle scura, alla barba appena un po lunga. Si
sorrise in una vetrina, Centro di bellezza Mechans. Rosemary si guardava spesso in
quella vetrina. Cerano poche zone della città di cui lei non conoscesse la mappa
delle superfici riflettenti. Organizzava i suoi percorsi in base alle possibilità di
trovare qualche posto in cui rimirarsi: vetrine, pareti a specchio, persino i finestrini
delle auto parcheggiate. Rosemary si sentiva a disagio se era costretta a camminare per
più di due o trecento metri senza potersi specchiare almeno una volta.
Non era vanità, bensì apprensione. I suoi capelli avevano dominato la sua vita da
quando aveva tredici anni: intrattabili e ostinati comerano sembravano avere un
unico scopo, quello di renderla infelice. Per anni Rosemary aveva speso centinaia di
sterline in trattamenti vari, tagli e acconciature. Da sempre guardava con attenzione i
capelli delle altre, studiandone i problemi e le cifre spese dalla parrucchiera. In
macchina, se si trovava dietro unauto con alcune ragazze a bordo, riusciva a
calcolare con precisione la spesa tricologica annua dellintero gruppo. Negli ultimi
due anni era riuscita a domarli con laiuto di una piastra elettrica e di un
misterioso unguento balsamico. Cerano ancora giorni, non di rado purtroppo, in cui
le sembrava di avere la testa cotonata come una vecchia bacucca ed erano proprio giornate
no, ma in genere andava molto meglio.
Comunque non aveva perso labitudine di specchiarsi in ogni vetrina. Si era anche
accorta di non essere lunica: molte altre donne controllavano la propria immagine in
ogni superficie riflettente che capitasse loro a tiro, per non parlare poi degli uomini.
Persino i più grassi e brutti non perdevano occasione di rimirarsi. Gli uomini più
attraenti cedevano talvolta al fascino di tale pratica, ma non senza qualche imbarazzo, i
loro colleghi grassi e brutti lo facevano con disinvoltura assoluta. Specchiarsi nelle
vetrine non era stato molto gratificante in passato, ma da un po di tempo Rosemary
stava cominciando a piacersi. Aveva ventisei anni: era anche ora.
Si diede unocchiata intorno, le sembrò che lampia Royal Avenue traboccasse
di uomini che avrebbero potuto desiderarla, ma non nel modo mortificante e spiacevole che
aveva sperimentato fino ad allora. Le sembrava che Sean le avesse permesso di trovare, o
le avesse semplicemente rivelato, un mondo fatto di una gradevole, generosa sensualità. I
corpi volevano sfiorare altri corpi, e assaporarne il calore. Che male ci poteva essere in
una cosa simile? Rosemary attraversò la strada e sorrise a un uomo che non laveva
neanche notata, ma la guardò subito, gratificato e sorpreso dallampiezza e dal
calore di quel sorriso.
Era luna e un quarto. Aveva solo quindici minuti per tornare al lavoro, alle
magre gioie del mondo delle assicurazioni. Per la prima volta in tre anni fu felice di
dover tornare al soporifero tepore e alle luci soffuse del suo ufficio. Avrebbe dovuto
combattere tutto il pomeriggio con il telefono, ma si sarebbe sfilata le scarpe e avrebbe
sentito il calore della moquette sotto i piedi (era il primo giorno che usciva senza calze
ed era contenta di essere una delle poche ad essersi azzardata a farlo in una giornata
così poco assolata) e pensato a Sean e alla sua dolce pelle ruvida e alle infinite vite
che avrebbero potuto vivere insieme.
Si diresse verso Queens Arcade e si immerse nelloscurità della galleria.
Quel passaggio che solitamente le sembrava così squallido, angusto e malridotto, le parve
più pulito ed elegante. Il suo umore non era ancora alle stelle, ma le mancava davvero
poco per toccare il cielo con un dito. Sperava di sentirsi sempre così.
Le sembrava che Sean avesse baciato ogni centimetro del suo corpo. Era stato il quinto.
Ti prego, permettimi di essere il quinto, laveva supplicata quando lei gli
aveva detto di essere andata a letto con quattro uomini prima di lui. Nessuno laveva
trattata con tanta delicatezza, dimostrandole una tale adorazione. Al ricordo dei suoi
silenzi stupefatti e della gioia riconoscente di Sean quasi inciampò, sommersa da nuove
vampate di calore.
Non era rimasta a dormire da lui e non aveva sorriso quando lui le aveva detto che
lavrebbe chiamata. Le era sembrata una frase fuori posto dopo una serata così. Ti
chiamo. Lunica, fino a quel momento, che Rosemary avesse già sentito da altri.
Perciò, mentre tornava a casa, aveva cercato di prendere le distanze e ridimensionare
tutto. Gli uomini sono così: avrebbe dovuto provare rabbia, non vergogna. Arrivata a
casa, le sembrò di scoppiare dalla felicità quando Orla, la sua compagna di
appartamento, le disse risentita che un tale Sean le aveva telefonato, senza preoccuparsi
minimamente che fossero le tre e mezzo. Doveva essere ubriaco, aggiunse, ma Rosemary
sapeva che non era lalcol ad averlo inebriato, ma lei. Orla era ritornata a letto
immusonita e Rosemary laveva richiamato: era sveglissimo, ma parlava con un filo di
voce e sembrava davvero sbronzo. Le aveva detto, con la voce che gli tremava, che il letto
era troppo grande senza di lei e che ormai gli sarebbe bastato pensare ai suoi fianchi per
morire felice. Forse non era una frase particolarmente brillante, ma a lei era bastata
ampiamente.

Emerse dalloscurità di Queens Arcade. Passata una lunga nuvola chiara, il
sole si ravvivò e lei sentì di nuovo il tepore di quei dolci raggi sul viso accaldato.
Sorrise. Poi sorrise di nuovo al pensiero di quel sorriso immotivato. Si slacciò il primo
bottone della camicetta. Nonostante gli abiti leggeri, provava una dolce sensazione di
calore, una splendida tiepida carezza sulla pelle. Le sembrava che non avrebbe mai più
potuto sentire freddo, che quel fuoco tranquillo e fecondo risvegliasse ogni granello di
vita dentro di lei.
La luce di Fountain Place la riportò in sé. Aveva passeggiato e osservato le vetrine
così a lungo che si era dimenticata di mangiare. Non le era rimasto più molto tempo. Si
diresse verso il piccolo snack bar in cui andava sempre, indugiando sulla porta per
lasciar passare un bel ragazzo con un vistoso abito verde. Questi, colpito dal rossore di
Rosemary, le rivolse un sorriso seducente e le aprì galantemente la porta. Felice, lei
ricambiò il sorriso ed entrò, passandogli sotto il braccio. Mentre si voltava a
ringraziarlo, la sua esistenza ebbe fine.
Nellesplosione un espositore di vetro si disintegrò, ma Rosemary fu colpita da
pezzi di vetro e schegge metalliche abbastanza grandi da ucciderla allistante. Un
frammento di vetro temperato le mozzò il braccio sinistro e lammasso contorto di un
vassoio metallico le dilaniò gran parte del cranio e del viso. Uno dei tre grandi blocchi
da cui era composto il bordo esterno dellespositore le si infilò nei fianchi, così
sinceramente e appassionatamente desiderati, tranciandoli di netto. Alcuni pesanti
barattoli di vetro le sfondarono il petto e lo stomaco, disintegrando i suoi organi
interni. Un grosso pezzo di vetro si schiantò contro il suo diaframma e fuoriuscì da un
ampio squarcio nella schiena portando con sé gran parte di quanto aveva incontrato nel
suo cammino allinterno del corpo.
Rimase ucciso anche il giovane che le aveva aperto la porta (aveva trentaquattro anni
ma era orgoglioso del suo viso senza una ruga e di non avere perso un solo capello: del
resto non aveva mai dimostrato la sua età, cosa che a ventanni laveva
irritato terribilmente, mentre ora, con i suoi compagni di scuola calvi o sposati, gli
permetteva di poter tranquillamente uscire con ragazze più giovani di lui di dieci anni),
sebbene la sua esistenza fu prolungata di una ventina di secondi rispetto a quella di
Rosemary. Una scheggia dellespositore gli asportò una gamba mutilandogli
linguine e la zona pelvica. Il vetro della porta dentrata gli squarciò il
viso, recidendogli il naso e penetrando nel cranio. Si chiamava Martin OHare. Aveva
studiato. Aveva letto Grandi Speranze di Dickens e desiderava diventare astronomo.
Si era innamorato e aveva fatto innamorare di sé molte ragazze. Anche lui aveva una
storia.
Allinterno dello snack bar (che luogo banale per una strage, del resto i Troubles
non hanno mai avuto come scenario luoghi di respiro epico, ma sempre umili vicoli,
negozietti, ricevitorie, snack bar, bancarelle di hot dog, pub di quartordine,
vecchie balere, nonché una vasta gamma di edifici rallegrati da ampi murales) ebbe fine
lesistenza di Kevin McCafferty. Kevin aveva appena servito una baguette con bacon e
insalata niente burro, solo margarina a un distinto uomo daffari di
mezzetà che non gli andava affatto a genio. Kevin non prendeva molto, ma col
sussidio di disoccupazione riusciva a tirare avanti. Era stanco di quella vita e voleva
diventare famoso. Cantava in un complesso che cambiava nome ogni volta che si esibiva,
vale a dire ogni mese. Non gli piaceva molto la musica e sapeva di non essere un gran
cantante, ma era unottima scusa per non tagliarsi i capelli, correre dietro alle
ragazze e forse un giorno riuscire ad apparire in televisione.
(Il sogno di Kevin si realizzò quando Channel 4 mostrò un documentario sui Troubles
realizzato da una piccola rete indipendente che utilizzò alcune fotografie scattate a
Fountain Street dalla polizia cinque o sei ore dopo lesplosione. Kevin, così vicino
al punto in cui era stata piazzata la bomba, era alquanto malconcio, ma quel groviglio di
carne senza testa, privo di una gamba e di una vasta porzione di torace e di addome
conservava ancora qualche parvenza umana. Altre vittime erano state letteralmente ridotte
a pezzi e per quanto le foto a colori dei loro corpi, anzi dei brandelli di tali corpi,
fossero indubbiamente di notevole impatto visivo, il regista aveva deciso che mancavano
della forza dirompente delle immagini di Kevin. In seguito alla trasmissione la redazione
ricevette un numero record di telefonate di protesta da parte degli spettatori e della
madre di Kevin, la quale insisteva, incredibilmente, ma a ragion veduta, di avere
riconosciuto gli organi interni, le costole e la spina dorsale del figlio in quel corpo
grottescamente mutilato. La moglie del regista si rifiutò di dormire con lui per circa
tre mesi e il fotografo della ruc cinque mesi più tardi si suicidò; il perché non fu
mai accertato).
Anche Kevin aveva una storia.
E anche Natalie Crawford aveva una storia. Aveva otto anni, la sua dunque non era una
storia molto lunga, né forse terribilmente interessante per un adulto (eccezion fatta per
i suoi genitori, naturalmente), ma se tutto fosse andato come doveva, si sarebbe
sviluppata, avrebbe abbracciato un cast più ampio e un maggior numero di eventi e di
scenari. Ma anche così, la storia di una bambina di otto anni è troppo importante per
essere troncata a quel modo. Le esistenze di Natalie, della sorella Liz (che aveva dodici
anni ed era già innamorata di un ragazzo di Carryduff che, secondo lei, aveva gli occhi
di Brad Pitt, nonostante lorribile selva di brufoli che devastava il suo viso) e
quella della madre Margaret ebbero fine più o meno allunisono quando il frigorifero
delle bibite riversò una pioggia di schegge roventi sui loro teneri corpi indifesi.
La famiglia Crawford aveva una storia. La scomparsa di Natalie, Liz e Margaret
certamente derubò la famiglia di gran parte del proprio potenziale dinastico. Da allora
anche la storia di Robert, padre di Natalie e Liz e marito di Margaret, perse ogni impulso
vitale. Robert si rifiutò di arricchire la propria storia personale visto che questo
significava vivere una vita senza moglie né figlie. Per un paio di settimane fu il
soggetto preferito di ogni reporter incaricato di preparare un servizio sui parenti delle
vittime: la sua storia era davvero perfetta. Poi, però, a causa dellimmotivato
protrarsi del suo cocente dolore, dellostinata negazione di ogni futura possibilità
di gioia e di serenità, nonché dellirremovibile rifiuto di non perdonare
testardamente esibiti, finì per essere evitato.
Robert non riuscì mai a perdonarsi il fatto che la moglie e le figlie quel giorno si
trovassero in Fountain Street solo perché lui e Margaret avevano ferocemente litigato.
Quando lei si era lamentata che Robert non lavava mai i piatti, avevano dato fondo a dieci
anni di risentimenti coniugali, dopo di che Margaret se nera andata in centro con le
due figlie a cullare il proprio risentimento, piangere, e morire.
Robert non riuscì mai ad abituarsi a tanto dolore. La violenza tumultuosa di quella
sofferenza che lo svegliava nel mezzo della notte, non smise mai di sorprenderlo. Uno
strazio che non riaffiorava soltanto nei suoi sogni, ma era sempre presente come una
gabbia che imprigionava i suoi pensieri. Una disperazione di dimensioni tali da non poter
trovare spazio a sufficienza dentro di lui, che continuava imperturbabile a crescergli
oscenamente nelle viscere. La prima volta che Robert si masturbò, tre mesi dopo
lesplosione, si addormentò piangendo, oppresso dalla vergogna e dal senso di colpa.
Gli sembrava di non poter fare nulla per onorare il ricordo della moglie e delle figlie.
Credeva di avere imparato ad amarle soltanto dopo il massacro. Era soffocato in uguale
misura dallamore e dal dolore. Un affetto incontrollabile che non poteva trovare
sbocco, lamore che aveva compreso di provare per loro quando erano morte, lo
opprimeva. Non aveva mai saputo che lamore potesse essere così devastante.
Fu così che la sua storia divenne sempre meno vendibile. Robert perse il lavoro e gli
amici, cominciò a bere (per ricordare, non per dimenticare) e nel suo cuore non smise
più di piovere.
Così, per farla breve, un intricato groviglio di storia, politica, circostanze
fortuite e materiale esplosivo portò alla deflagrazione di una bomba di mezzo quintale di
tritolo in un piccolo snack bar di poco più di tre metri per sei. Un ordigno di quelle
dimensioni allinterno di un ambiente così ridotto diede luogo a unesplosione
di tale violenza da causare il crollo dellintero edificio: cerano quattordici
persone nel bar e al piano superiore cerano cinque persone in un salone di bellezza.
Altre dodici, in strada, si trovarono sulla traiettoria dellesplosione e delle
macerie. Trentuno vittime, di cui diciassette persero la vita e undici rimasero senza un
arto o un organo interno.
Nella libreria di fronte due persone che stavano dando unocchiata alla sezione
dedicata ai viaggi e un agente della sorveglianza rimasero gravemente feriti in seguito
allo schianto della vetrina. Lagente perse un occhio e rimase cieco anche
dallaltro, mentre una donna di mezzetà che sfogliava un libro di fotografie
sulle isole Mauritius rimase permanentemente sfigurata da una scheggia che le sollevò il
cuoio capelluto. Laltro cliente venne privato di gran parte dei tessuti molli del
collo e della faccia.
Un cestino della spazzatura schizzato in direzione di Queens Arcade a causa dello
spostamento daria causato dalla bomba, colpì un ragazzo seduto su una panchina di
cemento lì davanti fracassandogli il femore, lesione da cui non guarì mai completamente.
Numerose persone riportarono piccole ferite e contusioni, e molte altre un grave shock.
Quando il fumo si dissolse e la polvere si posò a terra di nuovo, i primi soccorritori
videro una scena talmente spaventosa e insanguinata che sarebbe per sempre rimasta
stampata nella loro mente.
Nellacuto e stridente silenzio che seguì lo scoppio, vi fu qualche istante di
grottesca tranquillità. I morti erano morti, i morenti erano incoscienti e comunque non
in grado di parlare, i feriti e gli sgomenti spettatori erano in stato di shock o quanto
meno sconcertati. Una giornata normalissima e un posto qualunque (avrebbe potuto trattarsi
di qualsiasi altro bar, negozio, pub o strada di Belfast) si erano trasformati nella scena
di un massacro. I vivi ci impiegarono qualche secondo a rendersene conto, poi iniziarono a
urlare.
Dopo tre minuti arrivarono alcuni poliziotti che si avvicinarono e si accovacciarono
accanto ai feriti e ai morenti, e si arrampicarono sulle macerie in cerca di
sopravvissuti. Un poliziotto intelligente si voltò e corse via. In meno di cinque minuti
arrivò la prima ambulanza. I due infermieri, credendo di avere ormai fatto il callo a
quel genere di incidenti, si presentarono sulla scena con un certo aplomb. Qualche secondo
dopo stavano vomitando.
Le prime operazioni di soccorso furono in parte ostacolate dalla cautela delle forze di
polizia. Era spesso successo che un secondo o persino un terzo ordigno, programmati per
esplodere qualche minuto dopo il primo, venissero piazzati là dove si calcolava che la
polizia avrebbe creato un cordone di sicurezza. Così, prima che polizia e vigili del
fuoco escludessero il pericolo di una simile eventualità, trascorsero alcuni minuti
preziosi. Nel frattempo una delle vittime, che avrebbe potuto essere salvata, morì.
Dieci minuti dopo lesplosione il numero dei morti era già salito. Il personale
paramedico da poco sopraggiunto dovette lottare con il proprio raccapriccio e nuovi
ufficiali di polizia e vigili del fuoco si apprestarono a scavare tra le macerie. Numerosi
passanti si accasciarono a terra, inermi, muti, tremanti.
Dopo quindici minuti la maggior parte dei presenti si era ormai resa conto della
situazione. Un cordone di sbarramento impedì laccesso a giornalisti e curiosi. Si
approntarono alcune squadre di soccorso e un efficiente sistema di assistenza alle
vittime, coordinato da una giovane dottoressa che non avrebbe mai saputo di assomigliare
incredibilmente a Rosemary Daye.
Molte persone, tuttavia, si rifiutavano ancora di credere ai propri occhi, e numerosi
passanti fissavano sgomenti e increduli gli escrementi, il sangue e i brandelli di carne
sparsi ovunque, incapaci soprattutto di afferrare il valore politico della scena. Un
ingenuo vigile del fuoco che aveva ritrovato qualcosa che poteva assomigliare a una testa
mozzata lo giudicò, nella sua semplicità, un puro atto di sadismo. Una donna con il viso
insanguinato che consolava il suo bambino vicino alla libreria non era consapevole degli
imperativi storici che avevano condotto a un simile gesto. Un atterrito turista francese
che al momento della detonazione si trovava nelle vicinanze di Castle Street, non troppo
vicino alla bomba quindi, non sembrava comprendere perché fossero stati assassinati degli
irlandesi se lobiettivo era quello di cacciare gli inglesi dallIrlanda. Non
per niente era francese.

Regnava tra i presenti una deplorevole assenza di oggettività, uninqualificabile
limitatezza di vedute. Gli interessati si rifiutavano di collocare lavvenimento nel
giusto contesto e qualche anima ribelle insistette a non muoversi da tale posizione
neanche in seguito. Una delle vittime, che aveva riportato una triplice amputazione, ebbe
persino il coraggio e linciviltà di dichiarare qualche settimana più tardi ai
giornali che non avrebbe mai compreso né perdonato gli attentatori.
Una simile reazione potrebbe anche essere giustificata dalla sorpresa e dalla
sofferenza fisica immediata, ma lostinato rifiuto dimostrato da qualcuno di
ascoltare ragioni e spiegazioni non è concepibile. A quanto pare ci sono persone che
semplicemente non riescono a vedere al di là del proprio naso e si lasciano trarre in
inganno dai loro occhi.
Gli uomini che avevano piazzato la bomba sapevano di non averne colpa: erano i loro
nemici, gli oppressori, che non acconsentivano a fare ciò che veniva loro richiesto, i
veri colpevoli. Un primo, ragionevole invito a sloggiare non aveva sortito alcun effetto.
Quando anche le minacce di un eventuale ricorso alla violenza avevano fallito, per quanto
riluttanti, si erano visti costretti a mettere in atto tali intimidazioni. Chiaramente,
non era colpa loro.
Una ferrea logica da asilo nido: se Julie dà un calcio a Suzy, Suzy non restituisce il
calcio a Julie, ma preferisce piuttosto dare uno schiaffo a Sally. Quel giorno a Fountain
Street il tempo sembrava scorrere al rallentatore. Le ore fluivano con esasperata
lentezza, pareva quasi che il tempo stesso, rimasto vittima dellesplosione,
avanzasse col passo di chi si trova ad attraversare un campo di battaglia. Quel giorno il
tempo aveva lincedere della morte.
Prima di tutto si portarono in ospedale le persone in pericolo di vita, poi i feriti,
quindi i contusi, infine quanti erano sotto shock. Nessuno si curò di chi, atterrito e
sgomento, aveva assistito allesplosione o era arrivato a portare soccorso alle
vittime, anzi questi ultimi furono costretti a rimanere sul posto. I testimoni oculari
furono interrogati dalla polizia. La polizia fu intervistata dai giornalisti. I
giornalisti si rivolsero agli uomini politici, i quali rilasciarono lunghe dichiarazioni,
e ai medici, i quali resero noti diagnosi e probabile decorso clinico delle vittime.
Veementi condanne allevento piovvero da ogni dove. Pochi pensarono a quante volte
avevano ripetuto le stesse parole negli ultimi ventanni. I cadaveri accessibili
furono rimossi, poi si iniziò a scavare per recuperare i resti nascosti sotto le macerie.
Una simile impresa è una discesa grave e solenne in un baratro di tenebre.
Cerano anche civili, volontari, uomini e donne dotati di senso dellumorismo
che si misero al lavoro e presto cominciarono a pensare che non ci sarebbe mai più stato
nulla di cui poter ridere. Trovarono un gran numero di cose: un apparecchio acustico
parzialmente danneggiato di cui non fu possibile stabilire il proprietario, la lavagna su
cui era stato scritto il menu, scheggiata e insanguinata.
Si disse che avessero persino trovato un cervello umano, senza cranio, ma perfettamente
integro. Recuperarono una gonna di lino verde ancora intatta, e inizialmente non seppero
spiegarsi un simile fenomeno visto che tutte le vittime di sesso femminile erano rimaste
gravemente mutilate e i loro abiti ridotti a brandelli, fino a quando un brillante
individuo non scoprì letichetta del prezzo. E poi abiti, portafogli, giocattoli,
borsette, giacche, scarpe, persone, pezzi di persone e cose che non fu possibile
identificare.
Un uomo di nome Francis, padre di due bambine, trovò una piccola cosa blu di cui non
riuscì a comprendere la provenienza. Stava per buttarla nella pila dei vestiti quando
vide che cera attaccato un ciuffo di capelli biondi. Lorrore divampò dentro
di lui mentre lasciava cadere quel pezzo di cappellino a cui era rimasto incollato un
brandello di cuoio capelluto (che più tardi fu identificato come uno dei resti più
cospicui di Natalie Crawford). Francis chiamò gli altri e si sedette respirando
affannosamente.
Un paio di vigili del fuoco lo raggiunsero e Francis indicò loro quella piccola cosa
blu. Uno dei due la raccolse, laltro gli diede un colpetto sulla spalla. "Tutto
ok?". Francis fece cenno di sì, respirando ancora come una donna con le doglie. Dopo
un paio di respiri profondi, tornò al lavoro e si arrampicò sul cumulo di macerie.
Sarebbe stato meglio se quella piccola cosa blu lavesse trovata uno scapolo, o
almeno un uomo senza figli, perché Francis aveva due figlie, e unalquanto
inopportuna capacità di empatia. Due minuti dopo stava singhiozzando, il volto coperto
con le mani, come un bambino che è appena stato picchiato. Francis non era molto
perspicace: per lui storia e politica non erano giustificazioni sufficienti.
Non era il solo a dar segno di tale carenza di lucidità. Nei due ospedali che
accolsero le vittime molti erano daccordo con lui. Il reparto di Pronto Soccorso del
City Hospital sembrava essersi trasformato nella baracca di uno sfasciacarrozze o di uno
straccivendolo. I pazienti che erano arrivati con una caviglia slogata o unernia del
disco, raccapricciati, si dileguarono rapidamente. Nella camera mortuaria le salme furono
ricomposte pezzo per pezzo, assemblando lentamente i trenta, quaranta chili di tessuto
umano non identificato recuperati tra le macerie, un compito difficile poiché si trattava
di brandelli di carne dilaniati e bruciacchiati. Il corpo umano, comè noto, è del
tutto inadeguato ad affrontare siffatte evenienze. Perché mai dovrebbe meritarsi un
trattamento simile, del resto? Quali peccati potrebbero mai giustificarlo?
Dimostrarono la stessa mancanza di freddezza anche i poliziotti inviati a informare i
parenti delle vittime. Un compito che chiunque avrebbe preferito evitare. Gli unici veri
professionisti furono i reporter e i cameraman giunti sulla scena dellincidente o in
ospedale, loro mostrarono uno slancio encomiabile e una travolgente passione nel compiere
il proprio lavoro. Riuscirono a puntare telecamere e microfoni ovunque: un giornalista
tedesco cercò persino di avvicinare il microfono alle labbra di un cadavere che veniva
trasportato in barella. Alcuni suoi colleghi irlandesi scoppiarono a ridere, in Irlanda da
tempo nessuno interroga più i morti.
A mezzanotte quasi tutti avevano ormai fatto ritorno a casa: il personale medico e
paramedico, i parenti delle vittime, la polizia e i volontari che avevano lavorato in
Fountain Street. Quella notte furono tutti accomunati da un singolare fenomeno: mentre
bevevano una tazza di caffè, si lavavano i denti, guardavano un film o chiudevano a
chiave la porta di casa, pensarono Comè strano questo gesto dopo quello che ho
visto. A molti sembrò di avere qualcosa nello stomaco, ma non avrebbero saputo
spiegare cosa, tanto era una sensazione insolita.
Li accomunò anche un altro fenomeno. Nonostante le carenze che avevano dimostrato,
quelle persone avevano conquistato una consapevolezza nuova: quella sera sapevano qualcosa
che fino a quel momento ignoravano. Alcuni acquisirono un nuovo rispetto per la fragilità
del corpo umano, altri credettero di avere scoperto qualcosa riguardo alla crudeltà
umana, ma tutti impararono almeno una cosa.
La lotta armata fa scorrere fiumi di sangue e di liquidi organici. Questi i morti di
Fountain Street: Rosemary Daye (larghi fianchi e capelli ribelli), Martin OHare
(aspirante astronomo), Kevin McCafferty (iscritto alle liste di disoccupazione, stonato),
Natalie (una storia breve), Liz (innamorata di Brad Pitt) e Margaret Crawford (stanca di
lavare i piatti), John Mullen (privato per sempre della sua baguette con bacon e
insalata), Angie Best (la proprietaria dello snack bar, una donna di quarantadue anni,
divorziata con due figli e un amante venticinquenne che era sul punto di lasciare),
William Patterson (mai visto), Patrick Chissà-chi, una certa Smith e altre sei persone
senza nome. Lelenco dei nomi non serve: i nomi si dimenticano subito.
Con il nome o senza, sia che venissero ricordati o presto dimenticati, tutti comunque
fecero il solito scherzo che fanno di solito i morti, tanto chi morì allistante,
quanto chi perse la vita dopo qualche secondo o poco più. I loro corpi palpitanti e
vitali in un soffio si trasformarono in cadaveri inanimati.
A ventidue anni Angie Best, quando aveva preso la patente, aveva provato una tale
sensazione di gioia e di libertà che nessuna esperienza successiva poté eguagliarne
lintensità. Lesaminatore, un uomo di nome Murray, ricordò per tutta la vita
quello scoppio di gioia. Molti mercoledì piovosi in cui si trovò costretto a bocciare
più di un candidato lentusiasmo di Angie gli ritornò in mente.
Avevano tutti una storia. Non erano storie brevi, o non avrebbero dovuto esserlo.
Avrebbero dovuto diventare lunghi romanzi, splendide narrazioni di ottocento pagine e
più, non soltanto le vite delle vittime, ma anche quelle che si erano trovate sul loro
cammino, lintreccio di conoscenze, amicizie e relazioni intime che le legava a
coloro che amavano, che conoscevano e da cui erano conosciute, una rete di grandiosa
complessità e ricchezza.
Che cosera accaduto? Una cosa molto semplice: storia e politica erano giunte a un
vicolo cieco. Un individuo, o forse più di uno, aveva stabilito che era necessario agire
e alcune storie erano state troncate, altre abbreviate. Una bella riga nera su una pila di
fogli.
Semplice.
Le pagine che seguono risentono di tale perdita. Il testo è meno ricco, la città più
piccola.
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