Una mostra per il centenario della
nascita
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della nascita
Zavattini pittore
Zavattini collezionista
Umano, troppo umano, praticamente
scomodo
Riceviamo e pubblichiamo:
Riguardo alla pittura di Cesare Zavattini (Luzzara 1902 Roma 1989),
volendo schematizzare, tre sono le fasi critiche che ne hanno
accompagnato la ricca produzione sviluppatasi per circa mezzo
secolo: la prima, fino agli anni ’70, alquanto cauta nel collocare
sul piano strettamente pittorico il lavoro di un “poeta” che
attinge più che altro alla memoria e al riferimento storico remoto;
la successiva (quando il Luzzarese ha già tre decenni di pittura
alle spalle), che concorda più o meno nel trovarne il momento
centrale ed unificante nella vasta placenta dell’informale, con
riferimenti soprattutto a Fautrier e a Dubuffet; la terza, tuttora
in atto, tesa ad una analisi storico-critico complessiva dell’opera
del “pittore” Zavattini, il quale così - in maniera
estremamente semplice quanto suggestiva - si “autopresentava” in
un delizioso volumetto edito da Scheiwiller (Pitture di Zavattini,
1946

Cesare Zavattini
E’ il racconto dell’inizio del suo rapporto
con la pittura (come autore di dipinti, amico e “stimolatore” di
pittori, oltre che originale collezionista) che lungo tutto il resto
della sua vulcanica esperienza umana ed artistica, si intreccerà
con la sua prorompente attività di scrittore, cineasta, “comunicatore
globale”, tra i più geniali, moderni ed innovativi del Novecento.
Rapporto complesso, a tratti tormentato, che forse non gli è mai
riuscito di privilegiare come avrebbe voluto; nel luglio del 1950
così scriveva in una lettera a Massimo Campigli: “ho ripreso a
dipingere ma con troppa saltuarietà. Quando sto per rimettermi in
carreggiata e non vedo che colori, notte e giorno, ecco che il
cinema mi ritoglie dalla bella vacanza e addio. In certi momenti mi
pare proprio di essere un pittore, nei miei limitissimi. Ma allora
perché non butto tutto in aria fuorchè la tavolozza?”.
Nella ricorrenza del centenario della nascita del versatile artista
il Museo d’Arte delle Generazioni Italiane del ‘900 “G.Bargellini”
di Pieve di Cento (Bologna), in collaborazione con la Edizioni Bora,
cui si deve la realizzazione dei due cataloghi realizzati per l’occasione,
con testi di Giulio Bargellini, Giorgio Di Genova, Nicola Micieli e
Mario Verdone), presenta la mostra “Cesare Zavattini e la pittura”,
che in due ampie sezioni, dedicate rispettivamente al “pittore”
e al “collezionista”, documenta la prolifica creatività di
Zavattini insieme alla sua passione per la pittura e l’interesse
per l’opera di tanti altri artisti a lui contemporanei. A cura di
Edoardo Brandani viene pertanto esposta un’attenta scelta di circa
cinquanta opere, per lo più inedite, che tracciano un avvincente
itinerario nell’universo figurativo dell’artista, insieme ad
oltre duecentocinquanta pezzi della sua storica Collezione Minima
(nota anche come collezione 8x10, per il micro-formato che la
caratterizza), proveniente in buona parte dal Museo pievese. Tra
questi “quadretti” vi sono alcune deliziose “chicche”, di
maestri come Giacomo Manzù, Marino Marini, Ottone Rosai, Filippo De
Pisis, due vedute di Luzzara firmate da Antonio Ligabue, un
autoritratto di Linuccia Saba, un dolcissimo “Abbraccio” di Katy
Castellucci.

Milena Milani
L’arte pittorica di Zavattini è difficilmente
“catalogabile”, come dimostrano, nel corso della sua produzione,
i pur innumerevoli approcci della critica più attenta fin dalle
prime opere, che vengono accolte con riferimenti a Van Gogh, Matisse
e Chagall e considerate più nelle “intenzioni” che nei
risultati (in occasione della sua mostra allo “Zodiaco” di Roma
nel 1952, Libero De Libero scriveva che Zavattini dipingeva per
amore della pittura, sorretto da “una ragione intima e devota,
clandestina e contumace”), via via ancora lungo gli anni ’60, in
cui la pittura zavattiniana è ritenuta più che altro frutto (Marco
Valsecchi) di “incantevole ingenuità”. Come ci dice Micieli,
“della multiforme personalità creativa di Cesare Zavattini, il
versante della pittura, probabilmente, è tra i più insidiosi da
esplorare. Lo è per un intreccio di motivi che non attengono in
senso stretto alla lettura dell’opera pittorica e grafica, da
farsi con doverosa attenzione al suo statuto linguistico e formale e
nella prospettiva della sua confacente collocazione storica. Il
ragionamento sulla pittura, difatti, nel suo caso non può procedere
se non per continui rimandi allo Zavattini che tutti conoscono: l’uomo
di cinema, di libri, di giornali”.
Certo è che Zavattini è stato vero pittore, forse prima pittore e
poi tutto il resto: presentando una sua mostra nel 1975 ad Asiago,
affermava: “Ho messo in giro la voce che sono un pittore che non
sa dipingere. Ma è certo che sono un pittore”; un modo, forse,
per non prendersi troppo sul serio, ma che tradisce quello che l’artista
sente più intimamente di essere. La mostra, che dopo Pieve di Cento
(dove potrà essere visitata fino al 23 maggio) sarà trasferita in
altre sedi, vuol offrire l’occasione per un riconsiderazione
critica ed un contributo nuovo di inquadramento di un lungo e
variegato itinerario inventivo che nei decenni si è svolto nell’alveo
di un immutato atteggiamento dell’artista verso il mezzo
pittorico. Dice Verdone: “Tutta la pittura di Zavattini è la
denuncia, magari involontaria, del bambino stupito e innocente che
permane in lui. La memoria - che resta preziosa - di in mondo da cui
non si è distaccato mai”.
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