Zavattini pittore
Giorgio Di Genova
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della nascita
Zavattini pittore
Zavattini collezionista
Umano, troppo umano, praticamente
scomodo
Nonostante abbia avuto un contratto con il mitico Carlo Cardazzo
della storica Galleria del Cavallino di Venezia e siano state
realizzate in più di un’occasione sue mostre, persino
antologiche, Zavattini pittore è stato sempre ingiustamente
marginalizzato da Zavattini cineasta.
Eppure, a mio parere, la pittura di Zavattini è molto utile a
meglio comprendere l’intera sua fisionomia di uomo di cinema,
sceneggiatore, soggettista di film e perfino di fumetti, scrittore,
giornalista, conferenziere, polemista. Ho detto la sua fisionomia,
anche se più appropriato sarebbe stato scrivere la sua Weltanschauung,
termine che ho evitato perché sono sicuro che a Cesare avrebbe
fatto strabuzzare gli occhi.
Che nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, al Premio della
Galleria del Cavallino Scrittori che dipingono proprio lui,
che aveva iniziato occasionalmente a dipingere nel 1938 all’età
di 36 anni, avesse prevalso su Montale, Ungaretti, Moravia, Gatto e
Buzzati, quest’ultimo per taluni aspetti il più prossimo a Za,
vincendo il primo premio, qualcosa significa. Come anche il fatto
che Cardazzo e Barbaroux abbiano voluto accaparrarsi l’intera sua
produzione pittorica e grafica.

Cesare Zavattini
Nella pittura Zavattini scopre un piacere di forte
presa, tanto da rimanerne sconvolto, come ricorderà nel 1946, per
la scoperta e di riuscire, “sia pure puerilmente”, a ritrarre l’immagine
di una cosa e di avvertire “il troppo amore a possedere” ciò
che dipingeva, come uno sposo la propria sposa.
Si noti quel “puerilmente”, perché l’avverbio è una sorta di
osservazione autocritica, certo, ma anche una confessione. Infatti
Zavattini nella pittura ha trovato la scorciatoia per far riemergere
il tratto caratteristico del suo essere, cioè il bambino che era
rimasto a covare dentro di sé, in altri termini quella intatta sua
capacità di guardare il mondo con occhi nuovi ed al contempo avidi
di scoperte, ovvero con uno sguardo inusitato, nel senso del non
convenzionale, che appunto permette ai bambini di cogliere
connessioni, somiglianze, aspetti, retroscena che gli adulti, troppo
condizionati dalle conoscenze e dalle abitudini introiettate, non
riescono a vedere.
Fateci caso. Quante volte Cesare ha tirato in ballo i bambini nella
pittura ed anche nella sua professione! Dalla rubrica I vostri
bambini vi guardano, rivolta alle mamme, da lui avviata nel ’39
su “Grazia”, al racconto I bambini ci guardano, che poi
fu il titolo del film di De Sica uscito nel ’44, ed alle
innumerevoli volte che li cita nei suoi testi relativi alla pittura,
ora in rapporto al divertimento (“I bambini, con matite pastelli o
tubetti, si divertono ore e ore. Così i pittori”, lettera a
Francesco Messina, pubblicata su “Il Settebello”, 1938-39), ora
in rapporto alla difficoltà di disegnarli (“il cattivo
disegnatore riuscirà sempre a rappresentare un vecchio ma con
estrema difficoltà un bambino”, autopresentazione per le citate
personali del 1970).
Come un bambino Cesare non conosceva “la legge elementare della
prospettiva e del volume”, ma come un bambino si divertiva a
manipolare i colori, che erano tutto nei suoi “dipintucci”, come
ribadiva in una lettera del 28 ottobre 1945 a Cardazzo: “perché
se togli i colori alle mie cose non ci resta proprio niente”. Agli
inizi della sua attività di pittore, come ricordava nell’inverno
del ’79 in un testo su “Bolaffi Arte”, lavorava ore e ore,
perdendo la cognizione del tempo, proprio come un bambino, quando
gioca, e, proprio come un bambino, non disdegnava di stendere i
colori con le dita su un “quadrettuccio”, per ripetere una sua
definizione.
“Il bambino è il padre dell’uomo”, sostiene la psicoanalisi.
Zavattini in tutto ciò che ha fatto ne è una manifesta conferma. I
bambini amano giocare con le parole, rimescolandone le sillabe, e
con tutti gli oggetti, caricandoli di significati particolari,
osservano e poi chiedono “perché?” di ogni aspetto che hanno
osservato, s’immedesimano nei loro giochi in persone altre,
esprimono le loro aspirazioni per il futuro. Ebbene, Cesare non
faceva lo stesso quando pensava ai Giornali-Luce a rovescio?
Quando scriveva Io sono il diavolo, oppure Totò il buono,
ipotizzando un personaggio totalmente buono, ossia una sorta di
bambino adulto, ed un luogo dove “Buon giorno” voglia dire
veramente “Buon giorno”? Quando proponeva la Biblioteca degli
Italiani e mille altre sue invenzioni, giù giù fino alla Veritàààà,
sorta di testamento di questo straordinario uomo figlio del bambino
che non ha mai cessato di albergare nella sua immaginazione?
Sulle peculiarità dell’ottica da bambino dei suoi dipinti non è
nemmeno il caso di soffermarsi, per quanto esse sono evidenti nel
suo figurare. Ed anche per quanto attiene agli occhi sgranati, che
un critico ha scambiato per quelli di un uomo spaventato, sbagliando
appieno, perché gli occhi sgranati di certi autoritratti di
Zavattini coincidono proprio con quelli dei bambini molto
intelligenti, svegli, curiosi e costantemente pronti a sorprendersi
per ciò che li circonda, fino a restarne incantati.
La spontaneità di certe soluzioni zavattiniane è possibile solo se
si ha un animo da fanciullo. Per carità, un fanciullo colto e
sapiente, che, pur non essendo affatto un pittore naïf, gli
ha fatto apprezzare la pittura naïve al punto di contribuire
a far sorgere un museo di quest’arte nella natìa Luzzara. Un
fanciullo che con la sua sapienza ha alimentato la sua irrequieta
immaginazione nella scrittura, nel cinema e nella pittura. Un
fanciullo che ha posto i suoi “perché?” al Cesare adulto, il
quale gli ha risposto nei modi più diversi, ossia con racconti,
articoli su giornali, soggetti cinematografici, dipinti ed
innovative proposte e rivoluzionarie.

Filippo De Pisis
Cesare Zavattini ha compreso sin dall’inizio l’importanza
sia magica che ludica del dipingere. E finché ha potuto farlo, l’ha
fatto. O meglio s’è divertito a farlo, finché un’altra magia,
più concreta nella pratica, il cinema, non l’ha strappato alla
pittura. Non dico il cinema che si va a godere nelle sale di
proiezione e che come divertimento non sta allo stesso livello del
dipingere, come scriveva a Francesco Messina. Ma dico il cinema che
si pensa, crea e realizza. Il cinema che, come mestiere di gran
concretezza nella pratica, l’ha via via fagocitato, costringendolo
a lunghi periodi lontano dai pennelli e poi a lavorare solo di
notte. In uno come lui, che si sentiva “pieno di colori”, ciò
ha generato una sfiducia circa l’utilità della pittura, sfiducia
più volte dichiarata in scritti, nonostante in una lettera del 24
luglio 1953 a Marchiori egli avesse scritto: “Quante volte ho
pensato che avrei preferito più di tutto fare il pittore”.
Nella medesima lettera, proprio in rapporto agli obblighi
cinematografici, giunse a parlare di mente e pittura strabica “come
la mia, che ha l’occhio per il cinema, l’occhio per la pittura e
non so quanti occhi in tante direzioni”.
Eppure, nonostante tutte le carenze tecniche che egli stesso
denunciava, Zavattini ci ha consegnato una pittura umorosa, come
solo un “sapiente” della comicità poteva fare. Forse, se avesse
saputo disegnare, sarebbe diventato un vignettista. Invece è stato
un gustoso pittore narrativo, perché è indubbio che tutta la sua
pittura è pervasa da una vena narrativa, com’è logico per uno
scrittore ed un soggettista cinematografico. Egli ha saputo
realizzare sintesi di figure e di cose, fino a soluzioni che
talvolta fanno pensare a Mirò, e mi riferisco a quella
testa-tavolozza di Autoritratto da pittore del ‘75. Sintesi
anche spaziali e sintesi narrative, addirittura filmiche, del tipo
di Trittico del ’77.
Da autodidatta Cesare ha cominciato in sordina, con timidezza, non
azzardando di andare al di là di operine di piccolo formato, sorta
di micropitture, per così dire. Ma in questo affascinante esercizio
pian piano ha scoperto come si potevano meglio ottenere certe
soluzioni e immagini che vedeva intorno a sé e dentro di sé.
Perché la pittura (e ogni forma d’arte) altro non è che la
sintesi, o sovrapposizione, se si preferisce, di ciò che si vede
con gli occhi e di ciò che alberga nel profondo dell’io. In altre
parole il connubio tra vista e visione. E’ così che Cesare ha
affinato i suoi mezzi espressivi, giungendo a divenire in Funerale
di tre figure uguali (1971) per purezza e “ingenuità” più
pregnante del Carrà del 1916, e senza guardare a Giotto, oppure a
utilizzare le hautes pâtes tipiche del materismo informale
in numerosi suoi autoritratti, veri e propri rispecchiamenti in
abisso, ed addirittura a inserire elementi oggettuali, com’è in Il
mangiatore di coni gelati del ’77.

Antonio Scordia, Bambina, s.d., olio su cartone
telato,
cm. 8x10
Col tempo Za ha preso confidenza anche con gli
spazi più impegnativi ed ecco che nel 1970, da pittore incallito,
ha ben orchestrato due opere di cm. 150x200. Mi riferisco a Grande
funerale ed a Grande autoritratto. In quest’ultimo egli
sinteticamente si autoritrae a figura intera mentre con il suo
evanescente profilo senza occhi guarda una parete della sua fitta
Collezione 8x10, a cui tuttavia sostituisce i suoi microdipinti,
soprattutto gli autoritratti, quasi a voler fare una summa
del suo percorso pittorico. Ecco, un ottimo risultato di
sintesi/sovrapposizione di ciò che è fuori e dentro di sé.
Proprio per tale risultato Grande autoritratto è un’opera
fondamentale della produzione pittorica di Za. Infatti in essa egli,
ponendosi a figura intera davanti ai suoi “quadrettucci”, non
solo aggiunge un’ulteriore tessera a quel rispecchiamento in
abisso delle proprie “facce” - non quelle visive (= del viso),
ma quelle delle sue molteplici attività di praticante dell’immaginazione
e del racconto -, bensì sposta sul piano psichico la
rappresentazione, con la quale in definitiva ribadisce che in quella
frammentata identità pittorica c’è il suo io intero, e per
questo gli basta alludere col bianco, cioè in maniera neutra, al
suo profilo.
Zavattini ha in più di un’occasione dichiarato di non saper
disegnare, asserzione valida se il saper disegnare viene ricondotto
alla capacità di riprodurre illusionisticamente ciò che si vede.
Ma ciò riguarda le capacità tecniche e non quelle espressive. L’arte
non è solo tecnica, capacità che può possedere qualunque studente
di un istituto d’arte. L’arte è linguaggio che si fa stile
espressivo. E nello stile anche i difetti concorrono a determinare
espressività comunicativa. Se si pensa a quanti oggigiorno non
sanno dipingere e invece sono convinti di saperlo fare, ottenendo
anche riconoscimenti da parte di critici e successi di mercato (ogni
riferimento alla Transavanguardia, all’Anacronismo e dintorni è
voluto), potremmo asserire che Za ha saputo sfruttare positivamente
le sue carenze, in altri termini la consapevolezza dei propri limiti
tecnici è stata una dote, anzi un’arma efficace per combattere
proprio con le carenze tecniche l’incapacità semantico-espressiva
di tanti consacrati pittori.
Il suo sintetismo, spesso intriso di ottica infantile, alla stregua
di certo Dubuffet, non è affatto riconducibile al fare senza radici
dell’arte infantile. La sintesi della lingua pittorica e
disegnativa di Cesare è sempre segnaletica: di uno stato d’animo,
di un’intuizione, di una scena, di un luogo, di un’ideologia, di
una fantasia. Ed anche di se stesso, come stanno ad attestare i
numerosi autoritratti, sia quelli materici dipinti nel 1969-70, oer
i quali alcuni esegeti della sua arte hanno tirato in ballo Fautrier,
sia quelli coevi pervasi di autoironia (e penso ad Autoritratto e
sole giallo ed al più grande Autoritratto rosso, ambedue
del 1970), nell’ovale dei quali con gli occhi spinti il più
possibile in alto è condensato lo stupore ingenuo di un animo puro
ed insieme le perplessità da “poveruomo”.
Ed è proprio queste “facce” ripetute ossessivamente che, come
una bussola, ci aiutano ad orientarci tra il mare magnum dei
significati dello scrittore, del cineasta e del pensatore
rivoluzionario, contribuendo a farci meglio comprendere la natura
vera di Cesare Zavattini, che era tutt’altro che un “poveruomo”,
anzi era un uomo geniale, sotto tutti gli aspetti.
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