Umano, troppo umano, praticamente
scomodo
Edoardo Brandani
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Una mostra per il centenario
della nascita
Zavattini pittore
Zavattini collezionista
Umano, troppo umano, praticamente
scomodo
“...bisogna lottare per trasformare la realtà... per agirla,
con coraggio, con urgenza, con entusiasmo, con una nuova concezione
di solidarietà, con la lotta". Cesare Zavattini
Volenti o nolenti
Questa mostra è nata per soddisfare una mia personale esigenza
- divenuta anche esigenza di quanti hanno contribuito a realizzarla
- di dare conto dello straordinario e appassionato impegno di
Zavattini per la pittura, per la “cultura artistica” in
generale, alla cui diffusione egli si è dedicato toccando i campi
più svariati, inventando occasioni, strumenti e mezzi, numerosi e
diversi.
Realizzarla non è stata un’impresa facile, e non certo per
ragioni organizzative. Teso ad evitare la retorica
agiografico-commemorativa ed il rischio di farne un “santino”,
nel momento in cui mi è parso evidente che avrei dovuto“fare i
conti” con Cesare, e che, volenti o nolenti, tutti dobbiamo fare i
conti con lui, son stato colto dall’ansia. Perché - e vorrei
urlarlo tanto forte da poter essere sentito - volenti o nolenti,
Cesare ci costringe alla reazione: contro i luoghi comuni, le frasi
fatte, gli imperativi di regole mortificanti e ipocrite, l’asservimento
ad idee preconcette. Ci costringe a fare i conti con noi stessi: è
un pungolo, un’amata e gradita spina che, quasi quotidianamente,
ancora oggi, ci punzecchia, ci provoca, ci sollecita.
Perché, volenti o nolenti, Cesare ci fa gettare alle ortiche
quella sorta di pudore che spesso ci impedisce di parlare di valori
semplici ma solidissimi quali la solidarietà, la giustizia, l’onestà,
l’amore, la pace. Valori umani fondamentali che Cesare Zavattini
pratica, valorizza e diffonde. Perché, volenti o nolenti,
dobbiamo smentire Cesare quando scrive che “il banale non esiste”.
Troppe, infatti, sono le banalità dette e scritte su di lui, quasi
a ridurlo ad una macchietta, quasi a punirlo perché, con quel suo
atteggiamento ironico, provocatorio, con le sue veementi prese di
posizione, con il suo schierarsi apertamente, lui, lui sì,
riesce a far afferrare i suoi concetti (e valori) anche al grande
pubblico, non essendo il suo basco, il suo faccione, le sue “parolacce”,
il suo essere “ruspante” e fiducioso atteggiamenti ruffiani per
ingraziarsi le masse ma “pro-memoria” di sé, strumento di
comunicazione per dirci dell’uomo. Non essendo Zavattini né un
“buonuomo” né “buono”, come egli stesso ci avverte:
"è veramente un grande equivoco il presentarmi buono.

Ferruccio Ferrazzi, Autoritratto, s.d., encausto su
mattone, cm. 12x11,5
Il fatto che i miei personaggi sono buoni, non
fornisce nessuna spiegazione del mio carattere. Io non sono, è
vero, Al Capone ma so benone cosa è la Bontà. La Bontà è tanto
difficile che solo i miei personaggi riescono a realizzarla, io ne
sono lontano parecchi chilometri. Ciò che più mi mette a disagio
di fronte al pubblico, è di essere presentato con il giglio in
mano, quando invece so benissimo che le cose stanno in tutt'altro
modo. Se, per esempio, vedeste la mia faccia mentre leggo certe
critiche, potreste constatare che non è affatto evangelica..."
(noto però che un possibile anagramma del suo nome è senza
cattiveria!).
Parliamo un poco di me (semiparafrasando Zavattini)
Anche se la consuetudine vuole che in queste occasioni si
ripercorra la biografia del “celebrato” sottolineandone le
glorie, i meriti, le opere, mi permetto di parlare un poco di me.
Sono nato nel 1940 e in quello stesso anno, oltre all’ultima
figlia di Zavattini, Milli, nascono gli Autori Associati,
il suo primo Quadernetto di note, il soggetto
cinematografico di Totò il buono, assieme ad altre
innumerevoli creature (alcune dalla vita lunga, altre di breve
durata). Creature tutte di Zavattini, queste - a parte la Milli -
che sono entrate, assieme alle numerose precedenti e successive,
nella mia biografia, come in quella di tanti altri. E potrei
continuare, e invito i lettori a fare altrettanto, in questa specie
di gioco: ancora bimbetto, ad esempio, avrei potuto partecipare a
quel Premio della Bontà (ovvero della Notte di Natale)
ideato da Zavattini nel ‘34...; giovanotto, nel 1963, avrei potuto
assistere alla proiezione del primo e unico Cinegiornale della
Pace e, durante gli anni della contestazione, dei suoi Cinegiornali
liberi... . Per arrivare al 1974, anno in cui la mia
biografia si sovrappone alla sua (dichiarazione ardita ma
veritiera), quando, conosciutolo, gli proposi subito di organizzare
una sua mostra di pittura in collaborazione con le Cooperative
Agricole e Muratori di S. Alberto di Ravenna.
La sua riposta fu un travolgente ed entusiastico “Sì!”,
e parlando cominciò a cavar fuori dal suo meraviglioso cassetto dei
progetti, una sua personalissima idea, la sua idea per
coinvolgere tutta una comunità, partendo dalla base e dal
quotidiano, in un processo-percorso di autoconoscenza (“conoscersi
è un atto di coraggio"). Idea che, applicata a S. Alberto,
diede origine all’iniziativa “S. Alberto, un paese vuole
conoscersi” alla quale abbiamo poi lavorato insieme per
cinque indimenticabili e intensi anni. Anni in cui, come suo
editore e mercante, ho potuto produrre una cartella di sue
litografie, organizzare la sua Prima mostra antologica di
pittura e pubblicarne il catalogo.
Anni, questi, segnati da mille incontri, scambi e scontri... anni in
cui gli ambienti (piccoli piccoli) della mia casa editrice furono
invasi dai suoi mille quadretti e quadroni. In verità, al fine di
esplorare in profondità e con efficacia il suo mondo di pittore,
allora praticamente ancora sconosciuto, raccogliemmo, per sottoporle
a Franco Solmi, curatore della sua prima antologica, fotografarle e
schedarle, oltre 1.500 (millecinquecento) opere sparse in tutta
Italia (“...almeno quattro quinti della mia produzione, che si
aggira sulle duemilacinquecento cose - scrive Cesare nel 1976 - l’ho
regalata a amici, a nemici e perfino a sconosciuti, dimenticando che
specie in Italia si crede che si possa far dono solo di quello che
non si apprezza...”). Fu, questa, un’impresa titanica ma piena
di scoperte, di gioia e di entusiasmo. E di mostre, tante mostre in
tutta Italia e anche a Madrid e a Barcellona (con testo in catalano
nel catalogo).
Da collezione nasce collezione... o del collezionista anomalo
“Uno dei principali tratti del ‘vero’ collezionista è la
grande discrezione, quell'aspetto un po’ segreto di chi la sa
lunga e poco dice: fra i più appassionati collezionisti, molti
conservano gelosamente nascosta la loro collezione, altri vi si
nascondono dietro. Il collezionista distribuisce con estrema
pacatezza il privilegio di ammirare la propria collezione, ancor
meno quello di toccarne gli oggetti.”. Così, sulla rivista “Collezionare”,
Luca Morelli ha descritto sinteticamente la figura del collezionista.
Va da sé che Cesare non rientra in questa categoria ed è da
considerarsi un collezionista anomalo. Tanto anomalo da
divenire anche generatore di collezioni. Si prenda come
esempio la sua (ché tale rimarrà sempre) Collezione
8x10: ricevuto in dono da Raffaele Carrieri il
bozzetto della ricamatrice di Campigli (era il 1941), Cesare si fa
prendere la mano: “... pensai - scrive a Ragghianti nel 1959 - che
sarei stato contento se avessi potuto mettere un bel quadretto sulla
parete. Quattro. E perché non due per parete? mi soffiò nell’orecchio
il diavolo. Insomma, scrissi una trentina di lettere, perciò andai
a letto all’alba; e di albe ne ho viste più di una, per la
verità, in omaggio ai pittori...”. La storia, è nota, e qui non
la ripropongo. Ma ciò che desidero sottolineare è che già nel
1959 Cesare manifesta la sua vera anima di collezionista anomalo e
generatore; “...avviene infatti - scrive ancora nella lettera a
Ragghianti - che a un certo punto la mania del collezionista
indebolisce ogni altro sentimento, e ci si affanna, se ne vorrebbe
un altro, un altro ancora, e solo quelli che mancano pare
grandeggino. Non ho pertanto nessuna tenerezza verso i collezionisti
ché dell’avaro c’è nei loro traffici. Confischerei tutte le
collezioni, compresa forse la mia, e riempirei le strade di quadri
santamente e robustamente incastrati nei muri. Può darsi che lei
conosca queste mie utopie, infatti ogni tanto le ripeto qua e là,
sono amati residui di quando supponevo che la rivoluzione in Italia
sarebbe scoppiata per merito delle arti plastiche. Passavo allora
buona parte delle mie giornate in via Margutta e sollecitavo più
persone che potevo a comperare tele, come facessi un comizio”.
Oratore irresistibile, qual è, i suoi comizi sortiscono qualche
effetto ed il suo apostolato fa proseliti e avviene così che riesce
a trasformare il produttore cinematografico Ferruccio Caramelli in
un collezionista d’arte unico nel suo genere convincendolo ad
avviare quella che sarebbe poi divenuta la Collezione Roma,
per la costituzione della quale nel 1946 Cesare sceglie e invita 51
artisti, alcuni già famosi (tra cui de Chirico, Savinio, Severini,
de Pisis, Mafai e Guttuso), altri allora meno noti al grosso
pubblico (Afro, Monachesi, Pirandello, Vespignani, Turcato) e
commissiona a ciascuno un’opera a tema unico (Roma), in formato
unico (cm. 26x20), a prezzo unico (8.000 lire). A queste 51 opere si
aggiungono le tre vincitrici (di Ciarrocchi, Stradone e Bartoli) del
Premio Roma 1948, altra invenzione di Cesare,
naturalmente. Dal 1983 la Collezione Roma è uno dei
fiori all’occhiello della Banca Nazionale del Lavoro che,
acquistandola, ne ha impedito la dispersione. E non solo, ma sulla
scorta delle propulsioni di Zavattini, nel 2000 ha rinnovato l’avventura
zavattiniana promuovendo un’analoga iniziativa. stesso tema
(Roma), stesso formato (cm. 26x20)... circa il prezzo, non so.
Sempre a Roma, e in quegli stessi anni (1946-47), l’istigatore a
collezionare Cesare Zavattini inventa per Vittorio De Sica la
collezione I Miti del dopoguerra, costituita da una
cinquantina di opere, tutte nel formato di cm. 34x30, realizzate dai
maggiori artisti residenti nella capitale (alcuni già coartati per
la Collezione Roma), chiamati a dipingere una loro
testimonianza, un fatto di cronaca, un episodio vissuto da ciascuno
in quegli anni, ancora troppo vicini alla guerra ma già aperti a
più felici speranze.
Ma tra una “cartolina” di Roma ed una narrazione corale degli
anni del dopoguerra, Cesare, ammiratore e vicino di casa di Isa
Miranda (pochi piani di scale separavano le loro abitazioni),
inventa un’altra raccolta, la Collezione Isa Miranda:
“Nel 1945 vidi molti amici pittori salire le scale della Miranda
[Isa], e lei teneva il diario d’ogni incontro, credo che nessuno
al mondo abbia preso sul serio i pittori più di Isa Miranda. [...]
Ora i quaranta ritratti di Isa Miranda sono qui - scrive Zavattini
negli anni Cinquanta nella presentazione della mostra dei ritratti
dell’attrice tenutasi a Firenze - esposti per la prima volta al
pubblico. Diventeranno cinquanta, sessanta. Non sono neanche da
considerarsi l’omaggio degli artisti migliori a una grande attrice
del cinema, o storie del genere, ma un dialogo tra una brava donna e
degli uomini che l’aiutano a sapere qualche cosa della sua natura
mortale”.
Di collezione in collezione, altri tre esempi, diversi tra loro e
dai precedenti: il Premio Suzzara ed il Premio Nazionale
dei naïfs di Luzzara, la Collezione 8x10 del
Museo delle Generazioni italiane del ‘900 “G. Bargellini” di
Pieve di Cento.
Il Premio Suzzara nasce nel 1948 dalla volontà di
Tebe Mignoni, allora sindaco di Suzzara, e di Dino Villani (bell’esemplare,
anch’egli, di “agitatore culturale” con cui Cesare nel 1934
crea il Premio della Bontà (ovvero della Notte di Natale),
allora sostenuto economicamente da Angelo Motta e ancora “attivo”
nel 1997) e viene delineato nei suoi caratteri da Zavattini. Da
queste forze unite scaturisce una rassegna la cui connotazione, sin
dal titolo Lavoro e Lavoratori nell’Arte, è palesemente
zavattiniana, essendo impostata sullo “scambio tra i prodotti
della terra e del lavoro con quelli dell'arte e dell'ingegno”.
Nella giuria, critici, giornalisti, intellettuali, un contadino, un
operaio e un impiegato. La creatura della triade
Mignoni-Villani-Zavattini è ancor oggi viva e vivace e le varie sue
edizioni hanno permesso la costituzione di una collezione che oggi
conta oltre 600 opere che documentano i vari passaggi dell’arte
italiana dal 1948 ad oggi.
Il Premio Nazionale dei naïfs di Luzzara,
Cesare lo inventa nel 1967, e con esso istituzionalizza, se si può
dire, la sua passione per la cultura naïve, in particolare
della Padanìa (non diceva Padània, lui!), la sua volontà di
promuoverla, esportarla, di liberarla da una etichetta che la
costringe ad essere considerata espressione minore e pittoresca.
Tanto che, nel 1973, viene dato alle stampe il “Catalogo Bolaffi
dei naïfs italiani” con testi di Antonio Amaduzzi e foto
di Gianni Berengo Gardin, che Cesare arricchisce, su invito, con una
prefazione e 63 “esclamazioni”. Nel corso degli anni il Premio
inventato da Zavattini ha continuato a vivere e vive ancora oggi.
Della Collezione 8x10 non sto a riparlare, qui,
in dettaglio, rimandando il lettore al testo di Giorgio Di Genova
presente in questo stesso catalogo e, naturalmente, all’edizione
curata da Ezio Gribaudo per la Fratelli Pozzo. Qui voglio solo
sottolineare che la parte della collezione di Cesare che abbiamo
potuto recuperare e raccogliere per le Collezioni Permanenti del Museo
d’arte delle Generazioni italiane del ‘900 “G. Bargellini”
è diventata un’altra collezione e che questa diventerà altro
ancora, avendo lanciato l’idea - in occasione della 3^ Giornata
dell’Artista - di “riaprirla”, di farla rivivere, e
pertanto di continuare noi, per Cesare, e in omaggio agli artisti, a
“vedere tante nuove albe”.
Sulla “lotteria nazionale dell’arte”
Il 1947 non è solo l’anno dell’Oscar al film Sciuscià,
ma è anche l’anno in cui Cesare, in una conversazione alla
radio, propone la Lotteria Nazionale dell’Arte, i
cui premi dovevano essere “opere di pittori e scultori giudicati
stimabili da una giuria di critici stimabilissimi. Centinaia di
quadri e di statue - scrive nel 1967 a chiusura del volume-catalogo
dedicato alla Collezione 8x10 curato da Gribaudo - sarebbero
così entrati ogni anno in nuovi ambienti italiani, e oggi correggo:
migliaia, diecimila ogni anno. Perché non ventimila? Calmiamoci.
Condizione dell’impresa doveva essere la vendita dei biglietti a
un prezzo accessibile a tutti, operai, scolari, pensionati, avari...
Ricordo che invocavo l’aiuto dei ministri, ci aiutassero a
smaltire sacchi di biglietti nelle scuole, nelle officine, nelle
campagne. Sui biglietti, stampati a colori, le facce degli artisti e
le opere, quelle che avrebbero finito per entrare in un trullo delle
Puglie o in una caserma del Piemonte o in un’azienda di Milano,
dove la sorte avesse voluto, magari in un postribolo, perché
dovunque fosse, era il principio di un nuovo dialogo. Era ed è
retorica?”.
La proposta di Cesare colpisce personaggi stimabilissimi (e
multicolori) della politica italiana (De Nicola, Orlando, Parri,
Nenni, Togliatti, De Gasperi, Saragat...) e gli artisti, capeggiati
da Giorgio de Chirico si mostrano “pronti a qualsiasi sacrificio
pur di cominciare questo traffico diretto con un paese che stava
trasformando i suoi usi e costumi dalla radice”. Ironia,
scetticismo, ostracismo, collaborazione, disponibilità da parte di
tanti... mobilitazione di poeti, scrittori, navigatori...
invocazioni ai santi... L’”Italia Letteraria” di Angioletti si
assume l’onere dell’organizzazione. Discussioni, scontri,
confronti, progetti, controprogetti. Idee-matrioska : “...
si parlava di opuscoli, di manifesti, di una storia dell’Italia
come storia di linee e di volumi identificabili nei fatti... di
ricostruire giornate di questo o di quel grande, l’ultima giornata
di Van Gogh, o una giornata di Morandi a Bologna, di De Pisis a
Ferrara..., che era un modo in più di conoscere le città e noi
stessi, l’italiano conosce poco la propria arte perché riflette
poco sui propri luoghi e sulla propria vita... “.
Ormai era fatta! “Ero felice, e come Garibaldi - scrive ancora
Cesare - lasciai tutto in mano agli altri e mi ributtai a capo fitto
nel cinema. Si mosse l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, si
mise in bilancio 7.000.000 di lire, vere, le quali nel bilancio
restarono fino a pochi anni fa sempre in attesa che la lotteria
nazionale dell’arte succedesse... Era fatta”. Era fatta? No,
Cesare stesso avverte che l’idea era stata travolta dalla crisi
economica. Dopo il boom... lo sboom (by C.Z.). Nel
1959 pensa alla TV e si rivolge a Sergio Pugliese, parlandogli della
Lotteria Nazionale dell’Arte. Assicurazioni di Pugliese: “la
faremo”.
Dopo due anni di riflessioni nel 1961 Cesare gli fa un pro-memoria.
E Pugliese? Pugliese “mi obiettò che gli era stato obiettato non
essere facile superare le difficoltà burocratiche per il lancio di
una lotteria in più”. Nel 1966 Cesare va da Giorgio Bassani: “Entrai
nel tempio di via del Babuino col cappello in mano. Ci poteva essere
uno più destinato di lui per varare la L.N.A.? Scrivimi, disse.
Scrissi. Bassani aveva i suoi pensieri, com’è noto, non l’ho
più rivisto da quel giorno”. Passano gli anni, cambiano i vertici
RAI e nel ’67 Cesare (sempre lui!) va da Granzotto. “C’erano
dei buoni quadri sulle pareti del suo studio! Ci siamo, pensai. In
un quarto d’ora gli raccontai il curriculum del sogno. M’interruppe:
non sedurmi col tuo tradizionale entusiasmo, disse. La cosa è
importante, ma proprio per questo sarebbe incauta una qualsiasi
immediata risposta. Risposi: d’accordo. ... Aspetto con fede,
anche se qualche sciocco sosterrà che il pubblico vuole altro oggi.

Luciano Ligabue
Una storia dell’arte sul video, tra l’altro,
può creare una suspense più di un giallo, e il grande giuoco dei
premi che non sono soltanto venali, ma anime, persone, non potrà
che intensificare le rifrazioni. E se poi anche Granzotto con gli
altri capi diranno no, non sarà difficile che nel 1987 - conclude
Cesare nel suo testo del 1967 - sarò visto sulla carrozzella degli
invalidi davanti al grattacielo di cento piani della TV da cui
uscieri mi allontaneranno mentre balbetterò delle smozzicate
parole: lott, naz, art”. E il P.S. posto a sigillo di questo testo
(sfogo?) che recita “Mi è parso opportuno chiudere questo libro
di un collezionista con una proposta che tende a stanare il
collezionista, a contestarne un primato che con le sue potenti
seduzioni riesce talvolta a determinare l’iter creativo del suo
fornitore, l’artista” è un capolavoro di quella sintesi di cui
Cesare è maestro.
Non so se Cesare ha poi continuato le sue visite ai vertici della
RAI-TV, ma mi piace pensare di sì. E mi piace pensare, anche, che
una sera, un sabato sera e in prima serata, potrò finalmente
ascoltare in TV, dalla voce di una stimabilissima persona l’annuncio
della prima puntata, di tante, della Lotteria Nazionale dell’Arte,
o L.N.A. per chi va di fretta.
Mille parole per gli altri, e due primati, di Cesare, anche
“Gli altri” è il titolo di una raccolta di interventi di
Zavattini: prefazioni, articoli, discorsi, conferenze, appunti, che
Pier Luigi Raffaelli ha raccolto e pubblicato nel 1986 per Bompiani.
Vari i temi, i tempi, i personaggi, da Isa Miranda a Che Guevara, da
Pinocchio alla storia del panettone, passando per Cuba e Luzzara.
Tra questi interventi numerosi sono (e non sono tutti) quelli
dedicati ad artisti, noti e meno noti, a cui Cesare si è dato con
grande generosità. Non posso qui elencare in dettaglio nomi, date e
sedi. Basti un accenno, si badi ai nomi e si avrà una traccia per
una storia dell’arte italiana vista da Zavattini, e alcune tracce
del suo essere Zavattini, di dir per sintesi una cosa e suscitare
altre dieci suggestioni, memorie, idee. Nella “lettera” a
Sebastiano Carta, per esempio, si trova la sua vocazione a “collezionare”
e collezionando sostenere l’artista.
Per de Pisis manifesta un gradimento quasi erotico: “non ho
vergogna di ripetere che mi si muove la lingua, le mani, tutto
davanti a uno qualsiasi dei suoi quadri come fossi una tastiera
percorsa da un colpo di vento”. Per sostenere Saul Steinberg
polemizza con Goethe (leggere per credere). Ad Assen Peikov,
scultore bulgaro è grato per i ritratti degli amici Bruno Barilli,
Savinio, Bontempelli... e si commuove. Si immagina poi di correre
lungo una via semibuia con Atanasio Soldati e un uovo, e vorrebbe
entrare nelle “sobrie stanze” di Antonio Calderara. Da Ligabue,
Rovesti, Ghizzardi e Covili, che “rompono il fronte ‘angelico’
dei naïfs”, passa alle visioni ed alle corride del sud di Carlo
Caroli. Per Valeriano Trubbiani scrive la poesia-presentazione Il
fruscio di un topo e di Mario Mafai ricorda la sua scontentezza
(di Mafai) verso la pittura, negli anni Quaranta e l’impressione
da lui (Cesare) subita vedendo i drammatici “quadri con le corde”.
E dalle corde di Mafai passa ai “punti” dalle 14.000 gradazioni
di colore di Niki Berlinguer, “l’it acense”. Si dichiara
appassionato del vicino di casa, quel “genio reggiolese” di
Carlo Santachiara, che accomuna al mitico per lui Giuseppe Novello,
e gentilmente omaggia Bompiani (sì, l’editore, il suo editore) in
veste di pittore povero (d’arte povera, s’intende). E per Sergio
Vacchi (che presenta a S. Alberto) cita Conrad, scrittore di viaggi
e di passaggi, e nei suoi viaggi e passaggi Cesare scorribanda dai naïfs
jugoslavi all’arte negra, ed infine al fumetto, parlando di quelle
che lui definisce “le grandi firme del fumetto italiano” ma
tralasciando di aggiungervi anche la sua, lui, padre di Rebo,
despota di Saturno, ovvero del primo importante protagonista del
fumetto di fantascienza italiano (era il 1937).
E se anche qui non c’entra, Rebo mi porta ad un altro “primato”,
fra i tanti, di Cesare, il Non-libro più disco (era il
1970), che potremmo definire il primo “pacchetto
multimediale” in assoluto, con cui ha unito mezzi e tecniche sino
ad allora costretti a vivere vite separate. Geniale. Ma siamo tutti
geni - dice Cesare - anzi, tutti sono geni (come tutti sono
pittori); e allora, perché non dirlo di lui?!
Ma questa è un’altra storia...
Dei “primati” di Cesare, dicevo. Ma questa è un’altra
storia e la matrioska-Zavattini ci costringerebbe a
ricominciare, con parole, mezzi e tecniche diversi. Perché Cesare,
come uno dei patriarchi prediluviani della Genesi, ha generato 1,
10, 100, 1000... vite, parole, immagini, sogni, speranze, anche
utopie (“sogno, quindi sono libero” sono certo che lo ha detto).
Cesare il patriarca ha generato innumerevoli idee, e da queste ne
son venute altre che ne hanno ispirate altre; che sono rimaste sue,
che sono diventate di altri e da altri seguite, coltivate, curate e
cresciute. Ma anche trascurate, quando non soppresse. Ed è per
queste ultime, per le idee trascurate e soppresse, che sento la
necessità, è quasi ansia, di continuare a far sì che il suo
testimone venga raccolto, con coraggio, con urgenza, con
entusiasmo, per la lotta. Chi pensa che gli ideali eterni
di giustizia, rigore, moralità, bellezza siano ideali sì umani, ma
troppo umani, ascolti Cesare Zavattini. Il set del suo film La
veritàaaa, a cui è affidato il messaggio morale e poetico di
tutta una vita, è ancora aperto.
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