Zavattini collezionista
Giorgio Di Genova
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Zavattini collezionista
Umano, troppo umano, praticamente
scomodo
La cronaca ci informa che l’idea di collezionare dipinti di cm.
8x10 venne a Zavattini nel 1941, allorché ricevette da Raffaele
Carrieri il bozzetto di un dipinto di Campigli di quella misura.
Certamente quel dono costituì la “prima pietra” della
costruzione della Collezione Minima. Tuttavia un significato, almeno
apotropaico, dové averlo il fatto che l’operina era di Campigli,
ex giornalista affermatosi come pittore, il quale aveva contribuito
a far riconoscere un suo valore alla pittura di Zavattini, ma non
solo. Infatti Cesare per certi versi guardava a Campigli come
modello, portandolo a chiamarlo indirettamente in causa in una
lettera scritta nel ’45 a Cardazzo per convincere il gallerista a
rimandare di un anno la sua mostra: “Non credi che a noi stessi
converrebbe aspettare ancora un anno, mettere insieme le cose buone
che farò nel ’46 e che io credo saranno migliori delle
precedenti? Campigli ha trovato la sua strada dopo nove anni. Io che
sono molto, molto meno di lui e che tra l’altro non so disegnare e
non imparerò mai la legge elementare della prospettiva e del
volume, posso impiegarci anche di più”.

Cesare Zavattini
In quella stessa lettera Zavattini già dichiarava
il suo amore per il piccolo formato, ancorché riferito al “libretto”
da pubblicare in occasione della sua personale, suggerendo che esso
fosse di 10x12 o 12x14 cm. Quindi il dono di Carrieri, oltre che
apotropaico, fu addirittura maieutico, nel senso che contribuì a
convogliare nella pittura la radicata attrazione di Zavattini per il
microformato, che, tra l’altro, egli già praticava in proprio con
i suoi “dipintucci” e “quadrettucci” e, credo, anche nelle
sue pubblicazioni.
Tuttavia la questione, a mio avviso, è ancora più complessa e s’interseca
con l’attività di Za nel cinema, con i cui fotogrammi i dipinti
8x10 hanno sotterranee, ma stringenti, relazioni. Ed è ciò che
appunto un pittore cineasta quale Peter Greenaway ha ben chiaro
nella mente, al punto da sottolinearlo a proposito del suo film Prospero’s
books, allorché per giustificare il ricorso alle “immagini
sovrapposte” considerate da lui “veri e propri specchi del tempo
dove le figure, evocate dalle parole, cambiano continuamente e dove
gli oggetti, i fatti e gli eventi, costantemente si compongono e
ricompongono”, sottolinea che l’immagine filmica è “un’illusione,
costantemente misurata in un rettangolo”, appunto “in un
frammento d’immagine, un frammento di film”. Che Greenaway si
riferisca al fotogramma e da pittore veda il film come una sequenza
e giustapposizione di fotogrammi è evidente.

Giacomo Manzu'
Ebbene, proprio sulla scorta di tale indicazione,
non mi pare azzardato sostenere che per Zavattini i dipinti 8x10
costituivano un omologo del fotogramma filmico, il che c’indurrebbe
a parlare della Collezione Minima come di una sorta di cinema
pittorico. In altri termini un film di quadretti accostati, con un
montaggio tutto personale sulla parete di casa, secondo la regìa di
Cesare, che era nel contempo il produttore e il responsabile del
cast, dato che sua era la scelta degli artisti a cui ordinare gli
8x10.
Pertanto potremmo dire che la microcollezione degli 8x10 è figlia
sia della pittura che della Weltanschauung cinematografica di
Zavattini, dove la madre sarebbe appunto la propria pittura ed il
padre il cinema. Insomma c’è una stringente relazione tra
Zavattini collezionista e Zavattini pittore e Zavattini uomo di
cinema.
Questo vale sul piano ideale e psicologico. Sul piano pratico,
invece, ben altri stimoli hanno contribuito alla costruzione di
questa straordinaria e innovativa collezione di dipinti 8x10:
principalmente quello di una passione per l’arte e quello di una
proposta volta al sociale, che hanno finito con l’intrecciarsi.
Infatti Zavattini ha in più di un’occasione asserito che il
piccolo formato avrebbe permesso ad un maggior numero di persone di
acquisire, per il loro basso costo, dipinti di artisti, anche
quotati, facendo sì che si giungesse ad avere opere uniche ad un
prezzo vicino a quello delle opere calcografiche, che uniche non
sono e che spesso, col trucco delle “prove d’artista”, dei
numeri romani et similia, sono messe in commercio in
quantità superiore a quella dichiarata.
Del resto tale soluzione soddisfaceva la mania e la smania del
collezionista Zavattini, che infatti dal 1941 in circa quattro
decenni ha potuto mettere assieme, con una cifra non esagerata,
quando l’opera non arrivava in dono (e, si sa, è più facile
avere in dono un quadro piccolo che uno di grande formato), oltre
duemila pezzi del formato oscillante attorno ai cm. 8x10, traguardo
economicamente impensabile se le opere fossero state di medio o
grande formato. E per di più un amante della pittura e dei pittori
come Za, penalizzato dalla carenza di spazio delle moderne
abitazioni, avrebbe dovuto rinunciare a godersi l’intera
collezione, ricorrendo a relegare in depositi e magari nel caveau
di una banca parte delle opere raccolte. E questo non era nel
carattere di Cesare, che aveva un rapporto particolare con i suoi
“dipintucci”, dai quali si sentiva protetto, come palesemente
attesta la copertina del citato volume La raccolta 8 per 10 di
Cesare Zavattini, dove il nostro s’è fatto fotografare
disteso su un mobile come fosse un triclinio proprio sotto la parete
costellata dalla miriade dei suoi 8x10.
Certo in questa posizione c’è la conferma del vitale e fertile humour
di Cesare. Tuttavia l’adagiarsi ai piedi della sua microcollezione
un suo significato l’ha. Anzi, più di uno, tra cui un posto
centrale va assegnato all’amore che Zavattini aveva per la pittura
e per i pittori, suoi compagni di vita, ma anche in spirito, con cui
intendeva mantenere un costante colloquio. E non a caso a tutti loro
o quasi aveva chiesto un autoritratto, che era una sofisticata
richiesta di compagnia in corpore picturae.

Katy Castellucci, Abbraccio, s.d., olio su cartone
telato, cm. 9,5x13,5
Questa miriade di autoritratti degli amici, dei
compagni di strada e dei “fratelli” in pittura costituiva una
sorta di “Galleria privata” dei pittori del ‘900, sorta di
specchio delle brame di Zavattini. E non a caso tra gli autoritratti
non mancano quelli realizzati da scrittori, con i quali Cesare
doveva sentirsi maggiormente imparentato. Ma, si sa, l’appetito
vien mangiando. Ed ecco, allora, che la mania collezionistica s’è
accresciuta fino a portare col tempo Cesare a voler arricchire la
sua raccolta con lavori da collezionista, cioè con soggetti tipici
dell’arte di ciascun autore, così che la “Galleria privata”
dei pittori del ‘900, nonostante le presenze straniere, talune di
grosso calibro (da Magritte, Lam, Siqueiros, Survage a Ubac, Pepper,
Arroyo), ha finito per connotarsi come panorama della pittura del
‘900. Un panorama nient’affatto di “piccolo” valore,
perché, come sottolineavo nel mio pensiero scritto nel 1966 per il
citato volume dei Fratelli Pozzo: “L’opera d’arte non ha
dimensioni standard. Dalle piccole miniature del ‘Breviario
Grimani’ all’immenso ‘Giudizio Universale’ di Michelangelo
ogni formato è valido. In arte il piccolo ha gli stessi diritti del
grande, anzi non raramente il piccolo è in realtà ‘grande’.
Infatti un capolavoro di piccolo formato non vale meno di un
capolavoro di grande formato, piuttosto molto spesso il primo s’impone
per spontaneità, brio, spigliatezza che solo raramente si riesce a
mantener integri nelle opere di maggior dimensioni”.
Del resto la Collezione Minima, oltre a quelle degli artisti
stranieri citati, era costellata da presenze di artisti italiani
già storicamente consacrati, da de Pisis, Ferruccio Ferrazzi,
Marasco, Rosai, Manzù, Marino Marini, Mannucci, Montanarini,
Mucchi, Adriana Pincherle a Borgonzoni, Cannilla, Michelangelo
Conte, Delle Site, Fazzini, Mazzullo, Vangelli, Accatino, Banchieri,
Bertini, Cuniberti, Di Salvatore, Fasce, Garelli, Raspi, Somaini,
Sterpini, oltreché agli allora giovani nati negli anni Trenta,
parecchi dei quali oggi sono anch’essi consacrati, e mi riferisco
a Getulio Alviani, Aricò, Buggiani, Fabro, Giosetta Fioroni,
Gastini, Laura Grisi, Guarneri, Gino Guida, Lombardo, Luporini,
Mambor, Margonari, Umberto Mariani, Martinelli, Livio Marzot, Notari,
Concetto Pozzati, Recalcati, Ruffi, Steffanoni, Lucia Sterlocchi ed
agli scomparsi Bellandi, Cintoli, Innocente, Pompa, Quattrucci,
Saroni, Schirolli.
Ovviamente non potevano mancare i pittori naïfs, e tra i
Rovesti ed i Ghizzardi ovviamente anche il grande Ligabue. Così
come non mancano le chicche. Tra esse la più significativa è il
disegno di Gino Rossi, che forse Zavattini s’è procurato negli
anni Quaranta a Venezia, quando il pittore veneziano, amico di
Arturo Martini, era da tempo ricoverato in manicomio. Ma altre
chicche sono senza ombra di dubbio l’Autoritratto di
Melotti, e molto più di quello del Segretario del Sindacato
Fascista Belle Arti del Lazio, Orazio Amato, nonché gli “incunaboli”
figurativi di Angelo Savelli e Scordia, a cui s’aggiunge quello
pittorico (vera rarità, perché oggi suoi dipinti non si trovano
più) dello scultore Marcello Guasti, per non dire della prova
surrealista del piemontese Enrico Allimandi, dei due Autoritratti,
uno di fronte ed uno di spalle, di Mino Guerrini, artista di Forma
1, a cui fa da contraltare quello in versione Astrattismo Classico
di Monnini. E se non va trascurata la presenza dell’arte ludica
del napoletano Enrico Bugli, il quale nelle sue Scatole
assembra palline da albero di Natale, altrettanto va fatto nei
confronti degli 8x10 di quegli artisti che aspettano una doverosa
rivalutazione, come Raffaele Castello, o Pino Ponti, che nel 1927
con il dipinto Il fulmine nella Centrale Elettrica alluse
alla devastante folgore del Fascismo abbattutasi nel mondo del
lavoro.
Anche se in parziale parata, la Collezione Minima di Cesare
Zavattini permette stimolanti percorsi in quel complicato e
movimentato labirinto della pittura italiana del ‘900, a ulteriore
conferma della spregiudicata acutezza ispettiva e della grande ed
accogliente apertura di un uomo che ha saputo coniugare l’amore
per il cinema con l’amore, sia soggettivo che oggettivo, per la
pittura, facendone assieme alla scrittura i pilastri di un’esistenza
che è per molti aspetti una lezione per tutti noi.
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