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Con Poussin



Marisa Volpi



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Con Poussin


Quello che segue è il testo dell'intervento che Gioia Mori ha tenuto durante la Giornata di studi su Cezanne, svoltasi il 19 aprile presso il Complesso del Vittoriano a Roma, sede della mostra "Paul Cezanne, il padre dei moderni" .

Guardando l’opera di Cézanne, alla grande mostra del Grand Palais, nell’autunno del 1995, si era di nuovo colpiti dal salto stilistico tra le opere degli anni Sessanta fino al 1873, a “Une moderne Olympia”. “La casa dell’impiccato” del ’73 segna grosso modo l’inizio di una nuova fase di cui alla mostra romana si vedono ad esempio “Le Bagnanti” del ’75-‘76 del Metropolitan. Durante questo decennio è Pissarro che illumina per Cézanne un nuovo modo di lavorare, che già trasfigura l’immagine, secondo i ritmi compositivi del pittore più vecchio di nove anni: luce e ombra tagliate nette, paesaggi ad orizzonte lungo, a Pontoise, ad Auvers-sur-Oise, a Melun. Lavoro sul motivo, immersione nella natura, plein air. Anche se si suole giustamente considerare impressionista questo periodo, in verità comincia già allora quel lavoro di trasfigurazione monumentale della sensazione ottica che non smetterà più lungo i trentatrè anni futuri, fino alla morte.

Alla mostra romana qui accanto il momento veramente impressionante è quello che ci separa da “I ladri e l’asino”, 1870, e dalle altre composizioni che per comodità chiameremo barocche, quando arriviamo a “Il viale” del museo di Göteborgs Museum, in cui le tache diagonali degli alberi fanno un volume architettonico e sembrano riprodurre i movimenti di un’orchestra d’archi.

Quel primo sgarbato periodo parodistico e sensuale, o come cita Maria Teresa Benedetti di materia couillarde - allusione grossolana ad una virilità ostentata - viene messo in rapporto da Theodore Reff e da Gioia Mori con brani di letture “orientaliste”: il Flaubert di “Salambò” e di “Le tentazioni di Sant’Antonio”, ma c’entrano certamente anche Daumier, Courbet, oltre a Manet all’orientalismo di Delacroix, a tutto quel noir e quell’esotismo che trabocca nel primo Ottocento e che domina come realismo romanticizzato anche nei romanzi dell’amico di Cézanne, Emile Zola. Una letterarietà che attira ed esprime una grande sensualità e una passione giovanile del rischio.

La vanità fantastica dell’esotico, la violenza delle lotte degli animali di Barye, di Delacroix, il giornalismo da cronaca nera di Géricault, tutto è segno di una fuga dalla realtà, anche la teatralità melodrammatica dei soggetti storici esposti ai Salon. Esplode già negli anni ‘20-’30 l’attrazione per ciò che è selvaggio e lontano, come prigionia di un pensiero di cui si toccano i confini e da cui si vorrebbe fuggire.

Ne sono colpiti più o meno consapevolmente anche gli impressionisti, in particolare Degas, che trasfigura le frequentazioni del bordello nelle stupende e gelide composizioni dei balletti dell’Opera, mentre confina il suo cattivo gusto romantico nelle frequentazioni dell’opera lirica da Meyerber a Verdi (37 volte va ad ascoltare il Sigurd, 15 il Rigoletto, 12 La favorita ecc.). E’ come se Cézanne non rifiutasse di dipingere quei soggetti scabrosi, ispirandosi ai veneti: “La Maddalena”, “Il rapimento”, “Il bagnante alla roccia”, “L’orgia o banchetto di Nabucodonosor” in due versioni, “Il delitto”, “La donna strangolata”, “L’idillio”, una specie di Arcadia o Venusberge, “La pendola nera”, ecc.

Per quel che riguarda “L’idillio” o “Pastorale”, quadro ispirato come altri dalla “Colazione sull’erba” di Manet, sia per il modo come è dipinto sia per l’altro titolo “Don Chisciotte sulle rive di Barbaria” è interessante leggervi una nota violentemente ironica che mi fa venire in mente le recenti lezioni di Oxford fatte da Calasso. Per la cosiddetta rinascita degli dèi dell’Ottocento, egli scrive come essi si riaffaccino nel XIX secolo nel romanzo nero e nel vaudeville. Non c’è dubbio che Cézanne sia in questo quadro, sia in altri, e anche nell’interessante appunto esposto in questa mostra romana per “L’Apoteosi di Delacroix”, usi, nei confronti di questa cultura da lui esibita, un atteggiamento parodistico. Si esibisce - si esibirà fino all’ultimo - nel tema del nudo, ma per ora la passionalità e il coinvolgimento sono rintuzzati da una presa in giro del tema.

Allora, in che senso Poussin e Cézanne?

Quando Cézanne decide di affrontare se stesso pittore incontra un grande maestro: Pissarro, e con lui si immerge nella natura e nella pittura impressionista. Con Pissarro scopre la sua vocazione di paesaggista in primis, ma anche di ritrattista e di pittore della natura morta. Finalmente approda nell’arte a quella modernità fino ad allora esemplificata per lui dal successo del giovane scrittore realista Zola.
Sappiamo tuttavia che l’impressionismo in qualche modo lo lascia subito perplesso. Non voglio soffermarmi sui racconti che riguardano le puntate del timido provenzale nella Parigi del Caffè Guerbois. Il suo disagio psicologico, la sua grande ambizione lo mettono subito in una posizione perplessa e problematica di fronte a quegli amici che pure ammira: Monet, Renoir. E’ a questo punto che l’energia fisica e intellettuale di Paul Cézanne si rivela in contrasto con l’attitudine artisticamente felice ed estremistica degli impressionisti, suoi amici e la sua attività creativa di isolato sembra modificare definitivamente l’impressionismo, pur senza tradirlo, al punto di siglare con i suoi quadri quel nuovo modo di dipingere, incapsulandone l’immediatezza in una astrazione antica.

“Rifare Poussin sulla natura” è la frase che ha ispirato, prima di queste mie considerazioni, un’importante mostra ad Edimburgo nel 1980, organizzata e curata da Richard Verdi: “Cézanne and Poussin” con 69 opere tra quadri e disegni dei due artisti francesi posti in parallelo. Iconograficamente la mostra, che io non ho visto ma di cui ho consultato attentamente il catalogo, non sembra avere più di qualche episodio di rapporto verificabile come i disegni di Cézanne tratti dalla seconda versione del quadro di Poussin “Et in Arcadia ego”, nonché il quadro “La messe” di Cézanne, che il critico suppone ispirato da “L’Estate” di Poussin al Louvre.
Vorrei subito sottolineare che Poussin costituisce un riferimento continuo per l’arte in Francia, in particolare fu la fonte del grande David e di tutto il movimento neoclassico durante la Rivoluzione.
Nel primo Ottocento l’opera e la figura di Poussin ricorre varie volte nell’arte e nella letteratura: ne parla Stendhal nel 1831 nella sua “Storia della pittura in Italia”, letta da Cézanne ben tre volte e suggerita a Zola in una lettera del 1878. Nel 1832 Balzac pubblica “Il capolavoro sconosciuto”, uno dei suoi racconti sul tema dell’assoluto, dove Poussin, ancora ragazzo appassionato e sprovveduto, sale in rue des Grands-Augustins con il maestro Porbus nello studio del misterioso Frenhofer, l’artista folle a cui Cézanne si paragonerà sempre volentieri come al personaggio che nella sua accanita volontà di perfezione sembra somigliargli profondamente.
Citato ancora nel “René” di Chateaubriand, Poussin è l’oggetto di un saggio di Delacroix del 1853, che lo giudica un artista straordinariamente rivoluzionario.
La sua “Estate” ispirerà direttamente l’iconografia di un quadro di Millet del ’57, e da Millet, Van Gogh, e così via.
Ma con Cézanne il discorso è diverso, si può fare un parallelo significativo basato su alcune coordinate.
I due artisti si collocano nel mezzo di due importantissimi periodi storico-artistici convenzionalmente definiti il Barocco nel Seicento, l’Impressionismo nell’Ottocento e nei confronti delle forme trionfanti dei contemporanei, pur apprezzando l’uno i Carracci e Domenichino e l’altro Monet, Renoir e Pissarro, sembrano dedicarsi ad una riflessione profonda sulle tecniche, sull’estetica, sulla realizzazione del quadro, quasi a voler conservare la qualità di una tradizione rinnovandola del tutto. Sembra anche che vivano solitari e in luoghi appartati perché quella riflessione si svolga libera dal chiasso della mondanità, dall’influenza della critica e delle mode, dagli obblighi delle committenze.
Ricordiamo che Poussin sceglie due volte di vivere a Roma e, pur lavorando con Pietro da Cortona e Pietro Testa per i disegni dall’antico del museo cartaceo di Cassiano Del Pozzo (e partecipando con essi del movimento neo-veneto degli anni ’30), si distacca da tutti. Nel 1642 torna a Roma rifiutando committenze prestigiose dei programmi decorativi di Richelieu. Anche Cézanne, escluso varie volte dai Salon, decide di ritrarsi anche dalle mostre impressioniste -aveva partecipato solo a due e dopo il 1877 evita di aderire ad altre- e lavora solitario nel sud della Francia. Dopo il contatto pedagogico fondamentale con Pissarro durante gli anni Settanta, le sue puntate a Parigi sono brevi e sempre descritte dagli storici come poco soddisfacenti, causa di cattivi umori, e connotate dagli esibizionismi inopportuni di un timido.

Un elemento illuminante delle due personalità viene da una frase di Bernini su Poussin, raccontata da Chantelou, lo scultore dice a proposito di uno dei suoi Baccanali: “Monsieur Poussin è un pittore che lavora di là”, indicando con il gesto della mano la fronte, cioè la mente. E Cézanne, scrive Rivière, amava Poussin perché in lui la ragione si sostituiva alle facilitazioni del talento e pur ammirando incondizionatamente l’occhio di Monet, dichiara ad Emile Bernard: “L’occhio e il cervello si devono aiutare a vicenda, occorre lavorare al loro reciproco sviluppo; all’occhio attraverso la visione sulla natura, al cervello attraverso la logica delle sensazioni organizzate come mezzi per esprimersi”. E come Poussin anche Cézanne è con la mente che intende scoprire le leggi oggettive del genere di pittura al quale si dedica, affinché ciò che è fuggevole divenga stabile e la natura sempre cangiante ritrovi un suo fermo assetto formale.
Lo sforzo di Poussin nel dotare i suoi quadri di analisi prospettiche complesse, di oggetti con volumi architettonici, di assemblamenti o rarefazioni di figure e di gesti matematicamente, o se vogliamo, musicalmente studiati (quadri che raggiungono assai raramente i due metri di base e ancor meno di altezza, riducendo la ridondanza del barocco) serve a meditare con sguardo intellettualmente eclatante gli apporti di Raffaello e dei pittori veneti, creando una riserva di illuminazioni quasi inesauribili per la pittura futura da Chardin a David al nostro Cézanne.
Lo sforzo di Cézanne di scoprire per i quadri disvelati dall’impressionismo le leggi interne al dipingere, non accademiche, non eteronome, guardando da ogni lato gli stessi soggetti, decine di volte, per raggiungere una sintesi autonoma, è dello stesso tipo.
Si potrebbe dire che mentre Monet correva verso le ninfee, Cézanne si ritira all’Estaque, mentre Pietro da Cortona, Vouet, e i grandi barocchi italiani e francesi corrono verso la pittura facile, l’affresco celebrativo, la rappresentazione scenografica, Poussin scopre modi di comporre, modi di colorire, di costruire che depositano tesori di sorprese formali anche per noi moderni.
Ambedue rinunciano per così dire al mondo, evitano Parigi, sfuggono i centri di potere, la politica e la società con una sorta di loro filosofia: lo stoicismo del Seicento per Poussin, e per Cézanne basti ricordare una sua frase autografa da Alfred de Vigny: “Seigneur, vous m’avez fait puissant et solitaire - Laissez- moi m’endormir du somneil de la terre”. Ciò per concludere che una visione etica del lavoro artistico e della vita li avvicina più a Pascal che all’estetica dell’arte per l’arte.

In una lettera del 17 gennaio 1649, Poussin da Roma scriveva a Chantelou: “Arrivano qui strane novità dall’Inghilterra, da Napoli, dalla Polonia. Dio voglia preservare la nostra Francia da ciò che la minaccia…E’ un gran piacere vivere in un secolo in cui accadono tanto importanti avvenimenti purché si possa mettersi al coperto in qualche piccolo angolo per poter vedere la commedia a proprio agio”. Era l’epoca di Mazzarino, del formarsi del regno di Luigi XIV. Ma subito voglio ricordare che la Germania di Bismarck vinceva la Francia di Napoleone III e a Parigi si scatenava la Comune e la repressione di Thiers, mentre Cézanne lavorava in Provenza. Il pittore scriverà a Vollard: “Durante la guerra ho molto lavorato sul motivo all’Estaque. Dividevo il mio tempo tra il paesaggio e l’atelier.” (Vollard 1914)

A che cosa serviva “lavorare sul motivo”, a Cézanne? Era il suo modo ostinato e chiaroveggente di arrivare a sottrarre la natura a se stessa dandole una forma, in una specie di ascesi spirituale. E’ di lì che scriverà ad Emil Bernard: “…Trattare la natura con il cilindro, la sfera, il cono, il tutto situato in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano si diriga verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione di una sezione della natura, o se preferite dello spettacolo che il Pater Onnipotens eterne deus spalanca davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari a questo orizzonte danno la profondità…” e conclude che ai gialli e ai rossi che fanno la luce si deve aggiungere una dose sufficiente di azzurrati per fare sentire l’aria.
Era fatale che le sensazioni coloranti prodotte dalla luce e dall’aria finissero in astrazioni, e non gli consentissero di continuare la pittura degli oggetti nei punti più delicati (è una sua espressione), e così lascerà sempre più spesso il quadro o l’acquarello incompleto, identificando talvolta la forza della luce con il bianco della tela o della carta. Il dipinto teso sempre verso una specie di architettura somiglia sempre più ad un’apparizione, si direbbe lo sguardo di un mistico più che di un pittore.
Il sogno di Cézanne di solidificare l’impressionismo dopo il 1880 raggiunge risultati affascinanti, per così dire spiritualizzando la materia con stesure leggere, perfino trasparenti. Sparisce infatti la materia densa e sofferente di Monet, i quadri diventano sinfonie di boschi, di rocce, di acque, di montagne, di ritratti, di nature morte, senza neppure una crepa, veri monumenti alle sensazioni dell’artista e specchi per solidificare mimeticamente anche la natura che osserviamo dalle nostre finestre. La vedremo così strutturata arrivare alla retina come ritmo del modellato.
Talvolta, pur ricordando la monumentalità dell’assunto, l’immagine addirittura sparisce, soprattutto, ma non solo, negli acquarelli, evidenziando le tache regolari, un’orma lirica dell’amore per oggetti e natura, ormai divenuti appunto solo ritmi plastici.
E con i lavoro di questo tipo Cézanne sembra prenderci per mano, condurci nel farsi di una pittura che affonda la realtà, di cui pure è innamorata, in astrazioni emblematiche, in semplificazioni ad un tempo brutali e visionarie. Emblemi appunto di cui non ci libereremo più.

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