| Gli scrittori di Paul: Zola,
            Balzac e Flaubert 
 
 
 Gioia Mori
 
 
 
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 Quello che segue è il testo dell'intervento che Gioia Mori ha
            tenuto durante la Giornata di studi su Cezanne, svoltasi il 19
            aprile presso il Complesso del Vittoriano a Roma, sede della mostra
            "Paul
            Cezanne, il padre dei moderni" .
 
 Era l’agosto del 1906, in Provenza il caldo era opprimente,
            indeboliva «notevolmente il cervello»; eppure ogni pomeriggio alle
            quattro una carrozza andava a prendere il vecchio Cézanne per
            portarlo sulle rive del fiume Arc, al ponte dei Trois Sautets vicino
            a Palette, oppure in un punto chiamato «il gour de Martelles, è
            sul viottolo dei Milles che porta a Montbriant». In quei luoghi
            conosciuti dagli anni della giovinezza, l’artista ancora cercava
            «materiale per studi e quadri”.
 
 Precursore riconosciuto della destrutturazione della forma e della
            prospettiva, Cézanne alla semplificazione della realtà e alla
            famosa conclusione della riduzione delle forme naturali a poche
            forme geometriche giunge attraverso il lavoro condotto sempre
            rigorosamente dal vero: chiuso in un ostinato rifiuto di ogni
            astrazione intellettualistica, caparbiamente sostiene la necessità
            di un’immersione totale nella realtà più profonda della natura e
            rifiuta l’elaborazione mediata, sia quella condotta attraverso i
            fili della memoria che quella della teoria preconcetta. In tarda
            età, nel 1904, ha l’occasione di esprimere il proprio punto di
            vista a Emile Bernard: «La letteratura si esprime con astrazioni
            mentre il pittore concretizza, col disegno e col colore, le proprie
            sensazioni, le proprie percezioni. Non si è mai né troppo
            scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura».
 
 E ancora: «Deve dubitare della mentalità letteraria, che tanto
            spesso fa sì che il pittore si allontani dalla vera via - lo studio
            concreto della natura - per perdersi troppo in speculazioni
            astratte». Talmente radicata è questa sua convinzione da fargli
            rifiutare qualsiasi approccio eccessivamente sottomesso anche all’arte
            del passato, a quel «buon libro da consultare» che può essere il
            Louvre, da usare solo come «una mediazione». Lo stesso Bernard,
            inizialmente considerato «un discepolo convinto», sarà
            tacciato di essere «un intellettuale, congestionato dai ricordi dei
            musei, che non vede abbastanza la natura», e susciterà al burbero
            vecchio un’invettiva contro il museo che anticipa le più violente
            conclusioni marinettiane: «Il punto fondamentale è liberarsi dalla
            scuola e da tutte le scuole. Pissarro, dunque, non s’ingannava
            anche se esagerava un poco, affermando che bisognerebbe bruciare le
            necropoli dell’arte».
 
 Cézanne il museo lo aveva frequentato, così come fu un attento
            lettore. E sia il museo che la letteratura lasciano le loro tracce
            in un lavoro essenzialmente antiletterario, dove non esiste la
            citazione fine a se stessa. Piuttosto, sia le opere degli antichi
            che i testi, quando diventano fonte di ispirazione sono osservati
            come “un’invenzione” a cui è necessario apportare
            aggiustamenti, ritocchi, chiose e commenti, tutti espressi
            attraverso la concretezza delle immagini, e alla citazione e all’omaggio
            Cézanne sovrappone la correzione, attiva un’ironica distanza che
            agisce eliminando a volte l’aura di sacralità del capolavoro.
 
 Anche il suo personale commento all’opera di Manet, apprezzata dai
            colleghi e ridicolizzata dalla pubblicistica, sarà una chiosa
            goliardica, quando all’Olympia aggiunge la figura del
            voyeur, dell’uomo in marsina che guarda le scomposte e poco
            appetibili membra della donna in mostra. E gli amori mitologici del
            gruppo di Canova con Amore e Psiche e di Giove e Antiope
            di Watteau, acclamati testi del Louvre, diventano brani di una
            profana quanto improbabile Lotta d’amore (1880 circa),
            elementi di una cultura figurativa “alta” inseriti nella
            scomposta dinamica del suo quadro, più vicina alla gozzovigliante
            scena di un banchetto fiammingo, che a qualsiasi esempio di antico
            ed erotico congiungimento. Tra le scene di accoppiamenti profani a
            disposizione, sembra essere presa in considerazione la concitata
            composizione della Kermesse dell’amato Rubens, spesso
            citata dall’amico Zola, che in L’assommoir la include tra
            i capolavori ammirati al Louvre dalla «brigatella» del corteo
            nuziale.
 
 ZOLA: L’OPERA FALLITA
 Sulla storia e sulla fine del rapporto Cézanne/Zola molto è stato
            scritto. Indagare sugli scambi intercorsi tra loro - lettere,
            ricordi, poemi - può però ancora riservare sorprese. Quelle rive
            dell’Arc ripercorse da Cézanne sul finire della vita erano le
            mute depositarie di felici trascorsi con il compagno della
            giovinezza, la cui partenza aveva provocato «una cupa tristezza»
            («Non mi riconosco più, sono pesante, torpido e lento […] piango
            per la tua assenza». I ricordi in quegli anni Cézanne li blocca
            nei versi acerbi di un poema spedito nell’aprile del 1858, che
            descrivono rubati passatempi, sogni, discorsi di adolescenti in cui
            fantasie bucoliche e visioni di fanciulle (immancabili ninfe
            accondiscendenti) convivono con boccaccesche conclusioni goliardiche
            e imprescindibili doppi sensi.
 
 «Addio, belle giornate / Dal vino accompagnate! / Che pesche
            fortunate / Di pesce spaventoso! / Quando nella mia pesca / Lungo la
            riva fresca / Nulla sull’aspro legno / Prendevo di mostruoso»,
            così recita il giovane rimasto a Aix, che si attarda anche a
            descrivere lo scenario di quelle giornate: «Ti ricordi il pino
            sulla riva dell’Arc, che protendeva la testa chiomata sopra l’abisso
            che si apriva ai suoi piedi? Quel pino che col suo fogliame
            proteggeva i nostri corpi dall’ardore del sole…». Cézanne
            quando scrive ha diciannove anni, ma la scena ritorna dipinta anni
            dopo, nella Pastorale, un quadro collocato nel 1870 circa.
 
 Sicuramente suggestionato dal Concerto campestre di Tiziano e
            dal Déjeneur sur l’herbe di Manet, il dipinto sembra
            essere proprio l’evocazione elegiaca di quei piaceri giovanili
            messi in versi, di quelle «belle giornate / dal vino accompagnate»
            (che nel quadro è messo in fresco in acqua), quando i componenti
            della «Trinità» (come Cézanne appella il trio formato da se
            stesso, Zola e Baille in una lettera del 26 luglio 1858) si
            sdraiavano sotto «il pino sulla riva dell’Arc» - evocato dalla
            chioma larga accennata a sinistra della tela- a fumare, a pescare,
            ma soprattutto a fantasticare di donne e di proibiti accoppiamenti.
            Donne che forse avevano i volti di ragazze conosciute, ma più
            probabilmente le sembianze sognate e messe in versi da Cézanne, che
            - sempre «nel fondo di un bosco» - vede comparire una fanciulla
            con «grazie stupende», venuta «da terre della notte / per
            rendermi felice».
 
 Una felicità poco stilnovista, che i versi dimostreranno consistere
            in vogliose richieste avanzate dall’apparizione, dotata di
            appetiti molto terreni. Presenze, apparizioni, incontri auspicati
            dai tre giovani che nel dipinto denunciano negli abiti e nel volto
            invecchiato il tempo trascorso da quei placidi convegni in cui le
            fantasie divenivano forse più ardite se stimolate dal vino. E’
            ovvio dunque che i tre appaiano “inibiti” - e privi di ogni
            ragionevole iniziativa all’approccio - di fronte alle tre “ninfe”
            che esibiscono le loro «grazie stupende», essendo in realtà
            visioni che ora si perdono nel ricordo, come allora volavano
            lontano, «su nel cielo, portate da Zefiro». Il ricordo di quelle
            evocazioni femminili, ma soprattutto dell’intensa amicizia
            maschile che anche Zola ricorderà ne L’opera, forse
            confortava un Cézanne piegato dallo sconforto dell’insuccesso,
            ormai trentenne quando dipinge Pastorale.
 
 Abituato a inviare allo scrittore sciarade e rebus, esercizi
            letterari da risolvere in forma epistolare, Cézanne elabora alcune
            scene riconducibili a quella condivisione di letture, discorsi e
            riferimenti ai loro componimenti dilettanteschi, spesso incentrati
            su un erotismo cameratesco. La cruda e spesso cruenta atmosfera
            rilevata nei suoi dipinti “erotici” degli anni Sessanta-Settanta
            rispecchia una visione del sesso, dell’erotismo e della donna -
            condivisa da Zola - disincantata e dura, laddove interviene una
            critica sconfinante con il disprezzo per quelle “ninfe” che
            avessero concesso i tanto agognati favori.
 
 La versione di Canberra de Il pomeriggio a Napoli,
            ultima di tre redazioni collocate in un periodo che va dal 1870 al
            1877, presenta una scena di forse ironizzato erotismo, in cui la
            coppia distesa sembra essere offerta alla visione dalla figura che
            solleva la tenda mentre entra portando una bevanda ristoratrice ai
            due giovani impegnati nelle fatiche d’amore. Il servo nero
            appartiene a quel mondo di portatori di cibo che compare nel
            Festino, richiama immediatamente il mondo esotico degli harem,
            dell’Oriente di Sardanapalo, della Cartagine di Salammbô: un “altrove”
            che nella cultura figurativa francese dell’epoca corrisponde al
            regno dell’orgia, della sfrenata liberazione dei sensi nel cibo e
            nel sesso. Perché quando Cézanne dipinge le sue scene erotiche,
            non osa mai collocarle nella vita reale: sono sogno (Pastorale),
            allegoria (L’eterno femminino), mito violato (Lotta d’amore),
            trasfigurazioni esotiche (Il festino, Pomeriggio a Napoli),
            distaccandosi in questo dal realismo zoliano.
 
 La scena del Pomeriggio a Napoli è orchestrata come su un
            palcoscenico, in cui il sipario alzato dal servo negro rende
            visibile allo spettatore (nascosto) una scena altrimenti destinata a
            rimanere segreta, e sembra una parodia figurata della scena
            descritta da Zola nel poema giovanile L’Amoureuse Comédie,
            scritto nel 1859 e probabilmente noto a Cézanne - visti gli scambi
            di versi - prima della sua pubblicazione in appendice al volume di
            Paul Alexis, Emile Zola. Notes d’un ami, del 1882. Versi
            giovanili, che Zola non può rileggere «senza sorridere. Sono molto
            deboli e di seconda mano», resi noti per scoraggiare «i poeti
            inutili»; un intento “didattico” che Cézanne conosceva, al
            quale doveva l’abbandono delle proprie aspirazioni letterarie a
            favore dell’espressione pittorica. Versi giovanili, che il pittore
            ancora apprezza decenni dopo la loro scrittura, come racconta ad
            Alexis in una lettera che commenta il volume appena uscito: «So di
            non dirti niente di nuovo parlandoti della materia meravigliosa che
            si trova nei bei versi di colui che continua a essere nostro amico.
            Ma sai che li amo. Non dirglielo. Direbbe che sono conciato male.
            Questo, detto fra noi e sottovoce».
 
 In una sezione del poema di Zola si narra la storia tragicomica di
            Rodolpho, un giovane innamorato che va inatteso dall’amata Rosita.
            E’ notte e Rodolfo spinge la finestra semiaperta della stanza
            della fanciulla; il buio permette solo di intravedere l’interno,
            si sente un brusio di baci, e «in una coppa un profumo d’Oriente
            / […] brucia e si spande in una nuvola odorosa. / Le bottiglie
            erano pronte, la camera piena di fiori». Rodolpho spera che Rosita
            dorma e l’attenda, un’illusione che coltiva nonostante i chiari
            indizi: «un abbraccio amoroso fa sussultare il letto, / un rumore,
            un lungo bacio risuona nell’ombra». Ma comincia ad avere qualche
            dubbio, quando non riconosce il bianco corpo e i biondi capelli dell’amata:
            «… Eppure, lei è bionda. Che sono questi capelli / così neri,
            che ricadono sulle sue braccia a lunghe onde? / Tu conosci bene la
            sua voce. E allora cos’è questo mormorio / che si alza dal letto,
            e non le somiglia? / Lei ha dunque dei piedi così robusti e le
            gambe così vigorose? / Il suo seno non è dunque bianco come il
            latte? / E le sue spalle non sono dunque seriche, / Perché ti
            appare sul letto un corpo bruno e muscoloso?».
 
 La descrizione di Zola è già molto rispondente alla scena
            allestita da Cézanne, ma compaiono nel poema anche l’allusione al
            clima vagamente orgiastico, allo spettatore che guarda non visto, a
            quella tenda che il pittore fa scostare dalla comparsa nera, mentre
            in Zola è Rodolpho che, «con un gesto fremente scosta la tenda»,
            e vede «Rose che si avviluppa e si contorce fra le braccia di un
            amante. / I miei amici mi prenderanno in giro: avevano dunque
            ragione, / Io piango e mi cadono le braccia. / E con avidità io
            guardo l’orgia». Zola descrive la coppia impegnata nei gesti d’amore
            («Oh, con quale tenerezza Rosita lo abbraccia / Con quale passione
            lui risponde alle sue carezze»), l’orribile sorpresa di Rodolpho
            nel riconoscere nel letto di Rosita l’amico Marco, la sua
            ostinazione a guardare attraverso la tenda, l’ira nel cogliere in
            flagrante l’amata dalla pelle chiara («il tuo corpo è di
            latte») e il tragico finale: Rosita è uccisa con la spada, il
            fedifrago Marco con quattro colpi di coltello, Rodolpho si consuma
            fra le braccia di una sgualdrina.
 
 Di questo dramma sull’inaffidabilità femminile, Cézanne
            restituisce il clima del boudoir con i profumi d’Oriente (usa lo
            stesso contenitore d’oro del Festino cartaginese) collocati
            nella nicchia bordata di verde, mantiene le caratteristiche fisiche
            della coppia sul letto (lei dalla pelle chiara e i capelli biondi,
            lui con la capigliatura scura, il corpo nervoso, i piedi robusti
            messi in primo piano), e inserisce il servo nero, a indicare il
            clima da festino orientale, da “orgia”, ma potrebbe essere,
            quest’introduzione, la sua personale chiosa beffarda, il commento
            disincantato che sostituisce il dramma finale con un più grottesco
            epilogo, con quella bevanda portata a ristoro dei due traditori.
            Soprattutto, Cézanne ricorda la parte da voyeur giocata da un
            invisibile Rodolpho con la tenda scostata che permette la visione
            all’amante tradito. Usa come artificio figurativo quel domestico
            diaframma erotico che sostituisce il cespuglio, nascondiglio
            privilegiato di satiri, dèi e uomini a caccia di ninfe e dee
            distratte. Cézanne non disdegna il cespuglio (presente nel dipinto
            appartenuto al dottor Gachet con le Bagnanti sorprese da un
            passante del 1870 circa) ma preferisce per i suoi disvelamenti
            quella tenda dipinta da Tiziano in Diana e Atteone, da
            Natoire in Amore e Psiche nell’Hotel de Soubise, da Boucher
            in Venere e Marte sorpresi da Vulcano, armamentario
            mitologico che sostituisce con un più prosaico diaframma borghese,
            come già aveva fatto Manet nell’Olympia.
 
 L’amicizia tra Cézanne e Zola finisce nel 1886 con la
            pubblicazione di L’opera. Nel tratteggiare la figura dell’eroe
            positivo del suo romanzo, il giornalista e romanziere Sandoz, Zola,
            indulgente e ammiccante con se stesso, narra le proprie esperienze
            giovanili, espone i propri convincimenti estetici, descrive le
            proprie abitudini. Entrambi sono di nascita provenzale (Sandoz di un’immaginaria
            Plassans, Zola di Aix), figli di un immigrato (spagnolo il padre di
            Sandoz, un ingegnere veneziano quello di Zola), confortati nei
            difficili inizi parigini da madri vedove amorevolmente assistite.
            Ricevono gli amici artisti nello stesso giorno, il giovedì, amano
            gli stessi poeti, indulgono nell’elaborazione di raffinati menù.
            A Sandoz Zola affida anche la propria riluttante sufficienza verso
            il giornalismo («Il giornale, vedi, è soltanto un campo di
            battaglia. Bisogna vivere e per vivere bisogna battersi…»), e lo
            dota della stessa alacre dedizione al lavoro (il motto di Zola era
            «nulla dies sine linea», imperativo che nel romanzo viene
            sintetizzato in chiusura nella frase pronunciata da Sandoz,
            «Andiamo a lavorare», subito dopo aver seppellito l’amico
            Lantier in quel «cimitero delle capitali democratiche, dove i morti
            sembrano dormire in fondo a casellari d’ufficio»).
 
 Se riconoscere Zola nella figura di Sandoz è un facile esercizio di
            giustapposizione, più complesso è smontare il puzzle di
            personalità artistiche che prestano le loro opere, le loro paure o
            follie alla figura negativa del romanzo, Claude Lantier: certo,
            Lantier è il Manet del Déjeneur sur l’herbe, che presta i
            personaggi al Plein air di Lantier; certo, Lantier è il
            Monet degli Scaricatori di carbone del 1871, quando descrive
            il porto Saint-Nicolas e i suoi lavoratori; certo, Lantier è il
            Moreau delle eroine luminose nella loro nudità, quando dipinge
            quella donna «tutta dritta, nuda a prua, una nudità così
            sfolgorante che irradiava come un sole». Ma soprattutto Lantier è
            Cézanne.
 
 Un brutto libro e completamente falso, così Cézanne giudicò L’opera.
            Del tutto falso non era. E le similitudini tra Cézanne e il pittore
            del romanzo non si limitano all’origine provenzale e alla
            predilezione per la «minestra di vermicelli all’olio, tanto cara
            a Lantier», come scrive a Zola dopo aver letto L’assommoir.
            Cézanne come Lantier subisce il rifiuto continuo alla sua
            partecipazione al Salon, che lo porterà a scrivere al
            soprintendente alle Belle Arti parole che ricordano l’atteggiamento
            di Lantier. Cézanne come Lantier è capace di isolarsi per anni
            nella solitudine eremitica di una campagna, ben più lontana dai
            dintorni parigini in cui fugge l’eroe di carta. Cézanne come
            Lantier non possiede il dono dell’equilibrio, e non esita a
            riconoscerlo nella sua corrispondenza con Victor Choquet: «avrei
            desiderato avere quell’equilibrio intellettuale che vi
            caratterizza e vi permette di raggiungere con sicurezza lo scopo. […]
            Il caso non mi ha dato un simile equilibrio, ed è l’unica cosa
            che rimpiango sulla terra» Cézanne come Lantier è il genio che si
            perde nel «sogno consolatore dell’opera futura»
 
 Zola aveva dunque aperto il vaso di Pandora di quel rapporto,
            piegato all’esigenza narrativa, fino a renderle drammaticamente
            grottesche, alcune debolezze e fragilità caratteriali dell’amico.
            E’ un mondo che si chiude, per Cézanne, un rapporto che archivia
            come quei «morti [che] sembrano dormire in fondo a casellari d’ufficio»,
            con un’epigrafe breve e amareggiata. Zola, a dieci anni di
            distanza, nel 1896, dimostrerà di non saper ancora riconoscere la
            grandezza dell’amico - al quale forse rimprovera proprio l’assenza
            del “capolavoro”, pur avendo alcune genialità -, con una frase
            in un articolo comparso su “Le Figaro”: «Ero cresciuto quasi
            nella stessa culla con il mio amico, il mio fratello, Paul Cézanne,
            di cui solo oggi ci si accorge di scoprire delle parti geniali in un
            grande pittore abortito».
  Il golfo di Marsiglia visto da L'Estaque, 1885 ca.,
            olio su
 tela, 73x100 cm. (The Metropolitan Museum of Art, New York)
 
 E’ il suo giudizio poco lusinghiero su Cézanne
            pittore, già garbatamente espresso nel corso degli anni in poche
            righe sbrigative oppure con macroscopiche omissioni di citazione. E
            se nella recensione alla I mostra impressionista riconosce che, «ha
            un vero temperamento di grande pittore», pochi anni dopo, nel 1876,
            sembra in attesa di una prova risolutiva: «Paul Cézanne è senza
            dubbio il più grande colorista del gruppo [impressionista]. Ci sono
            di lui, alla mostra, dei paesaggi di Provenza del più bell’aspetto.
            Le tele così forti e così vere di questo pittore faranno forse
            sorridere i borghesi, ma mostrano tutti gli elementi di un
            grandissimo pittore. Il giorno in cui Paul Cézanne sarà
            completamente padrone del suo talento, allora farà dei
            capolavori». Nel 1880 non nasconde una certa delusione quando
            afferma: «Paul Cézanne, un temperamento di grande pittore che sta
            cercando il suo stile, rimanendo ancora vicino a Courbet e Delacroix
            ».
 Convinto del proprio giudizio, teneva i quadri di Cézanne chiusi in
            un armadio, come raccontò a Vollard. Erano soprattutto dipinti
            giovanili, collocabili negli anni Sessanta/Settanta. Il ratto
            è un’opera del 1867, e certamente non raffigura un rapimento:
            nella scena con il giovane che trasporta il corpo di biancore
            cadaverico di una fanciulla («un cumulo di braccia e gambe»,
            secondo Meier-Graefe), mentre intorno si muovono ninfe indifferenti,
            manca infatti quella concitazione propria di ogni rapimento; domina
            invece la sospesa atmosfera presente nel tentativo fallito di Orfeo
            di trarre Euridice dagli Inferi, o in quello riuscito di Ercole che
            salva Alcesti. La pendola nera in collezione Niarchos è del
            1870 circa, una tela dedicata all’orologio sopra il camino che era
            tra gli arredi di casa Zola e che comparirà anche in casa Sandoz.
            Un capolavoro - percepito come tale già da Rilke che lo ammirò
            alla retrospettiva del Salon d’Automne del 1907 -, in cui compare,
            inamidata e irrigidita, la tovaglia bianca usata da Manet per la sua
            Natura morta con salmone (1866, Shelburne, Vermont, Shelburne
            Museum), di cui Cézanne mantiene, spostandolo a sinistra, anche il
            bordo rialzato; domina nella tela il gioco di contrasti cromatici
            tra il nero della pendola, il blu del fondo e la tela bianca in
            primo piano, che si accompagna a quello tra le rette dello specchio,
            della pendola, del piano orizzontale e le linee curve della
            gigantesca conchiglia, del limone e del vaso. Erano poi in casa
            dello scrittore i due dipinti con Paul Alexis che legge a Zola
            (uno in collezione privata svizzera, l’altro al Museu de Arte di
            San Paolo), del 1869-1870, incerti controcanti al ritratto di Manet.
 
 Il primo rivela un impianto di ascendenza romantica, alcuni
            riferimenti a un dipinto di Delacroix oggi alla Kunsthaus di Zurigo,
            in cui Milton è impegnato a dettare il Paradiso perduto; si
            ritrova, un po’ nascosta dal profilo possente di Zola, la pendola
            nera e si vede invece interamente la terracotta di cui nella natura
            morta era indicata solo la base. Il secondo ritratto, incompiuto,
            rimarrà addirittura dimenticato per anni nella soffitta di Médan -
            la proprietà sulle rive della Senna a nord-ovest di Parigi che
            Cézanne aveva ritratto in numerose tele - e non verrà incluso
            nella vendita all’asta organizzata nel 1903 all’Hôtel Drouot,
            un anno dopo la morte di Zola. La “dimenticanza” di Zola è
            comprensibile: il suo pensiero estetico infatti trova un
            corrispettivo deciso nel Manet che lo ritrae “finitamente”,
            dotato di tutti gli attributi previsti dalla ritrattistica di
            ascendenza rinascimentale, esibiti a raccontare la sua attività
            intellettuale: la scrivania allestita con gli strumenti di lavoro,
            il saggio dalla copertina azzurra dedicato a Manet, il paravento
            giapponese e la stampa di Kuniachi che testimoniano il comune amore,
            dello scrittore e del pittore, per quell’arte appena sbarcata in
            Europa, la riproduzione dell’Olympia, difesa con ardore dal
            letterato. Di tono troppo diverso il lavoro di Cézanne, così teso
            a restituire dell’amico (questa volta ritratto di fronte, mentre
            Alexis compare di profilo) un’immagine più domestica, meno
            ufficiale, nella posa da odalisca in riposo, suggerita forse dall’arredamento
            orientalista, pieno di “giapponeserie” ma anche di mobili
            arabeggianti, dello studio dello scrittore.
 
 Non sembra dunque essere stato il tempo a dissolvere la relazione
            tra Cézanne e Zola, che aveva trasformato le intense comunicazioni
            giovanili in scabre richieste di denaro avanzate con cadenza mensile
            da un Cézanne ormai quarantenne, o di supporto morale a un Cézanne
            timoroso della figura paterna al punto da occultare la nascita del
            figlio. Né le diverse posizioni di impegno/disimpegno sociale: Zola
            sarà un protagonista che non temerà il rischio totale con l’affare
            Dreyfus, fino forse a mettere in gioco la vita stessa (esistono
            ancora dubbi sulle cause, forse non accidentali, della sua morte,
            avvenuta nel 1902 per asfissia nella casa parigina); Cézanne
            rifugge ogni pericolo, quello della guerra quando nel 1870 ritorna
            all’Estaque in pieno conflitto franco-prussiano, o quelli latenti
            del porto di mare quando cerca a Marsiglia una casa «in un
            quartiere dove non ci siano troppi omicidi».
 
 Piuttosto, a separarli furono le diverse concezioni della forma dell’Opera,
            che matureranno in due direzioni opposte. Il Cézanne che può
            dialogare con Zola è quello giovanile, curvilineo e sferoidale
            nelle forme così come lo è Zola quando ritrae la realtà a tutto
            tondo; è il Cézanne precedente a quello classico che arriva alla
            sfaccettatura della forma, al non finito moderno, al suggerimento
            piuttosto che alla restituzione totale.
 
 BALZAC: L’OPERA NON FINITA
 
 Se Claude Lantier suscitò il disarmante disagio di Cézanne,
            Frenhofer, il protagonista del Capolavoro sconosciuto, un
            breve racconto scritto da Balzac nel 1832, era invece riconosciuto
            come un “alter ego”, raffigurato in un disegno del 1868-1871
            come un pittore abbigliato all’antica nell’atto di mostrare a
            uno spettatore la sua tela, scena che potrebbe rappresentare il
            drammatico finale del racconto. Strana identificazione - dichiarata
            in gioventù e ribadita a Bernard -, perché anche in questo caso l’artista
            è portato al suicidio, «dopo aver bruciato le sue tele», dal
            fallimento di un’opera impossibile. In realtà, troppi sono gli
            elementi di contatto tra le storie di Lantier e Frenhofer per non
            supporre che Zola non abbia fatto riferimento a quel testo: a parte
            l’epilogo, anche il personaggio di Christine - la moglie di
            Lantier che vede sopraffatta la propria identità di donna da quella
            di modella - sembra ricalcare la balzachiana figura di Gillette.
 
 Nell’opera di Balzac si narra la paradossale vicenda di Frenhofer
            (stupendo personaggio dal volto di un Socrate che a vederlo sembrava
            «una tela di Rembrandt [che] camminasse silenziosamente e senza
            cornice»), che con accanimento lavora a un’opera infinita. Quando
            l’artista, cedendo alle insistenze dell’amico Porbus e del
            giovane Nicolas Poussin, mostra loro il quadro, questo appare come
            «un pasticcio di colore chiaro», opera di un pazzo. In realtà,
            del testo di Balzac Cézanne probabilmente apprezza alcune di quelle
            incisive affermazioni sull’opera d’arte ideale declamate da un
            Frenhofer che nel furore dell’esposizione si muove come «un
            organista di cattedrale». Non è difficile riconoscere il processo
            creativo di Cézanne, lento e paziente, nell’incitamento di
            Frenhofer a calarsi nell’intimo della forma con «amore e
            perseveranza», perché: «La bellezza è cosa severa e difficile,
            che non si lascia conquistare alla prima: bisogna aspettare il
            momento in cui sia ben disposta, spiarla, starle alle costole e
            legarla solidamente per costringerla alla resa. La forma è un
            Proteo ben più inafferrabile e ben più ricco di trappole di quello
            della favola: solo dopo lunghe lotte è possibile costringerla a
            mostrarsi nella sua vera sembianza. Voi vi contentate di come vi si
            mostra al primo aspetto, tutt’al più al secondo o al terzo: non
            è così che si comportano i lottatori vincenti! I pittori invitti
            non si lasciano ingannare da nessun sotterfugio, ma insistono fin
            quando la natura non sia obbligata a mostrarsi nuda in tutta la sua
            verità» Una dedizione perseguita da Cézanne ostinatamente, che
            nel 1903 scrive a Vollard: «Ho fatto qualche progresso. Perché
            così tardi e così a fatica? Non sarà l’arte, in effetti, un
            sacerdozio, che richiede dei puri totalmente votati a lei? ».
 
 Ma soprattutto è la poetica del frammento, dell’opera non finita,
            a costituire un precoce antecedente a certe conclusioni che Cézanne
            esporrà a Bernard nel 1905. Nell’accanimento verso un’ideale
            perfezione, Frenhofer distrugge il suo dipinto, ma un piede, il
            frammento di un corpo che sfugge ai continui ripensamenti, riesce a
            salvarsi, capolavoro nascosto dalla muraglia di colore:
            «Avvicinandosi, essi videro in un angolo della tela la punta d’un
            piede nudo che sbucava da quel caos di colori, tonalità, sfumature
            indecise, simile a una nebbia informe: ma un piede delizioso, un
            piede vivo! Restarono pietrificati d’ammirazione davanti a quel
            frammento sfuggito a un’incredibile, lenta, progressiva
            distruzione: quel piede stava là come il torso d’una Venere in
            marmo di Paro che si innalzasse in mezzo alle rovine di una città
            incendiata». Il frammento di Frenhofer e il non finito di Cézanne,
            la fragile tessitura dei suoi ultimi lavori dalla consistenza vitrea
            che si spezzerebbe con la sola aggiunta di un’altra pennellata,
            nascono dalla stessa impossibilità a restituire un’interezza che
            sfugge: «Per me, vecchio di quasi sessant’anni - scrive nel 1905
            -, le sensazioni di colore che generano la luce sono causa di
            astrazioni che mi impediscono di comporre la tela e di raggiungere
            il limite degli oggetti quando i punti di contatto sono tenui,
            delicati; per questo accade che l’immagine o il quadro siano
            incompleti»
 
 E’ il trionfo della riduzione, dell’opera liberata dall’orpello
            della finitura, in grado di restituire la frammentarietà dell’idea
            originale ma anche la completezza di una riflessione talmente
            profonda da essere in grado di sciogliere, spezzare, ogni “accidente”
            dell’apparenza per giungere all’essenza. E’ un processo
            creativo che si riconosce nella scultura di Michelangelo e Rodin,
            fino alla struttura ridotta a note sparse, alla distruzione del
            contorno, alla pennellata interrotta di Cézanne, e che trova un
            corrispettivo in diverse esperienze letterarie del Novecento,
            laddove è l’affabulazione a dominare. Quale fosse il legame
            teorico tra Frenhofer e Cézanne, è sottolineato da due poeti,
            Rilke e Pound. La lettura dell’opera di Pound come equivalente
            letterario al lavoro di Porbus e Cézanne è nel saggio di Yeats Una
            visione, pubblicato nel 1925, dove, in apertura del libro, è
            descritta una visita al poeta statunitense, allora sulla costa
            ligure, a Rapallo, «in certe stanze che danno su un tetto a
            terrazza sulla riva del mare». Su quel terrazzo, «che è anche un
            giardino», Pound illustra all’amico la segreta architettura dei Cantos,
            l’«immenso poema» a cui sta lavorando, in cui «non ci sarà
            intreccio, né cronaca di eventi, né logica di discorso» e che una
            volta terminato «rivelerà una struttura simile a quella di una
            fuga di Bach». In quest’opera titanica - scrive Yeats riportando
            il pensiero di Pound - «ha cercato di fare quel quadro che Porbus
            raccomandava a Nicolas Poussin nel Chef-d’oeuvre inconnu,
            dove tutto si sviluppa o si espande senza spigoli, senza contorni -
            convenzioni dell’intelletto - da una chiazza di tinte e di ombre;
            ha cercato di compiere un’opera caratteristica dell’arte del
            nostro tempo come i quadri di Cézanne, che si richiamano
            apertamente a Porbus».
 
 «Devo lavorare sempre, ma non per arrivare al finito, che suscita l’ammirazione
            degli imbecilli. Ciò che il volgo apprezza maggiormente non è che
            il risultato del mestiere di un artigiano, e rende ogni opera non
            artistica e banale»: questo è l’obiettivo di un giovane Cézanne
            trentacinquenne, che ritiene di aver raggiunto alla fine degli anni
            Novanta, quando scrive a Gasquet: «…Forse sono venuto troppo
            presto. Ero il pittore della vostra generazione più che della
            mia».
 
 FLAUBERT: L’OPERA CIRCOLARE
 
 Isolato in Provenza, lontano dalla moglie Hortense e dal figlio Paul,
            che preferiscono vivere a Parigi, Cézanne ritrae la montagna
            Sainte-Victoire, il giardiniere Vallier, le bagnanti esauste, mille
            varianti di mele in continue e meditate versioni. Fu per questo che
            Monet definì lo scontroso amico «il Flaubert della pittura, un po’
            goffo, ostinato, grande lavoratore, a volte esitante come un genio
            che lotta per affermare se stesso».
 
 Silenziosi isolamenti, stesure spossanti, cancellature, riscritture,
            approfondite consultazioni bibliografiche, continui dubbi sui
            risultati raggiunti: come Cézanne, Gustave Flaubert conosceva
            processi creativi lunghi e tormentati. Scriveva ritirato nella casa
            di Croisset, dove si era stabilito nel 1845 dichiarando: «Mi
            rimetterò dunque, come in passato, a leggere, scrivere,
            fantasticare, fumare»; Parigi è la scena ideale, invece, per gli
            incontri mondani, editoriali e processuali. Impiega quasi trent’anni
            per giungere nel 1874 alla redazione finale della Tentazione di
            sant’Antonio, ispirata da un quadro di Bruegel visto a Genova
            nel 1845; cinque anni per scrivere Madame Bovary, dal 1851 al
            1856, e cinque anni per Salammbô, dal 1857 al 1862, questi
            ultimi trascorsi consultando più di cento volumi di storia,
            archeologia e trattati militari, immerso «sempre nella sua
            Cartagine, vivendo laggiù rintanato in casa e sprofondato in un
            lavoro da bue», raccontano i fratelli Goncourt; unica concessione,
            un viaggio in Tunisia nel 1858, per documentarsi sui luoghi
            descritti nel romanzo.
 
 «Ho avuto ieri notizia dell’infelicissimo evento della morte di
            Flaubert”, scrive un accorato Cézanne a Zola nel maggio 1880.
            Dello scrittore subiva talmente il fascino, da associargli una
            cromia, «un tono alla Flaubert», tra il rossiccio e il bluastro,
            quel colore purpureo che durante la stesura di Salammbô
            aveva ossessionato lo scrittore, come racconta in una lettera a
            Jules Duplan dell’ottobre 1857: «Credo che la parola porpora o
            diamante sia presente in ogni frase del mio libro». Questa netta
            suggestione flaubertiana è apertamente dichiarata dal pittore a
            Gasquet, quando ricorda la genesi di La vecchia con rosario,
            un dipinto del 1895-1896 che donò allo scrittore. La modella era un’ex
            suora, che a settant’anni aveva scavalcato con una scala il muro
            del convento e aveva gettato l’abito; Cézanne l’aveva accolta
            ed era divenuta la sua domestica: «lo derubava spudoratamente,
            rivendendogli, per pulire i pennelli, gli asciugamani e le lenzuola
            che aveva lacerato mormorando le litanie; continuava a tenerla,
            però, chiudendo gli occhi per pura carità».
 
 Un ritratto terragno, che nasce dal ricordo di una comparsa di Madame
            Bovary: «Lei sa che quando Flaubert scriveva Salammbô -
            racconta Cézanne - diceva che vedeva tutto purpureo. Ebbene! Mentre
            dipingevo la Vecchia con rosario, io vedevo un tono alla
            Flaubert, un’atmosfera, un qualcosa di indefinibile, un colore
            bluastro e rossastro che emana, mi sembra, da Madame Bovary.
            Mi ero messo a leggere Apuleio per cacciare quell’ossessione che
            temevo pericolosa, troppo letteraria. Non cambiava niente. Quel gran
            blu rossastro mi seduceva, mi cantava nell’anima. Mi ci immergevo
            tutt’intero [...]. Scrutavo tutti i particolari delle vesti, la
            cuffia, le pieghe del grembiule, decifravo il viso ipocrita. Fu solo
            dopo che potei constatare come il volto fosse rossiccio, il
            grembiule bluastro e allo stesso modo fu solo dopo aver completato
            il quadro che mi ricordai della descrizione della vecchia domestica
            all’assemblea dei coltivatori». Il legame era forse innescato
            dalla storia dell’ex suora modella di Cézanne e un aggettivo,
            «monacale», che Flaubert usa nella descrizione della benemerita
            Catherine-Nicaise-Élisabeth Leroux, «... una vecchietta dall’aria
            impaurita, che pareva rattrappirsi nei suoi miseri panni. Aveva ai
            piedi grossi zoccoli di legno e sui fianchi un grembiulone blu. Il
            volto magro, incorniciato da una cuffia sfrangiata, era solcato di
            rughe più di una mela renetta vizza, e dalle maniche della rossa
            casacca di cotone spuntavano due lunghe mani nodose alle
            articolazioni. […] Un’ombra di rigidezza monacale
            sottolineava l’espressione di quel viso. Nulla di triste né di
            tenero raddolciva quel pallido sguardo».
 
 In una lettera scritta all’amico Schuffenecker nel gennaio 1885,
            Gauguin parla di un lato della personalità di Cézanne che deduce
            dallo studio grafologico che stava facendo in quel periodo. Nell’artista
            egli vede «la natura essenzialmente mistica dell’Oriente [...],
            nella forma egli predilige il mistero e la pesante tranquillità di
            chi dorme per sognare, il suo colore è grave come il carattere
            degli orientali». Un’intuizione non peregrina, perché se
            Cézanne rimane quasi indenne di fronte all’Oriente giapponese che
            dilaga nell’opera dei suoi contemporanei, assimila invece l’immagine
            di quell’Oriente, più cruento e letterario, apprezzato anche da
            Flaubert, da quest’ultimo vissuto attraverso un’esistenza “millenaria”
            che descrive a George Sand: «Sono stato battelliere sul Nilo,
            lenone a Roma al tempo delle guerre puniche, poi retore greco nella
            suburra dove ero divorato dai pidocchi. Sono anche morto durante una
            crociata per aver mangiato troppa uva sui litorali della Siria. Sono
            stato pirata e monaco, saltimbanco e cocchiere. Forse imperatore d’Oriente».
            Due testi “orientalisti” di Flaubert, Salammbô e Le
            tentazioni di sant’Antonio, presentano delle connessioni con
            alcune opere cézanniane.
 
 Salammbô era stato pubblicato nel 1862 e pochi anni dopo,
            intorno al 1867, Cézanne inizia un quadro che fu esposto nel 1895
            da Vollard con il titolo Il festino, solo successivamente
            ribattezzato L’orgia. Il pittore descriverà il dipinto a
            Joachim Gasquet come «una grande ondulazione colorata [...] un
            abisso in cui l’occhio sprofonda, una sorda germinazione», dove
            vi è una sensualità violenta, un alone di morte e lussuria, una
            profusione di corpi, di carne, di vasellame, di tendaggi sontuosi.
            Varie letture e referenti sono stati avanzati per questo dipinto; ma
            il confronto più convincente è con i banchetti cartaginesi
            descritti da Flaubert. In Salammbô, il romanzo che si snoda
            intorno alla storia della rivolta dei mercenari contro Cartagine (un
            episodio avvenuto nel 241 a. C. e narrato da Polibio nel primo libro
            delle Storie), sono descritti due banchetti, uno nel primo
            capitolo e uno nell’ultimo: un dittico orgiastico apre e chiude il
            romanzo che nelle intenzioni di Flaubert doveva essere una
            «resurrezione plastica» di Cartagine, sprofondata negli abissi
            della guerra, della sensualità, del sadismo.
 
 Il primo banchetto è quello dei mercenari, introdotto con
            magistrale sintesi: «Accadde a Megara, quartiere di Cartagine, nei
            giardini di Amilcare». E’ nella descrizione di questo convito che
            compaiono alcuni primi elementi rintracciabili nel dipinto: il
            «velario di porpora a frange d’oro, disteso dal muro delle
            scuderie alla prima terrazza del palazzo», diventa nel quadro un
            velario dai riflessi di porpora; il palazzo «di marmo numidio
            screziato di venature gialle» diventa giallo ocra; ritroviamo «gli
            schiavi delle cucine, spaventati e seminudi», i «crateri pieni di
            vino, anfore piene d’acqua» e perfino i piatti gialli sono
            ripresi da Flaubert, che li descrive come «piatti d’ambra
            gialla». Rimane l’atmosfera della crapula dei soldati che «se ne
            stavano sdraiati sui cuscini, mangiavano accovacciati intorno ai
            grandi vassoi, oppure, sdraiati sul ventre, afferravano i pezzi di
            carne e si saziavano appoggiati sui gomiti, nella placida posizione
            dei leoni intenti a sbranare la preda».
 
 Non partecipano donne, a questo primo banchetto. Cézanne dunque
            fonde gli elementi del primo banchetto con le presenze descritte nel
            secondo, quello di chiusura del romanzo, il convito orgiastico e
            sanguinario tenuto dai cartaginesi dopo aver sconfitto tutti i
            nemici: «quel giorno - scrive Flaubert - il principio femminile
            dominava e confondeva tutto: una mistica lascivia si diffondeva nell’aria
            greve; già le fiaccole cominciavano ad accendersi in fondo ai
            boschi sacri; nella notte si sarebbe svolta una prostituzione
            generale; tre navi avevano portato cortigiane dalla Sicilia, e ne
            erano arrivate dal deserto».
 
 A questo banchetto di Salammbô si ispira anche un olio degli
            anni Novanta, La preparazione del banchetto, un dipinto ormai
            frantumato nei suoi elementi strutturali, dominato dal velario ora
            decisamente di porpora; anche gli oggetti (la grande ampolla dorata
            al centro della composizione, e l’anfora azzurra a destra) e i
            frutti sparsi sulla tavola richiamano nelle forme e nei colori l’apparecchiatura
            flaubertiana: «Grandi ampolle di elettro, anfore di vetro blu,
            [...] grappoli d’uva con le foglie [...] e limoni, melograne,
            zucche e cocomeri». E ancora: nella sua descrizione Flaubert
            indugia a elencare elementi di colore bianco, che è il tono
            dominante del dipinto: piatti dai bordi di perle, ceppi d’avorio,
            blocchi di neve che si sciolgono nei vassoi, carni sistemate su
            conchiglie, vassoi da cui si alzano colombe in volo.
 
 Il romanzo d’altra parte raccontava di un eroe giovanile di
            Cézanne, il condottiero cartaginese al quale aveva dedicato nel
            1858 (prima dunque della pubblicazione di Salammbô) una
            poesia, Sogno di Annibale, in cui il condottiero curiosamente
            perde ogni aura di eroismo proprio in un festino, degenerato per il
            vino e le donne svergognate: «Al finir d’un festino, l’eroe
            cartaginese, / Che un consumo smodato avea fatto del bere / Troppo
            rhum e cognac, barcollava, inciampava. / […] Perché sulla
            tovaglia dove l’eroe sferrato / Ha un gran pugno, ad ondate il
            vino è dilagato. / E le fondine e i piatti e vuote insalatiere /
            Rotolarono tristi in limpidi ruscelli / Caldi ancora di punch…».
            E immancabile arriva il rimprovero di Amilcare, padre severo e
            fustigatore, come il padre del pittore: «Via il cognac, via pur
            queste femmine svergognate / Che ci tengon di troppo le anime
            imprigionate».
 
 Altra fonte di Cézanne fu il sant’Antonio tentato di Flaubert,
            che si muove in un Oriente decadente in cui «pilastri egiziani
            dominano templi greci». L’eremita decadente vaga nello spazio e
            nel tempo in situazioni allucinate: è ospite in un banchetto alla
            corte di Nabucodonosor, in un incontro con la tentatrice regina di
            Saba dagli occhi bistrati di nero si permette di rifiutare la
            biblica bellezza, da folle di eresiarchi ascolta teorie blasfeme,
            intreccia conversazioni con martiri inebetiti dal vino drogato. Dell’entusiasmo
            di Cézanne per il testo di Flaubert testimonia ancora Gasquet,
            quando narra che, verso la fine degli anni Novanta, «il poeta
            Gilbert de Voisins propose al maestro di Aix di illustrare a modo
            suo la Tentazione di sant’Antonio di Gustave Flaubert»,
            facendo vivere al pittore «una settimana di grande entusiasmo». Il
            tema, Cézanne lo aveva già affrontato in diversi oli, da quello
            della collezione Bührle datato intorno al 1870, dove tre donne nude
            accompagnano la seduttrice che si espone al monaco sullo sfondo,
            fino al dipinto oggi al d’Orsay, collocabile nel 1875-1877, dove
            la brulla Tebaide è divenuta uno scorcio di Provenza e la donna
            flaubertiana avvolta nel broccato e nei gioielli è qui
            completamente denudata.
 
 Una tentatrice che è ripresa speculare della Venere che campeggia
            nel Trionfo della Virtù del Mantegna, conservato al Louvre:
            Cézanne ripropone non solo la posa, ma anche il mantello verde, qui
            trasformato in incongruo lenzuolo bianco, che la donna alza sulla
            testa, così come il pullulare di amorini ricorda quelli dotati di
            ali che introducono la casta Minerva. Cézanne dunque trasforma la
            Venere mantegnesca in una Venere sacra, o in una profana regina di
            Saba, o piuttosto nell’immagine della Lussuria flaubertiana. A
            questa conclusione ci porta il confronto tra due brevi testi, un’annotazione
            di Cézanne su un acquerello preparatorio del quadro al d’Orsay e
            un brano di Flaubert. Scrive Cézanne: «Del mio corpo radioso vedi
            l’incarnato / Antonio; non resistere alla seduzione», echeggiando
            le parole della Lussuria che tenta il sant’Antonio: «Non
            resistere, io sono onnipotente! Fremono le foreste ai miei sospiri,
            le onde s’agitano ai miei soprassalti. La virtù, il coraggio, la
            pietà si dissolvono al profumo della mia bocca. Io accompagno l’uomo
            passo passo, e sul ciglio della tomba è a me che egli si volge!».
            Parole destinate a scuotere il misogino Cézanne, che curiosamente
            tra le tentazioni giovanili, nel quadro della collezione Bührle,
            aveva inserito anche un uomo: il corpo sgraziato della donna di
            destra, infatti, ha il volto dell’amico Zola.
 
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