Gli scrittori di Paul: Zola,
Balzac e Flaubert
Gioia Mori
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Quello che segue è il testo dell'intervento che Gioia Mori ha
tenuto durante la Giornata di studi su Cezanne, svoltasi il 19
aprile presso il Complesso del Vittoriano a Roma, sede della mostra
"Paul
Cezanne, il padre dei moderni" .
Era l’agosto del 1906, in Provenza il caldo era opprimente,
indeboliva «notevolmente il cervello»; eppure ogni pomeriggio alle
quattro una carrozza andava a prendere il vecchio Cézanne per
portarlo sulle rive del fiume Arc, al ponte dei Trois Sautets vicino
a Palette, oppure in un punto chiamato «il gour de Martelles, è
sul viottolo dei Milles che porta a Montbriant». In quei luoghi
conosciuti dagli anni della giovinezza, l’artista ancora cercava
«materiale per studi e quadri”.
Precursore riconosciuto della destrutturazione della forma e della
prospettiva, Cézanne alla semplificazione della realtà e alla
famosa conclusione della riduzione delle forme naturali a poche
forme geometriche giunge attraverso il lavoro condotto sempre
rigorosamente dal vero: chiuso in un ostinato rifiuto di ogni
astrazione intellettualistica, caparbiamente sostiene la necessità
di un’immersione totale nella realtà più profonda della natura e
rifiuta l’elaborazione mediata, sia quella condotta attraverso i
fili della memoria che quella della teoria preconcetta. In tarda
età, nel 1904, ha l’occasione di esprimere il proprio punto di
vista a Emile Bernard: «La letteratura si esprime con astrazioni
mentre il pittore concretizza, col disegno e col colore, le proprie
sensazioni, le proprie percezioni. Non si è mai né troppo
scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura».
E ancora: «Deve dubitare della mentalità letteraria, che tanto
spesso fa sì che il pittore si allontani dalla vera via - lo studio
concreto della natura - per perdersi troppo in speculazioni
astratte». Talmente radicata è questa sua convinzione da fargli
rifiutare qualsiasi approccio eccessivamente sottomesso anche all’arte
del passato, a quel «buon libro da consultare» che può essere il
Louvre, da usare solo come «una mediazione». Lo stesso Bernard,
inizialmente considerato «un discepolo convinto», sarà
tacciato di essere «un intellettuale, congestionato dai ricordi dei
musei, che non vede abbastanza la natura», e susciterà al burbero
vecchio un’invettiva contro il museo che anticipa le più violente
conclusioni marinettiane: «Il punto fondamentale è liberarsi dalla
scuola e da tutte le scuole. Pissarro, dunque, non s’ingannava
anche se esagerava un poco, affermando che bisognerebbe bruciare le
necropoli dell’arte».
Cézanne il museo lo aveva frequentato, così come fu un attento
lettore. E sia il museo che la letteratura lasciano le loro tracce
in un lavoro essenzialmente antiletterario, dove non esiste la
citazione fine a se stessa. Piuttosto, sia le opere degli antichi
che i testi, quando diventano fonte di ispirazione sono osservati
come “un’invenzione” a cui è necessario apportare
aggiustamenti, ritocchi, chiose e commenti, tutti espressi
attraverso la concretezza delle immagini, e alla citazione e all’omaggio
Cézanne sovrappone la correzione, attiva un’ironica distanza che
agisce eliminando a volte l’aura di sacralità del capolavoro.
Anche il suo personale commento all’opera di Manet, apprezzata dai
colleghi e ridicolizzata dalla pubblicistica, sarà una chiosa
goliardica, quando all’Olympia aggiunge la figura del
voyeur, dell’uomo in marsina che guarda le scomposte e poco
appetibili membra della donna in mostra. E gli amori mitologici del
gruppo di Canova con Amore e Psiche e di Giove e Antiope
di Watteau, acclamati testi del Louvre, diventano brani di una
profana quanto improbabile Lotta d’amore (1880 circa),
elementi di una cultura figurativa “alta” inseriti nella
scomposta dinamica del suo quadro, più vicina alla gozzovigliante
scena di un banchetto fiammingo, che a qualsiasi esempio di antico
ed erotico congiungimento. Tra le scene di accoppiamenti profani a
disposizione, sembra essere presa in considerazione la concitata
composizione della Kermesse dell’amato Rubens, spesso
citata dall’amico Zola, che in L’assommoir la include tra
i capolavori ammirati al Louvre dalla «brigatella» del corteo
nuziale.
ZOLA: L’OPERA FALLITA
Sulla storia e sulla fine del rapporto Cézanne/Zola molto è stato
scritto. Indagare sugli scambi intercorsi tra loro - lettere,
ricordi, poemi - può però ancora riservare sorprese. Quelle rive
dell’Arc ripercorse da Cézanne sul finire della vita erano le
mute depositarie di felici trascorsi con il compagno della
giovinezza, la cui partenza aveva provocato «una cupa tristezza»
(«Non mi riconosco più, sono pesante, torpido e lento […] piango
per la tua assenza». I ricordi in quegli anni Cézanne li blocca
nei versi acerbi di un poema spedito nell’aprile del 1858, che
descrivono rubati passatempi, sogni, discorsi di adolescenti in cui
fantasie bucoliche e visioni di fanciulle (immancabili ninfe
accondiscendenti) convivono con boccaccesche conclusioni goliardiche
e imprescindibili doppi sensi.
«Addio, belle giornate / Dal vino accompagnate! / Che pesche
fortunate / Di pesce spaventoso! / Quando nella mia pesca / Lungo la
riva fresca / Nulla sull’aspro legno / Prendevo di mostruoso»,
così recita il giovane rimasto a Aix, che si attarda anche a
descrivere lo scenario di quelle giornate: «Ti ricordi il pino
sulla riva dell’Arc, che protendeva la testa chiomata sopra l’abisso
che si apriva ai suoi piedi? Quel pino che col suo fogliame
proteggeva i nostri corpi dall’ardore del sole…». Cézanne
quando scrive ha diciannove anni, ma la scena ritorna dipinta anni
dopo, nella Pastorale, un quadro collocato nel 1870 circa.
Sicuramente suggestionato dal Concerto campestre di Tiziano e
dal Déjeneur sur l’herbe di Manet, il dipinto sembra
essere proprio l’evocazione elegiaca di quei piaceri giovanili
messi in versi, di quelle «belle giornate / dal vino accompagnate»
(che nel quadro è messo in fresco in acqua), quando i componenti
della «Trinità» (come Cézanne appella il trio formato da se
stesso, Zola e Baille in una lettera del 26 luglio 1858) si
sdraiavano sotto «il pino sulla riva dell’Arc» - evocato dalla
chioma larga accennata a sinistra della tela- a fumare, a pescare,
ma soprattutto a fantasticare di donne e di proibiti accoppiamenti.
Donne che forse avevano i volti di ragazze conosciute, ma più
probabilmente le sembianze sognate e messe in versi da Cézanne, che
- sempre «nel fondo di un bosco» - vede comparire una fanciulla
con «grazie stupende», venuta «da terre della notte / per
rendermi felice».
Una felicità poco stilnovista, che i versi dimostreranno consistere
in vogliose richieste avanzate dall’apparizione, dotata di
appetiti molto terreni. Presenze, apparizioni, incontri auspicati
dai tre giovani che nel dipinto denunciano negli abiti e nel volto
invecchiato il tempo trascorso da quei placidi convegni in cui le
fantasie divenivano forse più ardite se stimolate dal vino. E’
ovvio dunque che i tre appaiano “inibiti” - e privi di ogni
ragionevole iniziativa all’approccio - di fronte alle tre “ninfe”
che esibiscono le loro «grazie stupende», essendo in realtà
visioni che ora si perdono nel ricordo, come allora volavano
lontano, «su nel cielo, portate da Zefiro». Il ricordo di quelle
evocazioni femminili, ma soprattutto dell’intensa amicizia
maschile che anche Zola ricorderà ne L’opera, forse
confortava un Cézanne piegato dallo sconforto dell’insuccesso,
ormai trentenne quando dipinge Pastorale.
Abituato a inviare allo scrittore sciarade e rebus, esercizi
letterari da risolvere in forma epistolare, Cézanne elabora alcune
scene riconducibili a quella condivisione di letture, discorsi e
riferimenti ai loro componimenti dilettanteschi, spesso incentrati
su un erotismo cameratesco. La cruda e spesso cruenta atmosfera
rilevata nei suoi dipinti “erotici” degli anni Sessanta-Settanta
rispecchia una visione del sesso, dell’erotismo e della donna -
condivisa da Zola - disincantata e dura, laddove interviene una
critica sconfinante con il disprezzo per quelle “ninfe” che
avessero concesso i tanto agognati favori.
La versione di Canberra de Il pomeriggio a Napoli,
ultima di tre redazioni collocate in un periodo che va dal 1870 al
1877, presenta una scena di forse ironizzato erotismo, in cui la
coppia distesa sembra essere offerta alla visione dalla figura che
solleva la tenda mentre entra portando una bevanda ristoratrice ai
due giovani impegnati nelle fatiche d’amore. Il servo nero
appartiene a quel mondo di portatori di cibo che compare nel
Festino, richiama immediatamente il mondo esotico degli harem,
dell’Oriente di Sardanapalo, della Cartagine di Salammbô: un “altrove”
che nella cultura figurativa francese dell’epoca corrisponde al
regno dell’orgia, della sfrenata liberazione dei sensi nel cibo e
nel sesso. Perché quando Cézanne dipinge le sue scene erotiche,
non osa mai collocarle nella vita reale: sono sogno (Pastorale),
allegoria (L’eterno femminino), mito violato (Lotta d’amore),
trasfigurazioni esotiche (Il festino, Pomeriggio a Napoli),
distaccandosi in questo dal realismo zoliano.
La scena del Pomeriggio a Napoli è orchestrata come su un
palcoscenico, in cui il sipario alzato dal servo negro rende
visibile allo spettatore (nascosto) una scena altrimenti destinata a
rimanere segreta, e sembra una parodia figurata della scena
descritta da Zola nel poema giovanile L’Amoureuse Comédie,
scritto nel 1859 e probabilmente noto a Cézanne - visti gli scambi
di versi - prima della sua pubblicazione in appendice al volume di
Paul Alexis, Emile Zola. Notes d’un ami, del 1882. Versi
giovanili, che Zola non può rileggere «senza sorridere. Sono molto
deboli e di seconda mano», resi noti per scoraggiare «i poeti
inutili»; un intento “didattico” che Cézanne conosceva, al
quale doveva l’abbandono delle proprie aspirazioni letterarie a
favore dell’espressione pittorica. Versi giovanili, che il pittore
ancora apprezza decenni dopo la loro scrittura, come racconta ad
Alexis in una lettera che commenta il volume appena uscito: «So di
non dirti niente di nuovo parlandoti della materia meravigliosa che
si trova nei bei versi di colui che continua a essere nostro amico.
Ma sai che li amo. Non dirglielo. Direbbe che sono conciato male.
Questo, detto fra noi e sottovoce».
In una sezione del poema di Zola si narra la storia tragicomica di
Rodolpho, un giovane innamorato che va inatteso dall’amata Rosita.
E’ notte e Rodolfo spinge la finestra semiaperta della stanza
della fanciulla; il buio permette solo di intravedere l’interno,
si sente un brusio di baci, e «in una coppa un profumo d’Oriente
/ […] brucia e si spande in una nuvola odorosa. / Le bottiglie
erano pronte, la camera piena di fiori». Rodolpho spera che Rosita
dorma e l’attenda, un’illusione che coltiva nonostante i chiari
indizi: «un abbraccio amoroso fa sussultare il letto, / un rumore,
un lungo bacio risuona nell’ombra». Ma comincia ad avere qualche
dubbio, quando non riconosce il bianco corpo e i biondi capelli dell’amata:
«… Eppure, lei è bionda. Che sono questi capelli / così neri,
che ricadono sulle sue braccia a lunghe onde? / Tu conosci bene la
sua voce. E allora cos’è questo mormorio / che si alza dal letto,
e non le somiglia? / Lei ha dunque dei piedi così robusti e le
gambe così vigorose? / Il suo seno non è dunque bianco come il
latte? / E le sue spalle non sono dunque seriche, / Perché ti
appare sul letto un corpo bruno e muscoloso?».
La descrizione di Zola è già molto rispondente alla scena
allestita da Cézanne, ma compaiono nel poema anche l’allusione al
clima vagamente orgiastico, allo spettatore che guarda non visto, a
quella tenda che il pittore fa scostare dalla comparsa nera, mentre
in Zola è Rodolpho che, «con un gesto fremente scosta la tenda»,
e vede «Rose che si avviluppa e si contorce fra le braccia di un
amante. / I miei amici mi prenderanno in giro: avevano dunque
ragione, / Io piango e mi cadono le braccia. / E con avidità io
guardo l’orgia». Zola descrive la coppia impegnata nei gesti d’amore
(«Oh, con quale tenerezza Rosita lo abbraccia / Con quale passione
lui risponde alle sue carezze»), l’orribile sorpresa di Rodolpho
nel riconoscere nel letto di Rosita l’amico Marco, la sua
ostinazione a guardare attraverso la tenda, l’ira nel cogliere in
flagrante l’amata dalla pelle chiara («il tuo corpo è di
latte») e il tragico finale: Rosita è uccisa con la spada, il
fedifrago Marco con quattro colpi di coltello, Rodolpho si consuma
fra le braccia di una sgualdrina.
Di questo dramma sull’inaffidabilità femminile, Cézanne
restituisce il clima del boudoir con i profumi d’Oriente (usa lo
stesso contenitore d’oro del Festino cartaginese) collocati
nella nicchia bordata di verde, mantiene le caratteristiche fisiche
della coppia sul letto (lei dalla pelle chiara e i capelli biondi,
lui con la capigliatura scura, il corpo nervoso, i piedi robusti
messi in primo piano), e inserisce il servo nero, a indicare il
clima da festino orientale, da “orgia”, ma potrebbe essere,
quest’introduzione, la sua personale chiosa beffarda, il commento
disincantato che sostituisce il dramma finale con un più grottesco
epilogo, con quella bevanda portata a ristoro dei due traditori.
Soprattutto, Cézanne ricorda la parte da voyeur giocata da un
invisibile Rodolpho con la tenda scostata che permette la visione
all’amante tradito. Usa come artificio figurativo quel domestico
diaframma erotico che sostituisce il cespuglio, nascondiglio
privilegiato di satiri, dèi e uomini a caccia di ninfe e dee
distratte. Cézanne non disdegna il cespuglio (presente nel dipinto
appartenuto al dottor Gachet con le Bagnanti sorprese da un
passante del 1870 circa) ma preferisce per i suoi disvelamenti
quella tenda dipinta da Tiziano in Diana e Atteone, da
Natoire in Amore e Psiche nell’Hotel de Soubise, da Boucher
in Venere e Marte sorpresi da Vulcano, armamentario
mitologico che sostituisce con un più prosaico diaframma borghese,
come già aveva fatto Manet nell’Olympia.
L’amicizia tra Cézanne e Zola finisce nel 1886 con la
pubblicazione di L’opera. Nel tratteggiare la figura dell’eroe
positivo del suo romanzo, il giornalista e romanziere Sandoz, Zola,
indulgente e ammiccante con se stesso, narra le proprie esperienze
giovanili, espone i propri convincimenti estetici, descrive le
proprie abitudini. Entrambi sono di nascita provenzale (Sandoz di un’immaginaria
Plassans, Zola di Aix), figli di un immigrato (spagnolo il padre di
Sandoz, un ingegnere veneziano quello di Zola), confortati nei
difficili inizi parigini da madri vedove amorevolmente assistite.
Ricevono gli amici artisti nello stesso giorno, il giovedì, amano
gli stessi poeti, indulgono nell’elaborazione di raffinati menù.
A Sandoz Zola affida anche la propria riluttante sufficienza verso
il giornalismo («Il giornale, vedi, è soltanto un campo di
battaglia. Bisogna vivere e per vivere bisogna battersi…»), e lo
dota della stessa alacre dedizione al lavoro (il motto di Zola era
«nulla dies sine linea», imperativo che nel romanzo viene
sintetizzato in chiusura nella frase pronunciata da Sandoz,
«Andiamo a lavorare», subito dopo aver seppellito l’amico
Lantier in quel «cimitero delle capitali democratiche, dove i morti
sembrano dormire in fondo a casellari d’ufficio»).
Se riconoscere Zola nella figura di Sandoz è un facile esercizio di
giustapposizione, più complesso è smontare il puzzle di
personalità artistiche che prestano le loro opere, le loro paure o
follie alla figura negativa del romanzo, Claude Lantier: certo,
Lantier è il Manet del Déjeneur sur l’herbe, che presta i
personaggi al Plein air di Lantier; certo, Lantier è il
Monet degli Scaricatori di carbone del 1871, quando descrive
il porto Saint-Nicolas e i suoi lavoratori; certo, Lantier è il
Moreau delle eroine luminose nella loro nudità, quando dipinge
quella donna «tutta dritta, nuda a prua, una nudità così
sfolgorante che irradiava come un sole». Ma soprattutto Lantier è
Cézanne.
Un brutto libro e completamente falso, così Cézanne giudicò L’opera.
Del tutto falso non era. E le similitudini tra Cézanne e il pittore
del romanzo non si limitano all’origine provenzale e alla
predilezione per la «minestra di vermicelli all’olio, tanto cara
a Lantier», come scrive a Zola dopo aver letto L’assommoir.
Cézanne come Lantier subisce il rifiuto continuo alla sua
partecipazione al Salon, che lo porterà a scrivere al
soprintendente alle Belle Arti parole che ricordano l’atteggiamento
di Lantier. Cézanne come Lantier è capace di isolarsi per anni
nella solitudine eremitica di una campagna, ben più lontana dai
dintorni parigini in cui fugge l’eroe di carta. Cézanne come
Lantier non possiede il dono dell’equilibrio, e non esita a
riconoscerlo nella sua corrispondenza con Victor Choquet: «avrei
desiderato avere quell’equilibrio intellettuale che vi
caratterizza e vi permette di raggiungere con sicurezza lo scopo. […]
Il caso non mi ha dato un simile equilibrio, ed è l’unica cosa
che rimpiango sulla terra» Cézanne come Lantier è il genio che si
perde nel «sogno consolatore dell’opera futura»
Zola aveva dunque aperto il vaso di Pandora di quel rapporto,
piegato all’esigenza narrativa, fino a renderle drammaticamente
grottesche, alcune debolezze e fragilità caratteriali dell’amico.
E’ un mondo che si chiude, per Cézanne, un rapporto che archivia
come quei «morti [che] sembrano dormire in fondo a casellari d’ufficio»,
con un’epigrafe breve e amareggiata. Zola, a dieci anni di
distanza, nel 1896, dimostrerà di non saper ancora riconoscere la
grandezza dell’amico - al quale forse rimprovera proprio l’assenza
del “capolavoro”, pur avendo alcune genialità -, con una frase
in un articolo comparso su “Le Figaro”: «Ero cresciuto quasi
nella stessa culla con il mio amico, il mio fratello, Paul Cézanne,
di cui solo oggi ci si accorge di scoprire delle parti geniali in un
grande pittore abortito».

Il golfo di Marsiglia visto da L'Estaque, 1885 ca.,
olio su
tela, 73x100 cm. (The Metropolitan Museum of Art, New York)
E’ il suo giudizio poco lusinghiero su Cézanne
pittore, già garbatamente espresso nel corso degli anni in poche
righe sbrigative oppure con macroscopiche omissioni di citazione. E
se nella recensione alla I mostra impressionista riconosce che, «ha
un vero temperamento di grande pittore», pochi anni dopo, nel 1876,
sembra in attesa di una prova risolutiva: «Paul Cézanne è senza
dubbio il più grande colorista del gruppo [impressionista]. Ci sono
di lui, alla mostra, dei paesaggi di Provenza del più bell’aspetto.
Le tele così forti e così vere di questo pittore faranno forse
sorridere i borghesi, ma mostrano tutti gli elementi di un
grandissimo pittore. Il giorno in cui Paul Cézanne sarà
completamente padrone del suo talento, allora farà dei
capolavori». Nel 1880 non nasconde una certa delusione quando
afferma: «Paul Cézanne, un temperamento di grande pittore che sta
cercando il suo stile, rimanendo ancora vicino a Courbet e Delacroix
».
Convinto del proprio giudizio, teneva i quadri di Cézanne chiusi in
un armadio, come raccontò a Vollard. Erano soprattutto dipinti
giovanili, collocabili negli anni Sessanta/Settanta. Il ratto
è un’opera del 1867, e certamente non raffigura un rapimento:
nella scena con il giovane che trasporta il corpo di biancore
cadaverico di una fanciulla («un cumulo di braccia e gambe»,
secondo Meier-Graefe), mentre intorno si muovono ninfe indifferenti,
manca infatti quella concitazione propria di ogni rapimento; domina
invece la sospesa atmosfera presente nel tentativo fallito di Orfeo
di trarre Euridice dagli Inferi, o in quello riuscito di Ercole che
salva Alcesti. La pendola nera in collezione Niarchos è del
1870 circa, una tela dedicata all’orologio sopra il camino che era
tra gli arredi di casa Zola e che comparirà anche in casa Sandoz.
Un capolavoro - percepito come tale già da Rilke che lo ammirò
alla retrospettiva del Salon d’Automne del 1907 -, in cui compare,
inamidata e irrigidita, la tovaglia bianca usata da Manet per la sua
Natura morta con salmone (1866, Shelburne, Vermont, Shelburne
Museum), di cui Cézanne mantiene, spostandolo a sinistra, anche il
bordo rialzato; domina nella tela il gioco di contrasti cromatici
tra il nero della pendola, il blu del fondo e la tela bianca in
primo piano, che si accompagna a quello tra le rette dello specchio,
della pendola, del piano orizzontale e le linee curve della
gigantesca conchiglia, del limone e del vaso. Erano poi in casa
dello scrittore i due dipinti con Paul Alexis che legge a Zola
(uno in collezione privata svizzera, l’altro al Museu de Arte di
San Paolo), del 1869-1870, incerti controcanti al ritratto di Manet.
Il primo rivela un impianto di ascendenza romantica, alcuni
riferimenti a un dipinto di Delacroix oggi alla Kunsthaus di Zurigo,
in cui Milton è impegnato a dettare il Paradiso perduto; si
ritrova, un po’ nascosta dal profilo possente di Zola, la pendola
nera e si vede invece interamente la terracotta di cui nella natura
morta era indicata solo la base. Il secondo ritratto, incompiuto,
rimarrà addirittura dimenticato per anni nella soffitta di Médan -
la proprietà sulle rive della Senna a nord-ovest di Parigi che
Cézanne aveva ritratto in numerose tele - e non verrà incluso
nella vendita all’asta organizzata nel 1903 all’Hôtel Drouot,
un anno dopo la morte di Zola. La “dimenticanza” di Zola è
comprensibile: il suo pensiero estetico infatti trova un
corrispettivo deciso nel Manet che lo ritrae “finitamente”,
dotato di tutti gli attributi previsti dalla ritrattistica di
ascendenza rinascimentale, esibiti a raccontare la sua attività
intellettuale: la scrivania allestita con gli strumenti di lavoro,
il saggio dalla copertina azzurra dedicato a Manet, il paravento
giapponese e la stampa di Kuniachi che testimoniano il comune amore,
dello scrittore e del pittore, per quell’arte appena sbarcata in
Europa, la riproduzione dell’Olympia, difesa con ardore dal
letterato. Di tono troppo diverso il lavoro di Cézanne, così teso
a restituire dell’amico (questa volta ritratto di fronte, mentre
Alexis compare di profilo) un’immagine più domestica, meno
ufficiale, nella posa da odalisca in riposo, suggerita forse dall’arredamento
orientalista, pieno di “giapponeserie” ma anche di mobili
arabeggianti, dello studio dello scrittore.
Non sembra dunque essere stato il tempo a dissolvere la relazione
tra Cézanne e Zola, che aveva trasformato le intense comunicazioni
giovanili in scabre richieste di denaro avanzate con cadenza mensile
da un Cézanne ormai quarantenne, o di supporto morale a un Cézanne
timoroso della figura paterna al punto da occultare la nascita del
figlio. Né le diverse posizioni di impegno/disimpegno sociale: Zola
sarà un protagonista che non temerà il rischio totale con l’affare
Dreyfus, fino forse a mettere in gioco la vita stessa (esistono
ancora dubbi sulle cause, forse non accidentali, della sua morte,
avvenuta nel 1902 per asfissia nella casa parigina); Cézanne
rifugge ogni pericolo, quello della guerra quando nel 1870 ritorna
all’Estaque in pieno conflitto franco-prussiano, o quelli latenti
del porto di mare quando cerca a Marsiglia una casa «in un
quartiere dove non ci siano troppi omicidi».
Piuttosto, a separarli furono le diverse concezioni della forma dell’Opera,
che matureranno in due direzioni opposte. Il Cézanne che può
dialogare con Zola è quello giovanile, curvilineo e sferoidale
nelle forme così come lo è Zola quando ritrae la realtà a tutto
tondo; è il Cézanne precedente a quello classico che arriva alla
sfaccettatura della forma, al non finito moderno, al suggerimento
piuttosto che alla restituzione totale.
BALZAC: L’OPERA NON FINITA
Se Claude Lantier suscitò il disarmante disagio di Cézanne,
Frenhofer, il protagonista del Capolavoro sconosciuto, un
breve racconto scritto da Balzac nel 1832, era invece riconosciuto
come un “alter ego”, raffigurato in un disegno del 1868-1871
come un pittore abbigliato all’antica nell’atto di mostrare a
uno spettatore la sua tela, scena che potrebbe rappresentare il
drammatico finale del racconto. Strana identificazione - dichiarata
in gioventù e ribadita a Bernard -, perché anche in questo caso l’artista
è portato al suicidio, «dopo aver bruciato le sue tele», dal
fallimento di un’opera impossibile. In realtà, troppi sono gli
elementi di contatto tra le storie di Lantier e Frenhofer per non
supporre che Zola non abbia fatto riferimento a quel testo: a parte
l’epilogo, anche il personaggio di Christine - la moglie di
Lantier che vede sopraffatta la propria identità di donna da quella
di modella - sembra ricalcare la balzachiana figura di Gillette.
Nell’opera di Balzac si narra la paradossale vicenda di Frenhofer
(stupendo personaggio dal volto di un Socrate che a vederlo sembrava
«una tela di Rembrandt [che] camminasse silenziosamente e senza
cornice»), che con accanimento lavora a un’opera infinita. Quando
l’artista, cedendo alle insistenze dell’amico Porbus e del
giovane Nicolas Poussin, mostra loro il quadro, questo appare come
«un pasticcio di colore chiaro», opera di un pazzo. In realtà,
del testo di Balzac Cézanne probabilmente apprezza alcune di quelle
incisive affermazioni sull’opera d’arte ideale declamate da un
Frenhofer che nel furore dell’esposizione si muove come «un
organista di cattedrale». Non è difficile riconoscere il processo
creativo di Cézanne, lento e paziente, nell’incitamento di
Frenhofer a calarsi nell’intimo della forma con «amore e
perseveranza», perché: «La bellezza è cosa severa e difficile,
che non si lascia conquistare alla prima: bisogna aspettare il
momento in cui sia ben disposta, spiarla, starle alle costole e
legarla solidamente per costringerla alla resa. La forma è un
Proteo ben più inafferrabile e ben più ricco di trappole di quello
della favola: solo dopo lunghe lotte è possibile costringerla a
mostrarsi nella sua vera sembianza. Voi vi contentate di come vi si
mostra al primo aspetto, tutt’al più al secondo o al terzo: non
è così che si comportano i lottatori vincenti! I pittori invitti
non si lasciano ingannare da nessun sotterfugio, ma insistono fin
quando la natura non sia obbligata a mostrarsi nuda in tutta la sua
verità» Una dedizione perseguita da Cézanne ostinatamente, che
nel 1903 scrive a Vollard: «Ho fatto qualche progresso. Perché
così tardi e così a fatica? Non sarà l’arte, in effetti, un
sacerdozio, che richiede dei puri totalmente votati a lei? ».
Ma soprattutto è la poetica del frammento, dell’opera non finita,
a costituire un precoce antecedente a certe conclusioni che Cézanne
esporrà a Bernard nel 1905. Nell’accanimento verso un’ideale
perfezione, Frenhofer distrugge il suo dipinto, ma un piede, il
frammento di un corpo che sfugge ai continui ripensamenti, riesce a
salvarsi, capolavoro nascosto dalla muraglia di colore:
«Avvicinandosi, essi videro in un angolo della tela la punta d’un
piede nudo che sbucava da quel caos di colori, tonalità, sfumature
indecise, simile a una nebbia informe: ma un piede delizioso, un
piede vivo! Restarono pietrificati d’ammirazione davanti a quel
frammento sfuggito a un’incredibile, lenta, progressiva
distruzione: quel piede stava là come il torso d’una Venere in
marmo di Paro che si innalzasse in mezzo alle rovine di una città
incendiata». Il frammento di Frenhofer e il non finito di Cézanne,
la fragile tessitura dei suoi ultimi lavori dalla consistenza vitrea
che si spezzerebbe con la sola aggiunta di un’altra pennellata,
nascono dalla stessa impossibilità a restituire un’interezza che
sfugge: «Per me, vecchio di quasi sessant’anni - scrive nel 1905
-, le sensazioni di colore che generano la luce sono causa di
astrazioni che mi impediscono di comporre la tela e di raggiungere
il limite degli oggetti quando i punti di contatto sono tenui,
delicati; per questo accade che l’immagine o il quadro siano
incompleti»
E’ il trionfo della riduzione, dell’opera liberata dall’orpello
della finitura, in grado di restituire la frammentarietà dell’idea
originale ma anche la completezza di una riflessione talmente
profonda da essere in grado di sciogliere, spezzare, ogni “accidente”
dell’apparenza per giungere all’essenza. E’ un processo
creativo che si riconosce nella scultura di Michelangelo e Rodin,
fino alla struttura ridotta a note sparse, alla distruzione del
contorno, alla pennellata interrotta di Cézanne, e che trova un
corrispettivo in diverse esperienze letterarie del Novecento,
laddove è l’affabulazione a dominare. Quale fosse il legame
teorico tra Frenhofer e Cézanne, è sottolineato da due poeti,
Rilke e Pound. La lettura dell’opera di Pound come equivalente
letterario al lavoro di Porbus e Cézanne è nel saggio di Yeats Una
visione, pubblicato nel 1925, dove, in apertura del libro, è
descritta una visita al poeta statunitense, allora sulla costa
ligure, a Rapallo, «in certe stanze che danno su un tetto a
terrazza sulla riva del mare». Su quel terrazzo, «che è anche un
giardino», Pound illustra all’amico la segreta architettura dei Cantos,
l’«immenso poema» a cui sta lavorando, in cui «non ci sarà
intreccio, né cronaca di eventi, né logica di discorso» e che una
volta terminato «rivelerà una struttura simile a quella di una
fuga di Bach». In quest’opera titanica - scrive Yeats riportando
il pensiero di Pound - «ha cercato di fare quel quadro che Porbus
raccomandava a Nicolas Poussin nel Chef-d’oeuvre inconnu,
dove tutto si sviluppa o si espande senza spigoli, senza contorni -
convenzioni dell’intelletto - da una chiazza di tinte e di ombre;
ha cercato di compiere un’opera caratteristica dell’arte del
nostro tempo come i quadri di Cézanne, che si richiamano
apertamente a Porbus».
«Devo lavorare sempre, ma non per arrivare al finito, che suscita l’ammirazione
degli imbecilli. Ciò che il volgo apprezza maggiormente non è che
il risultato del mestiere di un artigiano, e rende ogni opera non
artistica e banale»: questo è l’obiettivo di un giovane Cézanne
trentacinquenne, che ritiene di aver raggiunto alla fine degli anni
Novanta, quando scrive a Gasquet: «…Forse sono venuto troppo
presto. Ero il pittore della vostra generazione più che della
mia».
FLAUBERT: L’OPERA CIRCOLARE
Isolato in Provenza, lontano dalla moglie Hortense e dal figlio Paul,
che preferiscono vivere a Parigi, Cézanne ritrae la montagna
Sainte-Victoire, il giardiniere Vallier, le bagnanti esauste, mille
varianti di mele in continue e meditate versioni. Fu per questo che
Monet definì lo scontroso amico «il Flaubert della pittura, un po’
goffo, ostinato, grande lavoratore, a volte esitante come un genio
che lotta per affermare se stesso».
Silenziosi isolamenti, stesure spossanti, cancellature, riscritture,
approfondite consultazioni bibliografiche, continui dubbi sui
risultati raggiunti: come Cézanne, Gustave Flaubert conosceva
processi creativi lunghi e tormentati. Scriveva ritirato nella casa
di Croisset, dove si era stabilito nel 1845 dichiarando: «Mi
rimetterò dunque, come in passato, a leggere, scrivere,
fantasticare, fumare»; Parigi è la scena ideale, invece, per gli
incontri mondani, editoriali e processuali. Impiega quasi trent’anni
per giungere nel 1874 alla redazione finale della Tentazione di
sant’Antonio, ispirata da un quadro di Bruegel visto a Genova
nel 1845; cinque anni per scrivere Madame Bovary, dal 1851 al
1856, e cinque anni per Salammbô, dal 1857 al 1862, questi
ultimi trascorsi consultando più di cento volumi di storia,
archeologia e trattati militari, immerso «sempre nella sua
Cartagine, vivendo laggiù rintanato in casa e sprofondato in un
lavoro da bue», raccontano i fratelli Goncourt; unica concessione,
un viaggio in Tunisia nel 1858, per documentarsi sui luoghi
descritti nel romanzo.
«Ho avuto ieri notizia dell’infelicissimo evento della morte di
Flaubert”, scrive un accorato Cézanne a Zola nel maggio 1880.
Dello scrittore subiva talmente il fascino, da associargli una
cromia, «un tono alla Flaubert», tra il rossiccio e il bluastro,
quel colore purpureo che durante la stesura di Salammbô
aveva ossessionato lo scrittore, come racconta in una lettera a
Jules Duplan dell’ottobre 1857: «Credo che la parola porpora o
diamante sia presente in ogni frase del mio libro». Questa netta
suggestione flaubertiana è apertamente dichiarata dal pittore a
Gasquet, quando ricorda la genesi di La vecchia con rosario,
un dipinto del 1895-1896 che donò allo scrittore. La modella era un’ex
suora, che a settant’anni aveva scavalcato con una scala il muro
del convento e aveva gettato l’abito; Cézanne l’aveva accolta
ed era divenuta la sua domestica: «lo derubava spudoratamente,
rivendendogli, per pulire i pennelli, gli asciugamani e le lenzuola
che aveva lacerato mormorando le litanie; continuava a tenerla,
però, chiudendo gli occhi per pura carità».
Un ritratto terragno, che nasce dal ricordo di una comparsa di Madame
Bovary: «Lei sa che quando Flaubert scriveva Salammbô -
racconta Cézanne - diceva che vedeva tutto purpureo. Ebbene! Mentre
dipingevo la Vecchia con rosario, io vedevo un tono alla
Flaubert, un’atmosfera, un qualcosa di indefinibile, un colore
bluastro e rossastro che emana, mi sembra, da Madame Bovary.
Mi ero messo a leggere Apuleio per cacciare quell’ossessione che
temevo pericolosa, troppo letteraria. Non cambiava niente. Quel gran
blu rossastro mi seduceva, mi cantava nell’anima. Mi ci immergevo
tutt’intero [...]. Scrutavo tutti i particolari delle vesti, la
cuffia, le pieghe del grembiule, decifravo il viso ipocrita. Fu solo
dopo che potei constatare come il volto fosse rossiccio, il
grembiule bluastro e allo stesso modo fu solo dopo aver completato
il quadro che mi ricordai della descrizione della vecchia domestica
all’assemblea dei coltivatori». Il legame era forse innescato
dalla storia dell’ex suora modella di Cézanne e un aggettivo,
«monacale», che Flaubert usa nella descrizione della benemerita
Catherine-Nicaise-Élisabeth Leroux, «... una vecchietta dall’aria
impaurita, che pareva rattrappirsi nei suoi miseri panni. Aveva ai
piedi grossi zoccoli di legno e sui fianchi un grembiulone blu. Il
volto magro, incorniciato da una cuffia sfrangiata, era solcato di
rughe più di una mela renetta vizza, e dalle maniche della rossa
casacca di cotone spuntavano due lunghe mani nodose alle
articolazioni. […] Un’ombra di rigidezza monacale
sottolineava l’espressione di quel viso. Nulla di triste né di
tenero raddolciva quel pallido sguardo».
In una lettera scritta all’amico Schuffenecker nel gennaio 1885,
Gauguin parla di un lato della personalità di Cézanne che deduce
dallo studio grafologico che stava facendo in quel periodo. Nell’artista
egli vede «la natura essenzialmente mistica dell’Oriente [...],
nella forma egli predilige il mistero e la pesante tranquillità di
chi dorme per sognare, il suo colore è grave come il carattere
degli orientali». Un’intuizione non peregrina, perché se
Cézanne rimane quasi indenne di fronte all’Oriente giapponese che
dilaga nell’opera dei suoi contemporanei, assimila invece l’immagine
di quell’Oriente, più cruento e letterario, apprezzato anche da
Flaubert, da quest’ultimo vissuto attraverso un’esistenza “millenaria”
che descrive a George Sand: «Sono stato battelliere sul Nilo,
lenone a Roma al tempo delle guerre puniche, poi retore greco nella
suburra dove ero divorato dai pidocchi. Sono anche morto durante una
crociata per aver mangiato troppa uva sui litorali della Siria. Sono
stato pirata e monaco, saltimbanco e cocchiere. Forse imperatore d’Oriente».
Due testi “orientalisti” di Flaubert, Salammbô e Le
tentazioni di sant’Antonio, presentano delle connessioni con
alcune opere cézanniane.
Salammbô era stato pubblicato nel 1862 e pochi anni dopo,
intorno al 1867, Cézanne inizia un quadro che fu esposto nel 1895
da Vollard con il titolo Il festino, solo successivamente
ribattezzato L’orgia. Il pittore descriverà il dipinto a
Joachim Gasquet come «una grande ondulazione colorata [...] un
abisso in cui l’occhio sprofonda, una sorda germinazione», dove
vi è una sensualità violenta, un alone di morte e lussuria, una
profusione di corpi, di carne, di vasellame, di tendaggi sontuosi.
Varie letture e referenti sono stati avanzati per questo dipinto; ma
il confronto più convincente è con i banchetti cartaginesi
descritti da Flaubert. In Salammbô, il romanzo che si snoda
intorno alla storia della rivolta dei mercenari contro Cartagine (un
episodio avvenuto nel 241 a. C. e narrato da Polibio nel primo libro
delle Storie), sono descritti due banchetti, uno nel primo
capitolo e uno nell’ultimo: un dittico orgiastico apre e chiude il
romanzo che nelle intenzioni di Flaubert doveva essere una
«resurrezione plastica» di Cartagine, sprofondata negli abissi
della guerra, della sensualità, del sadismo.
Il primo banchetto è quello dei mercenari, introdotto con
magistrale sintesi: «Accadde a Megara, quartiere di Cartagine, nei
giardini di Amilcare». E’ nella descrizione di questo convito che
compaiono alcuni primi elementi rintracciabili nel dipinto: il
«velario di porpora a frange d’oro, disteso dal muro delle
scuderie alla prima terrazza del palazzo», diventa nel quadro un
velario dai riflessi di porpora; il palazzo «di marmo numidio
screziato di venature gialle» diventa giallo ocra; ritroviamo «gli
schiavi delle cucine, spaventati e seminudi», i «crateri pieni di
vino, anfore piene d’acqua» e perfino i piatti gialli sono
ripresi da Flaubert, che li descrive come «piatti d’ambra
gialla». Rimane l’atmosfera della crapula dei soldati che «se ne
stavano sdraiati sui cuscini, mangiavano accovacciati intorno ai
grandi vassoi, oppure, sdraiati sul ventre, afferravano i pezzi di
carne e si saziavano appoggiati sui gomiti, nella placida posizione
dei leoni intenti a sbranare la preda».
Non partecipano donne, a questo primo banchetto. Cézanne dunque
fonde gli elementi del primo banchetto con le presenze descritte nel
secondo, quello di chiusura del romanzo, il convito orgiastico e
sanguinario tenuto dai cartaginesi dopo aver sconfitto tutti i
nemici: «quel giorno - scrive Flaubert - il principio femminile
dominava e confondeva tutto: una mistica lascivia si diffondeva nell’aria
greve; già le fiaccole cominciavano ad accendersi in fondo ai
boschi sacri; nella notte si sarebbe svolta una prostituzione
generale; tre navi avevano portato cortigiane dalla Sicilia, e ne
erano arrivate dal deserto».
A questo banchetto di Salammbô si ispira anche un olio degli
anni Novanta, La preparazione del banchetto, un dipinto ormai
frantumato nei suoi elementi strutturali, dominato dal velario ora
decisamente di porpora; anche gli oggetti (la grande ampolla dorata
al centro della composizione, e l’anfora azzurra a destra) e i
frutti sparsi sulla tavola richiamano nelle forme e nei colori l’apparecchiatura
flaubertiana: «Grandi ampolle di elettro, anfore di vetro blu,
[...] grappoli d’uva con le foglie [...] e limoni, melograne,
zucche e cocomeri». E ancora: nella sua descrizione Flaubert
indugia a elencare elementi di colore bianco, che è il tono
dominante del dipinto: piatti dai bordi di perle, ceppi d’avorio,
blocchi di neve che si sciolgono nei vassoi, carni sistemate su
conchiglie, vassoi da cui si alzano colombe in volo.
Il romanzo d’altra parte raccontava di un eroe giovanile di
Cézanne, il condottiero cartaginese al quale aveva dedicato nel
1858 (prima dunque della pubblicazione di Salammbô) una
poesia, Sogno di Annibale, in cui il condottiero curiosamente
perde ogni aura di eroismo proprio in un festino, degenerato per il
vino e le donne svergognate: «Al finir d’un festino, l’eroe
cartaginese, / Che un consumo smodato avea fatto del bere / Troppo
rhum e cognac, barcollava, inciampava. / […] Perché sulla
tovaglia dove l’eroe sferrato / Ha un gran pugno, ad ondate il
vino è dilagato. / E le fondine e i piatti e vuote insalatiere /
Rotolarono tristi in limpidi ruscelli / Caldi ancora di punch…».
E immancabile arriva il rimprovero di Amilcare, padre severo e
fustigatore, come il padre del pittore: «Via il cognac, via pur
queste femmine svergognate / Che ci tengon di troppo le anime
imprigionate».
Altra fonte di Cézanne fu il sant’Antonio tentato di Flaubert,
che si muove in un Oriente decadente in cui «pilastri egiziani
dominano templi greci». L’eremita decadente vaga nello spazio e
nel tempo in situazioni allucinate: è ospite in un banchetto alla
corte di Nabucodonosor, in un incontro con la tentatrice regina di
Saba dagli occhi bistrati di nero si permette di rifiutare la
biblica bellezza, da folle di eresiarchi ascolta teorie blasfeme,
intreccia conversazioni con martiri inebetiti dal vino drogato. Dell’entusiasmo
di Cézanne per il testo di Flaubert testimonia ancora Gasquet,
quando narra che, verso la fine degli anni Novanta, «il poeta
Gilbert de Voisins propose al maestro di Aix di illustrare a modo
suo la Tentazione di sant’Antonio di Gustave Flaubert»,
facendo vivere al pittore «una settimana di grande entusiasmo». Il
tema, Cézanne lo aveva già affrontato in diversi oli, da quello
della collezione Bührle datato intorno al 1870, dove tre donne nude
accompagnano la seduttrice che si espone al monaco sullo sfondo,
fino al dipinto oggi al d’Orsay, collocabile nel 1875-1877, dove
la brulla Tebaide è divenuta uno scorcio di Provenza e la donna
flaubertiana avvolta nel broccato e nei gioielli è qui
completamente denudata.
Una tentatrice che è ripresa speculare della Venere che campeggia
nel Trionfo della Virtù del Mantegna, conservato al Louvre:
Cézanne ripropone non solo la posa, ma anche il mantello verde, qui
trasformato in incongruo lenzuolo bianco, che la donna alza sulla
testa, così come il pullulare di amorini ricorda quelli dotati di
ali che introducono la casta Minerva. Cézanne dunque trasforma la
Venere mantegnesca in una Venere sacra, o in una profana regina di
Saba, o piuttosto nell’immagine della Lussuria flaubertiana. A
questa conclusione ci porta il confronto tra due brevi testi, un’annotazione
di Cézanne su un acquerello preparatorio del quadro al d’Orsay e
un brano di Flaubert. Scrive Cézanne: «Del mio corpo radioso vedi
l’incarnato / Antonio; non resistere alla seduzione», echeggiando
le parole della Lussuria che tenta il sant’Antonio: «Non
resistere, io sono onnipotente! Fremono le foreste ai miei sospiri,
le onde s’agitano ai miei soprassalti. La virtù, il coraggio, la
pietà si dissolvono al profumo della mia bocca. Io accompagno l’uomo
passo passo, e sul ciglio della tomba è a me che egli si volge!».
Parole destinate a scuotere il misogino Cézanne, che curiosamente
tra le tentazioni giovanili, nel quadro della collezione Bührle,
aveva inserito anche un uomo: il corpo sgraziato della donna di
destra, infatti, ha il volto dell’amico Zola.
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