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I ricordi migliori sono quelli inventati



Pierre Sterckx



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René Magritte non amava le biografie. Andava dicendo che l’opera di un artista deve smentire la sua vita; deve farla mentire. Non vi sono infatti ricordi migliori di quelli inventati. Andy Warhol confessava di modificare il racconto delle proprie origini ad ogni nuova intervista. In ogni momento, un ricordo-schermo sorge sul cammino di chi parte alla ricerca del tempo perduto (e l’esempio di Proust, in questo contesto, risulta particolarmente opportuno); il pensiero freudiano ha saputo riconoscere la presenza del fantasma proprio nel lavoro della memoria.

Ed è in Magritte e nella sua creazione d’immagini che questa affermazione dello psicoanalista J.-B. Pontalis assume il suo pieno significato: «Non abbiamo ricordi d’infanzia, ma solo ricordi sulla nostra infanzia. Essi non emergono dal passato remoto ma si formano in tarda età. La nostra memoria è una finzione retroattiva, retroattivamente anticipatrice, che appartiene a pieno titolo al regno della Phantasia». Tenteremo, in queste pagine, di ripercorrere tale fantasia seguendo René Magritte nell’«inter-mondo» dove fu vissuta questa vita parallela ch’è la pittura, la sua pittura. Il titolo potrebbe essere: Saggio di biografia romanzesca, la quale sarà intessuta di fatti vissuti, di vicende raccontate, e delle più svariate citazioni teoriche, letterarie e artistiche, accostando in particolare Magritte e Giorgio de Chirico.

Sarà un susseguirsi d’immagini, un racconto immagine. Magritte, ultimo dei Romantici. Quando rievoca i momenti memorabili della sua infanzia, Magritte si limita a tre aneddoti. Nel primo descrive una cassa silenziosa e chiusa posta accanto alla culla. Il secondo racconta del naufragio di un aerostato finito sul tetto della casa di famiglia e il successivo sgombero dell’involucro ad opera di uomini sconosciuti. Il terzo, invece, ci consentirà di amplificare quanto, nei due precedenti, era segno di morte e di inquietante stranezza: «Durante l’infanzia giocavo con una bambina nel vecchio cimitero di provincia. Quando riuscivamo ad aprire le massicce porte di ferro, visitavamo le tombe per poi rispuntare fuori alla luce del giorno, dove un artista venuto dalla capitale dipingeva su un sentiero molto pittoresco, disseminato di colonne spezzate tra le foglie morte. L’arte della pittura mi appariva allora vagamente magica e il pittore dotato di poteri soprannaturali».

La cassa accanto alla culla e la tela della mongolfiera sgonfiata rappresentavano rispettivamente una bara e un sudario. Ed ecco infatti le tombe, la discesa agli Inferi con trasgressione dell’interdizione, le porte di ferro. Per osare questo, il piccolo Orfeo-Magritte è accompagnato da una Euridice sua coetanea. Ed è grazie a lei (in seguito sarà Georgette, incontrata in giovane età) che potrà risalire verso la luce del giorno scoprendo la pittura dai poteri «magici». Bambina e pittore quali forze redentrici. Il vecchio pittore venuto dalla capitale sconvolge l’ambiente tetro e provinciale nel quale si compiace il giovane René ancora molto romantico, amante di rovine e di foglie morte. È già viva la musa surrealista, in un clima melanconico che tale rimarrà per tutta la vita del pittore. Ci sarebbe uno studio da fare su Magritte erede o fratello di Delacroix, di Baudelaire e di Ingres, con tutta quella dimensione di disillusione moderna, dandysmo, morbosità alla Edgar Allan Poe, spleen e somatizzazione, erotismo feticistico e via dicendo. Non solo un richiamo a Friedrich, come fu detto mille volte, ma qualcosa di ben più ampio per cui tutto il surrealismo altro non sarebbe che la continuazione del romanticismo. Torneremo su questo punto, ma è necessario prima saperne di più sul caso singolare di un artista che avrebbe fatto di tutto pur di mantenere segrete le vicende della propria vita.


L'Empire des Lumières (1961), olio su tela, cm 114 x 148
COLLEZIONE PRIVATA

Da dove proviene la ferita profonda di Magritte? Il fatto è ben noto, si tratta di un trauma infantile che lo colpì all’età di tredici anni. Non ne disse mai nulla, nemmeno a Georgette. E se si insiste, dichiara: «Certo, sono cose che non si dimenticano. Questo sicuramente ha segnato la mia vita ma non nel senso che Lei crede. Fu uno choc. Io però non credo né alla psicologia, né alla volontà, che è una facoltà immaginaria […]. La psicologia si occupa di falsi misteri. Non si può dire se la morte di mia madre abbia avuto un’influenza o meno». Magritte si rifiuta di accreditare la tesi secondo la quale il fatto che l’oggetto d’amore materno gli sia stato volutamente sottratto abbia potuto provocare un trauma dalle conseguenze determinanti sulla sua espressione pittorica. La melanconia della madre suicida essendo rimasta inspiegata (la psicoterapia non era diffusa allora come adesso), essa può essersi riversata sul figlio, raggelandolo in una tristezza infinita, un venir meno del desiderio vitale, di cui Magritte reca instancabilmente testimonianza nella sua corrispondenza.

L’atto del dipingere gli appare privo di significato quanto quello di vivere o di morire; si sente vecchio a quarantacinque anni; la gloria e il denaro lo lasciano indifferente; è sopraffatto dalla stanchezza; volentieri somatizza; la quotidianità lo annoia, e via dicendo. Ecco indubbiamente, senza nemmeno dover consultare le sue opere, un artista melanconico. Egli si è pietrificato (ama dipingere le pietre «perché non pensano») nell’esperienza di una perdita di cui non conosce il motivo. Non c’è da stupirsi che Magritte disprezzasse l’analisi freudiana e diffidasse di qualsiasi ricorso all’onirismo: tutto quanto infatti proveniva dall’inconscio profondo avrebbe potuto compromettere il lavoro di filtrazione compiuto con cautela nel territorio ancora preconscio (secondo lui perlomeno) delle immagini. Il lutto spopola il mondo, ha scritto Freud, mentre la melanconia impoverisce l’Io.

A Magritte non manca il popolamento poiché infatti, compiuto apparentemente il proprio lutto, egli ha potuto consapevolmente ripopolare il mondo della sua pittura con oggetti e creature varie, tramite associazioni sorprendenti. Il nucleo di questo macchinario, il fulcro stesso, risulta invece devastato. Può essere anche che Magritte non ami se stesso perché dentro di sé ha ospitato uno spregevole sottrarsi dell’amore materno, un essere difficile da amare. La pittura soprattutto non sia un godimento, nemmeno un piacere! Egli ha eliminato il gioco delle materie, delle tracce e del tocco poiché tale virtuosismo avrebbe dato valore a quanto, per lui, deve rimanere un compito rigoroso, imbrigliato, persino noioso... La pittura sarebbe forse una fredda punizione, un’auto-punizione? Il pudore (che la psicoanalisi chiama «resistenza» e «rimozione») di Magritte a proposito del lutto infantile è quindi assoluto. Egli non dice nemmeno «suicidio di mia madre» ma solo «morte», come a voler scoraggiare chiunque volesse indagare analiticamente in proposito. Il bambino ferito, l’adulto ossessionato viene poi eluso alla fine della citazione: «… un’influenza [su di me? sulla mia pittura?] o meno».

L’unica persona alla quale Magritte abbia confidato questa «Storia centrale» fu l’amico Scutenaire. L’evocazione della tragedia nei versi del poeta ci immerge in un racconto stupendamente cinematografico nel quale seguiamo le impronte lasciate dalla sciagurata nella notte mentre cammina verso il fiume, e il cadavere rinvenuto viene evocato in una scena carica di un erotismo mortifero di stupenda bellezza: la camicia da notte tirata sul viso dalla corrente. Immagine pudica (si copre il viso) e insieme oscena (esibisce tutto il corpo) che forse è alla base di tutte le fantasie magrittiane.Il lento lavoro di lutto. Potremmo pertanto allineare un’impressionante serie di quadri che si dispiegano nell’arco di più decenni e nei quali alle immagini evidentemente dettate dal suicidio della madre subentrano immagini metaforiche. Solo nel 1926 (Magritte è pittore dal 1921) compare il sintomo del lutto. La grande nouvelle (La grande notizia) evoca il momento in cui i figli (Magritte aveva due fratelli) furono svegliati per andare in cerca della madre. La morte è presente, scheletro d’uccello in una cassa.

Lo stesso anno vediamo apparire immagini sempre meno evocatrici della tragica notte: La naissance de l’idole (La nascita dell’idolo) raffigura un balaustro ritto su una sagoma orizzontale, con intorno un oceano scatenato. L’acqua, per Magritte, assumerà per molto tempo le sembianze di un universo lugubre e pericoloso. Solo dopo decenni riuscirà a modificarne la carica simbolica negativa e trasformarla nello schermo azzurro del Séducteur (Il seduttore) da cui scaturisce il veliero d’una eolica libertà. La robe de l’aventure (Il vestito dell’avventura), sempre del 1926, allude esplicitamente a un annegamento. Lo stesso anno però sono Les rêveries du promeneur solitaire (Le meditazioni di un viandante solitario) a fornire più indizi sul suicidio di Régina Bertinchamps, coniuge Magritte, il 24 febbraio 1912. In questo quadro, il cui titolo è ripreso da Jean-Jacques Rousseau (padre del romanticismo) si vede la Sambre, di notte, un ponte fatale, un cadavere livido e la prima apparizione dell’ormai famoso uomo con la bombetta in testa. Magritte confessa di soffrire, e la pittura, senza le parole, lo aiuterà in questo suo lavoro di lutto. Egli soffre e si volta. Volge le spalle all’osservatore e all’immagine insostenibile che lo assilla. Afflitto e solitario. Niente espressione, quindi, in questa scena. Ciò che solo conta è raggiungere un distacco, un’apatia lucida, la distanza sperimentale di un soggetto a-centrato. Che però non è «l’indifferenza», come ha detto egli stesso.

Il lavoro di lutto, il cui processo si può leggere nella Metapsicologia di Freud oppure in Albertina scomparsa di Proust, richiede che chi soffre per la perdita di un essere amato smetta di illudersi: no, egli (ella) non tornerà mai più. In Les rêveries du promeneur solitaire Magritte volge le spalle a un cadavere che giace sospeso (sempre pronto a insinuarsi nella scena della commemorazione, in riva al fiume, di notte). Il corpo della madre amata-desiderata, bella e oscena, affettuosa e traditrice, ha perso la sua identità. È diventato una cosa livida, già scheletro, che non esercita nessun potere di seduzione sul personaggio raffigurato di spalle. Che si possa abbandonare così facilmente? In lontananza, Magritte suggerisce un ponte che possa permettere di andare oltre, di varcare l’ossessivo ritornello del notturno fluire del tempo. Il lavoro di lutto però non conosce alcun cammino rettilineo, nessuna progressione irreversibile. «Sous le pont Mirabeau coule la Seine, Et nos amours, Faut-il qu’il m’en souvienne…» scrisse Apollinaire in una scansione che potrebbe illustrare a meraviglia un quadro di Magritte del 1941, Le mal du pays (La nostalgia), nel quale vediamo un uomo (alato) appoggiato al parapetto d’un ponte con un leone steso al suo fianco.

A tale proposito Magritte parla di «surrealismo sentimentale». Eppure, sei anni addietro, Le pont d’Héraclite (Il ponte di Eraclito), il cui titolo allude alla frase del filosofo greco «Sempre altre sono le acque del fiume», manifestava la volontà di rinunciare alla funzione di linguaggio commemorativo della passerella, al suo ruolo di ponte tra passato e presente. Solo il riflesso del ponte di Eraclito (che si limita a una mezza arcata) viene rappresentato da Magritte come un varco sopra le acque del fiume. Il passaggio, l’eterno ritorno sono impossibili in quanto, di fatto, qui non sarà mai più lo stesso fiume. La melanconia si riduce a un riflesso, oseremmo dire «una riflessione», un’attività speculare e speculatrice, un lavoro di sperimentazione sul visibile e il ricordo, l’arte patetica e impassibile di René Magritte di trasformare il dramma di una Storia centrale in un gioco di sostituzione e mutazione delle immagini.

Il cammino delle metamorfosi. Pertanto, quando l’immagine-madre riapparve talora come un’allucinazione, Magritte la accolse solo avendo riconosciuto in questo spettro ricorrente le forze di una metamorfosi. Il migliore esempio ne fu Les affinités électives (Le affinità elettive) del 1933. La genesi di questo quadro è nota: al risveglio, tra sonno e visione lucida, Magritte crede di vedere nella gabbia del canarino che sta nella sua camera un uovo iperbolico. Un ovolo gigantesco. Un’ovulazione mostruosa. Il principio materno dentro uno spettro bianco. Anziché però lasciarsi spaventare da tale apparizione, come ad esempio in La déesse des environs (La dea dei dintorni) del 1927, dove un uovo ha cosce femminili, o in Le genre nocturne (Il genere notturno) del 1928, dove un grande uovo incrinato è lo specchio di spavento ??? di una donna nuda che si nasconde il viso con le mani, Magritte coglie l’occasione offertagli da questa percezione turbata per inaugurare opere in cui le immagini degli oggetti si associano liberamente nel senso di un divenire «altro» delle cose. E l’uovo, tutt’altro che simbolo dispotico del grembo materno, sarà sempre per Magritte un elemento della questione delle origini, dell’originalità originaria dell’immaginazione. In La clef des songes (La chiave dei sogni, 1930) egli apre il gioco, il rebus del significato, associato alla parola «acacia», segno dell’inizio, così come la A è la prima lettera dell’alfabeto.

Si potrebbe perfino ipotizzare che il sonaglio sia anch’esso un grosso uovo, animato da forze contraddittorie che proiettano l’immagine germinale nella pittura di Magritte. Da una parte il sonaglio sarebbe un embrione cellulare di batrace immerso nella plumbea palude del ricordo. Dall’altra, la linea orizzontale fendente la sfera metallica lo trasforma in segno freddo della sperimentazione, uno sguardo, una feritoia filosofica.

Può il bello essere triste? Sì, se diventa l’oggetto ideale che non deluderà la libido. Qualche cosa (l’estetico) sarebbe immune dall’universalità della morte che colpisce un essere amato, la madre, quello più amato. La bellezza dev’essere «convulsiva» dicevano i surrealisti prendendo la parola a prestito da Baudelaire, secondo il quale l’esperienza artistica aveva a che vedere sia con la convalescenza che con l’infanzia. E nel 1927-1928 Magritte combatte su questo terreno tormentato. Da un lato si susseguono opere in cui il suicidio materno viene evocato dall’immagine e dal titolo, come la Histoire centrale (La storia centrale, 1928) in cui una donna velata, accompagnata da una valigia e una tuba, si strangola. L’Atlantide (1927), La promesse salutaire (La promessa salutare, 1927-1928), La ruse symétrique (L’astuzia simmetrica, 1928), L’invention de la vie (L’invenzione della vita, 1928), Le genre nocturne (Il genere notturno, 1928), Les amants (Gli amanti, 1928), L’inondation (L’inondazione, 1928) sono frutti della stessa vena ispiratrice, anche se il ricordo fantastico del corpo della madre, nudo-velato, attinse ad altre fonti iconografiche, quali le copertine dei romanzi gialli del tempo (Nick Carter).

L’inconscio, poiché di questo proprio si tratta, funziona per collage e montaggi. Esso è una potente forza associativa che non teme i paradossi più aberranti. L’inconscio di René Magritte procede per libere associazioni che egli chiama la sua «ispirazione», riuscendo a mantenerle in territori indicibili, indecifrabili, dove però operano, con chiare strategie, i codici della retorica e della semiologia. Infatti contemporaneamente, seguendo questa fredda tormenta d’immagini ricorrenti della tragedia, Magritte realizza quadri audaci nei quali il testo si confronta con l’immagine in una sperimentazione dei segni fra le più eclatanti di tutta la storia dell’arte pittorica. Tutto ciò culminerà nel 1929 con la celeberrima Trahison des images (Tradimento delle immagini) e il proclama: «Questa non è una pipa».

Meglio di così non si poteva deviare la pittura dalla confessione espressionista nella quale troppi moderni l’avevano confinata. Così si spiega la riluttanza, anzi la repulsione di Magritte per qualsiasi traccia emotiva (gesti, materie) nella pittura. Egli vi cedette solo per un brevissimo periodo che battezzò «vache», all’insegna dello scherno. A parte questa parentesi, si è sempre rifiutato di travestire e offuscare l’atto del dipingere con immagini che, secondo lui, hanno per vocazione primaria quella di rendere visibili le idee e di chiarire il loro mistero, nonché quello dell’universo.

Georgette, l’evidenza eterna. E come se non bastasse, negli stessi anni nascono quadri nei quali affiora a poco a poco la bellezza femminile. Dapprima ridotta a una donna-tronco (La confidence capitale, La confidenza capitale, 1927-1928), spezzettata e ferocemente imprigionata nelle pietre di un muro (Le repos de l’acrobate, Il riposo dell’acrobata, 1928; La femme introuvable, La donna introvabile, 1928), violentata (Les jours gigantesques, I giorni giganteschi, 1928), sporadicamente essa emerge da questo inferno. È Georgette. Il suo corpo e il suo viso dicono la bellezza. Georgette è il viso e il corpo d’una bellezza che il marito non ha dovuto trasformare. Georgette: liscia, compatta, rotonda, luminosa, fotogenica, ben fatta, marmorea, dolce, affettuosa, virginale ed erogena, senza figli, pura, musa e sirena, eccitante, tranquilla, focosa, costante.

Georgette, la donna e tutte le donne: bambina, vestale, seduttrice, amante, sorella, amica, moglie, madre. -L’unica in grado di sostituire la bellezza primordiale perduta per sempre e di guidare René verso la luce, di strapparlo al dedalo e agli abissi della tomba. Era lei la bambina del cimitero, desiderata premonitoriamente. Georgette, dipinta in cinque piccoli lavori, ognuno dei quali inquadra la sua Evidence éternelle (L’evidenza eterna, 1930). Evidente ed eterna: tale risulta infatti la bellezza salvatrice. Molti artisti si sarebbero fermati lì, e la storia del surrealismo è piena di donne fatali-ideali che in qualche modo hanno chiuso un mondo dopo averlo suscitato… Ma Magritte non si limita al folle amore. Non si sente imbrigliato dall’immagine e dalla presenza di Georgette. La potenza erotica della giovane donna s’incarna in numerosi oggetti e va trasformandosi via via. Lo stesso si può dire degli indizi rivelatori del suicidio materno. L’esempio più bello ci è dato dalla testa di gesso che Magritte ferisce alla tempia e il cui calco, si dice, fu eseguito sul volto di una donna annegata nella Senna. Il titolo è eloquente: La mémoire (La memoria, 1945).

Ma torniamo al 1927, anno prodigioso, e vediamo più da vicino come una serie di quadri abbiano aperto al giovane Magritte la via della creazione di oggetti quali sostituzioni liberatorie del suo lutto, surrogati, moventi della sua fantasia erotica e, diciamolo pure, quali elementi strutturali della sua arte. Grazie a questi suoi oggetti-immagini, a questa sua fabbrica d’icone, Magritte potrà dipingere l’articolarsi del suo fantasma traumatico senza doverlo illustrare. Un’opera come Le viol (Lo stupro, 1945), con il suo spostamento del corpo nudo sul viso, dice tutta la mostruosità del femminile. Non è necessario, quindi, far vedere una donna seminuda ecc… È il dispositivo che insieme mostra e vela, esibisce il velare stesso, lo svelare-velare quale osceno mistero dello splendore. Potremmo anche ipotizzare e dimostrare come l’arte delle immagini doppie di Magritte, questo suo sorprendente accoppiare per sempre immagini eterogenee e contraddittorie provenga da una matrice ormai nascosta e invisibile (seppur attiva), un marchio tragico che egli va ripetendo: madre affettuosa e tradimento suicida, viso velato e corpo offerto.

Magritte odiava il simbolismo e ora si capisce il perché. Nella tradizione greca, il simbolo consiste nella riunione di due frammenti rotti, nel ricongiungimento di un’unità disgiunta. Il simbolo dà senso e felicità in quanto salva l’unità un tempo perduta. Magritte invece mantiene lo strappo, negando alle due parti l’accesso al significato e il loro connubio nella sintesi rappacificante. Il due magrittiano reca sempre un’incrinatura. Anche quando la foglia di un albero crescendo diventa colomba, la connessione implica un divorzio. Va detto anche che per lo stesso motivo Magritte non ebbe nessuna stima per la Pop Art americana degli anni sessanta, che pure lo considerava un maestro. Come poteva accettare un’arte della riconciliazione fra cultura sperimentale e cultura di massa, il felice accordo fra arte e merce? Del resto, il surrealismo coltiva l’infelicità, lo scisma e l’equivoco, oscuramente anelando al fallimento di qualsiasi rivoluzione!

Il sonaglio, oggetto-immagine ideale. La prima comparsa del sonaglio nella pittura di Magritte risale al 1927, in Le double secret (Il doppio segreto). Esso appare entro il ritaglio di un volto umano quale tessuto interno di un manichino o di un automa (quest’ultima parola darà il titolo a un quadro in cui il sonaglio è solo e levitante). I sonagli, alla nascita, sono noduli nervosi o muscolari, carne artefatta. Nel 1928, con Les fleurs de l’abîme (I fiori dell’abisso), Magritte va oltre: i sonagli scaturiscono dal tessuto costitutivo del mondo. Sono bottoni floreali, escrescenze, già oggetti. E la frase dell’artista facilita la nostra interpretazione: egli dichiara di aver posto sull’orlo dell’abisso questi «sonagli appesi una volta al collare dei nostri mirabili cavalli». L’aggettivo «mirabile» suggerisce che il sonaglio è un oggetto rassicurante, tintinnante, sonoro, in ritornello, gioioso, evoca insomma l’infanzia felice. Minacciati dagli abissi, questi fiori d’infanzia tentano di scongiurare l’angoscia adulta, la disperazione dell’età, il non desiderio della vecchiaia (Magritte si considera vecchio a 47 anni!). Sull’orlo dell’abisso, del possibile crollo della ragione, della lungimiranza, dell’ispirazione, c’è bisogno di fiori solidi, oggetti resistenti, cose d’acciaio. Il sonaglio è tale, oggetto di resistenza e di fermezza. Un oggetto ideale, un attrezzo dell’immaginario, un sostegno.


La Bonne Foi (1964-65), olio su tela, cm. 41 x 33
BRUXELLES, COLLEZIONE PRIVATA

L’amore e la stima di Magritte per Giorgio de Chirico sono ben noti. Si sa che il giovane Magritte scoppiò in lacrime quando l’amico Mesens gli mostrò, nei primi anni venti, una riproduzione del Canto d’Amore (1912). Magritte dice che fu questo quadro a decidere, sovrano, il suo percorso pittorico: «Si tratta di una nuova visione nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e ode il silenzio del mondo», e poi «Con de Chirico, si tratta di sapere non tanto come dipingere quanto che cosa dipingere». Vediamo di quali elementi è costituita la scena del Canto d’Amore: vi sono essenzialmente una testa accademica di gesso, un guanto da chirurgo e una sfera. Il guanto da chirurgo evoca la freddezza sperimentale cara ai surrealisti e che Lautréamont rese manifesta con queste parole: «Bello come l’incontro casuale su un tavolo da dissezione d’un ombrello e d’una macchina da cucire». Il viso di gesso è il calco di un’arte defunta, il che non poteva non sconvolgere il giovane Magritte, la sua memoria, come abbiamo detto poc’anzi. Esso aggiunge la sua bella impronta mortuaria alla crudezza del guanto di un medico legale, il quale potrebbe anche essere il pittore moderno, in lutto e afflitto per la morte dell’arte classica. Quanto alla sfera, essa ci consentirà di proseguire l’analisi del sonaglio nelle sue declinazioni.

Questa sfera saremmo tentati in un primo tempo di battezzarla «metafisica» come la stessa pittura di de Chirico. Ma tale geometria risulta metafisica solo in apparenza, come tutto il resto. Per capire i grandi artisti, cioè coloro che sono capaci delle astrazioni più alte partendo dal sensibile, si deve tenere conto delle emozioni operanti all’interno dei loro concetti. Certo, le mele di Cézanne sono sfere, speculazioni sulla sfericità, ma sono altresì ricordi d’infanzia e di adolescenza: letture di Ovidio, regali dell’amico Zola. Con il sonaglio di Magritte, è in gioco la fabbricazione di un oggetto-immagine ideale, un nautile, un mezzo di trasporto capace di vogare intorno alla fisica, di essere metafisico con l’amore, la memoria e l’intelligenza. Qui sta la chiarezza diagrammatica della grande arte: un diagramma nel quale le stratificazioni del pensiero, della sensazione, del passato e del futuro si possono leggere e vedere in trasparenza, nella luce.

Il sonaglio è una sfera. Di metallo. È un atomo sfaldato. Micidiale. È un ready-made, duro, impassibile, carico di segni ma privo di qualsiasi attrattiva sentimentale. Né bello né brutto. Il sonaglio è un fatto. Trae però la propria forza dal suo essere plurimo. Esso sfugge all’aridità grammaticale, alla banalità strutturalista in quanto racchiude nel suo nucleo d’acciaio e di notte una potenza in grado di far girare i protoni e gli elettroni dei nostri pensieri, sguardi ed emozioni. Esso è infanzia, cavalli, tintinnio. Freddezza, pensiero, lavoro. Trema questo gelido sonaglio, ma il suo impercettibile tremolio dice quanto esso sia l’oggetto-giocattolo capace di far dimenticare il grande oggetto amato e per sempre perduto, il seno materno, il sorriso materno, il dolce sguardo materno, le parole e i baci materni, la carezza e la presenza, la felicità del grembo di una mamma che, in una notte fredda del febbraio 1912, decise di farla finita con la vita e con l’amore, anche dei propri figli.

Per decenni, tutta la critica d’arte è andata volentieri ripetendo che il sonaglio era un segno fortemente sessualizzato. È vero, purché si dica però che la fessura orizzontale che lo divide è quella dello sguardo. L’attività scopica si è caricata di tutta la potenza erotica primaria in atto nel bambino. Potremmo pertanto avanzare - ma è soltanto un’ipotesi - che il gelido sonaglio (un effetto di pelle d’oca su un’areola) sarebbe il segno della punta di un seno che si rifiuta, si allontana, si pietrifica, si ghiaccia. Tanto per chiarire un’altra volta il rifiuto di qualsiasi tracciabilità nella pittura di Magritte. Niente «tocco», solo sguardo. Tutto si gioca dentro e con lo sguardo, organo della distanza. Prendere atto di tale distanza e rinunciare alla possessione -dell’oggetto di desiderio, al suo ingerimento, fu tutt’altro che facile e alcuni quadri del 1927, quali Jeune fille mangeant un oiseau (Fanciulla che mangia un uccello) o Le ciel meurtrier (Il cielo assassino), mostrano quanto Magritte in quel momento fosse tentato da un cannibalismo amoroso, all’opposto della freddezza «traiettile» del sonaglio. L’uccello tuttavia sopravviverà alla divorazione e col passare del tempo diventerà la libera colomba azzurra, nella quale potremmo vedere l’apoteosi sensuale del sonaglio, la sua astronave di felicità. Uno di questi quadri, realizzato nel 1963, non s’intitola forse La grande famille (La grande famiglia)?

Il sonaglio essenzialmente è un giocattolo. Quando, nel 1929, Magritte lo battezza L’automate (L’automa), lo vediamo comparire in una stanza, levitante, venuto da un altro mondo. Fantasma o ufo? Poco importa, giacché la prima funzione d’un automa, dicono gli esperti di robotica, è quella di meravigliare il suo inventore. Il sonaglio non cesserà mai di meravigliare lo stesso Magritte, così come lo sguardo del mondo, quello delle stelle, delle pietre, dell’oceano scintillante, dei fiori, delle mele, tutti gli occhi e sguardi del mondo sempre lo stupiranno. Il sonaglio è la netta metafora del ritiro, dell’assenza e della scomparsa del primo reale di una vita. Complicità d’infanzia: de Chirico.

Un ricordo d’infanzia di Giorgio de Chirico, assai più abbondante di quelli lasciatici da Magritte, ci consentirà di intrecciare un ulteriore legame fra i due grandi artisti. Il primo capitolo delle Memorie di de Chirico si apre con questo testo, che riportiamo per intero tanto è ricco di particolari: «Il ricordo più lontano che abbia della mia vita è quello di una stanza grande, col soffitto alto. Era la sera in questa stanza buia e triste; le lampade a petrolio erano accese e coperte dal paralume. Ricordo mia madre seduta in una poltrona e, un po’ più in là, una mia sorella anche lei seduta - una sorella che morì da lì a poco; una ragazzina di sei o sette anni, che aveva circa quattro anni più di me. Avevo in mano due piccolissimi dischi di metallo dorato, con un buco al centro, caduti da una specie di foulard orientale che mia madre aveva in testa, il quale appunto era orlato con questi dischetti dorati.

Mentre stavo guardando le due minuscole rotelle, pensai, credo, a dei timbali, a qualcosa che avrebbe dovuto produrre un suono, a qualcosa con cui si gioca facendo musica o con cui si fa musica giocando; ma la gioia che provavo a tenerli tra le mie dita inesperte - come quelle dei pittori primitivi o moderni - sicuramente era legata al profondo sentimento della perfezione che sempre ha guidato il mio lavoro artistico. Questi piccoli dischi perfettamente uguali e brillanti, con il buco perfetto al centro, mi apparvero allora come qualcosa di miracoloso, come più tardi mi sarebbe apparso l’Ermes di Prassitele al Museo d’Olimpia, e ancora più tardi Il ratto delle figlie di Leucippo di Rubens alla Pinacoteca di Monaco, e qualche anno fa il famoso quadro di Vermeer de Delft, Signora e Fantesca, al Metropolitan Museum di New York».

Fin dall’inizio è posto lo scenario funebre: «una stanza buia e triste», «una sorella che morì da lì a poco». L’immagine materna è subito associata a piccoli oggetti suoi, «di metallo dorato con un buco al centro». L’analogia con il sonaglio di Magritte è a dir poco irresistibile, per via del metallo bucato ma anche per il suono che potrebbe produrre: «pensai a dei timbali». Poi de Chirico insiste su «questo profondo sentimento della perfezione» del giocattolo visivo, sentimentale e sonoro che sta manipolando. Sentimento che lo porterà verso l’arte e la sua bellezza al riparo del tempo: «Questi piccoli dischi perfettamente uguali e brillanti […] mi apparvero allora come qualcosa di miracoloso». Torna alla mente il pittore dotato di poteri magici incontrato da Magritte nel cimitero dell’infanzia. De Chirico prosegue con l’evocazione di due quadri in cui l’immagine della donna è da un lato quella della preda (Il ratto delle figlie di Leucippo di Rubens) e dall’altro quella della seduttrice (Signora e Fantesca di Vermeer). Tutta l’ambiguità della pulsione agisce sul fantasma, il quale costruisce un vero e proprio ricordo-schermo, un quadro del desiderio violento e del desiderio quieto. Fra de Chirico e Magritte esiste insomma una complicità totale e assolutamente inconscia sul piano delle rispettive vicende familiari. Varcando i confini spazio-temporali, essa intreccia una rete complice d’informazioni e d’immaginazioni. Si tratta non tanto della storia dei loro stili pittorici quanto di una geografia multimodale del loro divenire. Una Storia centrale tutta diversa: una serie di storie marginali, a-centriche, nomadi, parergonali, connettive. Una sovrabbondanza di storie la cui sintonia si chiama Libertà.

La pittura: quando la superficie «oggetta».Dopo tale immersione, viene da porsi un’altra volta la domanda: che cos’è un oggetto? Quali sono gli oggetti o quale sarebbe l’oggetto della pittura? E il fatto di accostare l’arte di de Chirico a quella di Magritte suscita di nuovo risposte alquanto chiarificatrici in proposito. Per accedervi, non bisogna precipitarsi sugli oggetti raffigurati nei loro rispettivi universi. Dobbiamo rinunciare all’inventario di quelle cose che popolano la pittura per avvicinarci invece ai dispositivi che lo generano, le superfici originarie dove e dalle quali scaturiscono le immagini, che lì rimarranno per sempre. Alla rappresentazione del sonaglio (seno, sesso, occhio…), preferire la sua semplice presentazione, la sua convessità fenduta. De Chirico infatti non è esclusivamente e nemmeno soprattutto (checché ne dica Magritte) un pittore di oggetti, di cose raffigurate. La sua pittura è un teatro d’ombre e di prospettive dilatate, vale a dire un gioco di estensibilità del piano, di distensione delle superfici. La magia altrimenti non c’è.

E d’altronde, l’«immagine perfetta» per Magritte altro non è se non una cornice vuota, un monocromo. Una donna si stupisce nel guardare il piano misterioso donde le immagini potrebbero scaturire. La prospettiva classica, che in de Chirico si esplica in grandi piani obliqui, rivela l’immanenza della pittura moderna, la planarità che sta al cuore della sua problematica. Ora, proprio così Magritte ricorda di aver scoperto la pittura -d’oggetti: «Decisi, verso il 1925, che ormai avrei dipinto gli oggetti con tutti i particolari apparenti […]. Tale decisione mi fu allora facilitata dalla lunga contemplazione che mi fu dato di fare in un’osteria popolare di Bruxelles; ero in una disposizione d’animo tale da farmi apparire le modanature di una porta dotate di misteriosa esistenza e rimasi a lungo a contatto con la loro realtà». Strano proponimento, dove la volontà di dipingere le cose in dettaglio dipende dalla contemplazione di una semplice piega sopra una superficie muraria!

Siamo a mille anni luce dalla tradizione occidentale in materia d’oggetti. La dicotomia soggetto/oggetto non sussiste in quanto qui non sussiste l’opposizione fra colui che guarda e ciò che è guardato. La porta di Magritte s’increspa, si fa volume in senso letterale, si «oggetta», viene di fronte all’osservatore. È la percezione della superficie, del gioco pieghettato delle superfici - che Magritte chiamerà La condition humaine (La condizione umana) in una serie di quadri-finestre degli anni trenta - a produrre oggettivazioni, volumi tridimensionali. In un capolavoro del 1938, La durée poignardée (La durata pugnalata), Magritte porterà all’estremo l’espressione di tale dispositivo. Il muro si è fatto camino. Il sonaglio prodotto dal muro diventa una locomotiva lanciata nel vuoto, tenendo il tempo sospeso. All’estrema pieghettatura del piano si addice l’oggetto eruttivo. Fermo immagine. Volevate degli oggetti, una pittura d’oggetto, e perché non una pittura «oggettrice»? Eccone una che fa apparire le cose molto meglio dell’allucinazione e più saldamente rispetto alla descrizione realistica. Tale chiarissimo stupore di fronte al mondo dà poco peso ai particolari realistici. Esso s’inventa oggetti quali fenomeni del visibile.

La cappa del camino si è gonfiata, piegata, bucata. Un’improvvisa, straziante apparizione. È gelida e furiosamente fumante. Si svela e uccide. Mi viene in mente una citazione per finire, senza concludere. Un piccolo testo per tenere il gioco sempre aperto, per dire che il significato di -un’opera d’arte mai si esaurisce perché essa stessa è ricca di una pluralità di significati. Non vi sarà nessuna conclusione. Solo un testo di Alfred Jarry, come un quadro. «Il treno aveva conservato la posizione di prima. La solita apparente immobilità, prodigiosamente controllabile con tutti i sensi e anche col tatto della mano destra; il rumore dell’acqua però si era fatto acutissimo e, ad appena un millimetro dal fuoco incandescente della locomotiva, per effetto della velocità, regnava un freddo mortale». Scottante e gelida è la canzone della Storia centrale.



Questo saggio è stato scritto con spirito narrativo, escludendo pertanto l’uso delle note a pie’ di pagina. Tuttavia il lettore che volesse approfondire le ricerche troverà indicate qui di seguito le fonti che hanno sostenuto il presente lavoro. Ovvero, in ordine casuale: J-B Pontalis: Perdre de Vue; Sigmund Freud: Malaise dans la culture; Georges Didi Uberman: Fra Angelico, Eloge de la Dissemblance; René Magritte: Ecrits Complets; Giorgio De Chirico: Mémoires; Gilles Deleuze et Félix Gattari: Qu’est-ce que la philosophie?; Alfred Jarry: Le Surmâle; Georges Roque: Ceci n’est pas un Magritte; Julia Kristeva: Soleil noir.


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