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Luce dei miei occhi



Umberto Curi



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Luce dei miei occhi diretto da Giuseppe Piccioni, con Sandra Ceccarelli, Luigi Lo Cascio, Barbara Valente, Silvio Orlando, Toni Bertorelli.

“Tutta la filosofia, e tutta la consolazione che assicura, si riduce a questo: che esiste un mondo di spiriti e che qui, separati da tutte le apparenze del mondo esterno, possiamo guardare ad esso da una postazione elevata, con il massimo di quiete e senza partecipazione, per quanto la parte di noi che appartiene al mondo corporeo sia in esso sballottata”. (A. SCHOPENHAUER, Manoscritti giovanili, tr. it. a cura di S. BARBERA in Scritti postumi, vol. I, Milano 1996, p.11).

L’assunto che è alla base del film era già stato espresso - in forma più concisa, oltre che complessivamente più efficace- nell’opera precedente. Coloro che appaiono ai più essere stravaganti o irregolari, refrattari alle regole e irriducibili ai canoni di comportamento ordinari, non costituiscono affatto una anomalia, né ancor meno possono essere considerati moralmente reprensibili . Al contrario, davvero e fino in fondo fuori dal mondo, perché immersi così profondamente in esso da viverlo senza alcuna consapevolezza critica, senza alcuna capacità di problematizzazione radicale, sono coloro che non ne mettono in discussione i criteri di organizzazione, coloro che non si sorprendono né si scandalizzano per l’intrinseca e irrimediabile irrazionalità di questo presunto “ordine”, coloro che ne accettano senza discutere né ancor meno reagire le modalità di organizzazione e funzionamento.

Fuori dal mondo non è la giovane donna che abbandona gli agi e le prospettive di una vita borghese e sceglie di farsi suora, per realizzare il progetto di recarsi in Africa come missionaria. Fuori dal mondo sono coloro che non condividono, e neppure comprendono, una simile scelta, giudicandola insensata e irrealistica.

Su questo letterale para-dosso, su questo deliberato andare contro l’opinione, ribaltando il punto di vista corrente, e affrontando conseguentemente i rischi connessi con lo sfidare il giudizio della maggioranza, è costruita tutta l’opera di Piccioni. Così è per Chiedi la luna, para-dossale fin dal titolo, dove il rovesciamento fra norma ed eccezione, fra ordine e anarchia, è trattato con una leggerezza che sarebbe stata molto apprezzata da Italo Calvino. Così è anche per quell’autentico piccolo capolavoro che è Fuori dal mondo, esempio davvero rarissimo di un connubio perfettamente riuscito fra rigore espressivo e capacità suggestiva.

E così è anche per Luce dei miei occhi, pur se privo della leggerezza del primo, e non altrettanto asciutto di quanto lo sia il secondo. Ma, al di là della compiutezza degli esiti, ciò che maggiormente rileva è far emergere il nucleo progettuale che è alla base di questo film, e che lo accomuna a quelli precedenti.

Antonio, il protagonista dell’opera, è un alieno. Ma non solo, banalmente, a causa della sua passione per la fantascienza, o per la sua personale immedesimazione con un “eroe” - Morgan - che di quella letteratura è fra i principali protagonisti. Né soltanto perché egli provenga “da fuori”, da un luogo che resta indeterminato, ma che non è comunque coincidente con la città nella quale la vicenda è ambientata. E’ un alieno, perché è alius, sempre irriducibilmente altro rispetto al comportamento di coloro che pure fanno lo stesso lavoro, è altro nei confronti di ciò che da lui ci si attende, è altro nel non lasciarsi assorbire negli schemi, nei ritmi, nelle consuetudini, nelle reazioni di un mondo al quale egli sembra non appartenere.

E’ altro, perché l’orizzonte di significato della sua vita non si esaurisce in ciò che appare, ma costantemente rinvia ad una dimensione che resta in larga misura inesplicabile. Questa radicale alterità colpisce immediatamente chi lo accosta: conquista la piccola Lisa, inducendola a mettere da parte ogni diffidenza e a stabilire una immediata confidenza; indispettisce Maria, spingendola ad esprimere verso di lui gli aspetti peggiori del suo carattere, fino alla sadica esibizione dei propri appuntamenti amorosi; incuriosisce e insieme intenerisce il gestore delle auto, presso il quale egli ha trovato lavoro; stupisce e infine letteralmente se-duce il furfante dedito al cinico sfruttamento dei più deboli.

Antonio sta, dunque, in questo mondo, ma non è di questo mondo. Proviene da “fuori” - non si dice esattamente da dove. Né si può dire, al termine della vicenda, quale sia la sua destinazione. Di certo, ciò di cui ci si avvede seguendo la storia, è che egli non si esaurisce nell’arco delle giornate descritte nel film. La sua alterità non riguarda soltanto il suo rapporto col mondo, ma anche la dimensione temporale che di esso scandisce il ritmo. Come colui che egli considera il suo “vero” padre, anche Antonio è un “viaggiatore”, e del viaggiatore condivide la carica di mistero che sempre accompagna la figura di qualcuno che giunga compiendo l’esperienza del viaggio.

Proprio in quanto è radicalmente altro, rispetto al “mondo”, egli vive in un proprio mondo, e dunque si presenta come la figura di un perfetto idiota - di colui la cui identità consiste nell’essere irriducibile a qualsivoglia “norma”, la cui “misura” è l’essere strutturalmente “extra-ordinario”. In questo suo stare nel mondo, senza appartenervi, in questo suo transitarvi come un viaggiatore, in questo suo rapportarsi agli altri senza mai rinunciare alla propria idiozia, l’immagine di Antonio ricalca quelle di altri stranieri, prima fra tutte, in ogni senso, quella del Cristo.

Come accade per il Nazareno, anche per lui la sua comparsa sulla scena è sempre accompagnata da un contesto salvifico, pur senza la valenza compiutamente soteriologica del modello a cui si ispira. Salva la piccola Lisa dal rischio di essere investita. Salva Maria dalla spirale dei debiti e da una relazione amorosa distruttiva e senza sbocchi. Salva, pur se solo provvisoriamente, i disgraziati bengalesi dalle esose vessazioni di Saverio. Perfino a costui prospetta la possibilità del riscatto, mediante un “tradimento” che assomiglia ad una pratica espiatoria. L’“impresa” di Morgan, alla quale ripetutamente allude la voce fuori campo, pur concludendosi con un insuccesso, assume tuttavia il carattere di una redenzione universale, indotta dall’iniziativa di un “viaggiatore”, giunto improvvisamente da una località misteriosa, e in procinto di scomparire in maniera altrettanto imprevedibile.

Questa alterità è indizio di uno scarto destinato a non ricomporsi, a restare aperto, scongiurando ogni finale edificante, ogni conclusione della vicenda secondo il modulo hollywoodiano dell’happy end. Nulla, nelle sequenze conclusive, ci assicura che il ricongiungimento dei tre protagonisti sia definitivo, nulla ci autorizza ad immaginare una definitiva “redenzione” di Maria, una armonia finalmente e stabilmente raggiunta. Esattamente al contrario, la perfetta coincidenza fra l’inquadratura con la quale si apre il film, e quella con la quale esso si chiude, dimostra che con tutta probabilità ciò a cui si allude è una sorta di eterno ritorno dell’uguale.

E così come l’unità del quadretto familiare dell’esordio sarà poi destinata ad infrangersi con la scomparsa improvvisa del “viaggiatore”, allo stesso modo la conclusione del film, riproducendo la medesima inquadratura, suggerisce l’idea che la ricomposizione di Antonio, Maria e Lisa sia soltanto provvisoria, e che ben presto quella intesa transitoria lascerà il passo a nuove lacerazioni. Resta in ogni caso interdetto ogni esito consolatorio, ogni visione definitivamente pacificatrice.

Tutto rimane, invece, sospeso: forse Antonio-Morgan ripartirà verso una nuova avventura; forse Maria si farà coinvolgere in qualche altra sfortunata peripezia erotica; forse Lisa si allontanerà nuovamente alla ricerca del suo gatto. Semmai, la simmetria esplicitamente istituita dall’Autore fra l’esordio e l’epilogo del film conferisce a ciò che “sta in mezzo”, alla vicenda descritta, il carattere di una tranche de vie, colta per così dire “in movimento”, ma con la scelta di lasciare volutamente indeterminato sia il “da dove”, che il “verso cosa”, sia l’ombra dalla quale provengono, del tutto ex abrupto, i personaggi che compaiono all’inizio, sia l’incerto futuro verso il quale procedono coloro che, in una certa misura, ne ripetono le vicissitudini umane.

Quasi a dire che nel kosmos descritto da Piccioni non vi sono stelle fisse, ma soltanto sistemi che si muovono in forma “relativistica”, mai in termini che possano essere assolutizzati, ma sempre l’uno in relazione all’altro, sempre l’uno in conflitto o in connessione con l’altro. E che in questo multiverso la regola prevalente è quella del sistematico rovesciamento del rapporto fra realtà e apparenza, fra la regola e l’eccezione, facendo emergere la “faccia nascosta” dei soggetti che orbitano in questo spazio.

Di qui talune scelte compiute dall’autore, non semplicemente riducibili a pur efficaci opzioni stilistiche, perché del tutto omogenee all’impianto complessivo delle sue opere, quale quella di lasciare comunque “aperto” l’esito delle storie narrate, o quella di privilegiare la metafora del viaggio, per alludere a percorsi di metamorfosi interiore, ovvero quella di ambientare le vicende sullo sfondo di grandi città - Milano in Fuori dal mondo, e Roma in Luce dei miei occhi.

Una Roma, sia detto per inciso, colta nella sua pura “essenza” metropolitana, totalmente priva di ogni elemento che la renda riconoscibile, vista esclusivamente come grande realtà urbana volutamente indeterminata, in modo da poter essere concepita come la “città” in senso astratto e generalissimo, e non come una particolare città provvista di una sua specifica identità storico-artistica- monumentale. Una città nella quale si giunge provenienendo dall’“esterno” (i tre protagonisti del film giungono a Roma da fuori), nella quale dunque si vive comunque come stranieri.

Di qui, soprattutto, il rigore col quale Piccioni resta fedele ad una sua precisa “marca” formale, ad un modo di raccontare davvero inconfondibile, principalmente fondato sul presupposto che massimamente significativo, e più efficacemente evocativo, sia costruire il racconto attraverso un processo di sottrazione, anziché mediante l’accumulazione di immagini e parole. Un linguaggio ridotto davvero all’essenziale, sobrio e asciutto fino a sfiorare l’afasia, nel quale i vuoti, i silenzi, le cancellazioni, le ellissi svolgono una funzione espressiva assolutamente fondamentale, secondo un percorso di vera e propria kenosis, isomorfa al contenuto paradossale del racconto.

Così come in esso, infatti, campeggia la tesi del ribaltamento della doxa comunemente accolta, allo stesso modo sul piano formale si impone l’idea che non la sovrabbondanza delle immagini, non la pignola esibizione di ogni dettaglio o di ogni passaggio, non il “pieno”, insomma, ma il “vuoto”, l’eliminazione del superfluo, possano servire ad esprimere con maggiore efficacia quanto il film intende comunicare. Rispetto alla quasi totalità delle opere cinematografiche oggi in circolazione, nelle quali davvero nulla è lasciato all’immaginazione, dove nessun particolare è trascurato, dove l’arte del racconto spesso si perverte nel resoconto documentaristico, Piccioni sceglie - anche qui, contro l’opinione corrente - una sorta di ascesi linguistica, una sintassi compositiva fondata su brusche scansioni e cesure improvvise, con esiti di indiscutibile grande suggestione.

Già presente nelle opere precedenti, questa impostazione di rara coerenza si ritrova anche in Luce dei miei occhi, certamente il più complesso e ambizioso, anche se forse non il più felicemente risolto, fra i film di Piccioni. Qui l’assunto che accompagna la ricerca dell’autore si esprime in maniera del tutto esplicita, per certi aspetti perfino troppo immediata, e dunque in contrasto con lo stile “minimalistico”, al quale si è in precedenza accennato. Il mondo nel quale noi tutti viviamo immersi, e che riteniamo essere unico, potrebbe non essere affatto la sola realtà, né necessariamente quella più vera.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda le regole che organizzano la nostra vita, i criteri ai quali si ispirano le nostre scelte, lo stesso “ordine” in cui si organizzano i comportamenti nostri e della stragrande maggioranza dei nostri simili. Non è detto che tutto ciò, solo perché corrisponde a ciò che accomuna i molti, sia davvero intrinsecamente razionale. Non è detto che i “molti” abbiano ragione, che i valori da essi assunti quale riferimento vincolante siano obbiettivamente migliori di altri da essi diversi o opposti. Non è detto che non sia possibile individuare una alternativa al mondo quale esso ci appare, e che la scelta di collocarsi al di fuori di questo mondo debba essere considerata aberrante.

Antichissima, coincidente con la fase aurorale della ricerca filosofica, è la polemica contro la “moltitudine dei dormienti”, contro coloro che “si rinchiudono in un loro mondo”, e “non comprendono le cose nelle quali si imbattono” (Eraclito, B 73, B 89, B 17) . Di costoro il filosofo irride il sapere puramente apparente (B 72), l’incapacità di cogliere l’unità al di là della molteplicità (B19). Di essi, tenaci seguaci della doxa, di quell’opinione che è “mal caduco che la vista inganna” (B108), testimonia il detto “presenti sono assenti” (B 34).

Ma toni e motivazioni pressoché identici riaffiorano costantemente nella successiva tradizione del pensiero occidentale, nella linea che da Platone giunge fino a Schopenhauer e Nietzsche. L’essere “molti” non solo non implica necessariamente l’“avere ragione” ma, esattamente al contrario, è per lo più indizio del soggiacere alla deformazione di un mondo distorto. Correlativamente, soltanto pochi sanno trovare la strada per uscire dalla caverna dell’errore e dell’insania, per elevare la vista verso una realtà più vera.

Alla moltitudine di coloro che da sempre vivono immersi nelle tenebre della caverna, e che di conseguenza ritengono che le ombre proiettate sulla parete siano la vera realtà, quanti da essa si sforzano di uscire, alla ricerca di un “mondo” diverso e più autentico, sembreranno dissennati, ed è perciò inevitabile che questi ultimi siano biasimati e derisi. Allo stesso modo, prigionieri del mondo della mera rappresentazione sono coloro che non sanno vedere al di là del velo che occulta e deforma la realtà vera, per coglierne invece l’essenza più autentica. Nella scissione, e tendenziale contrapposizione, fra due “ordini”, e i relativi sistemi di valori, è possibile cogliere la filigrana concettuale che è alla base della ricerca di Piccioni.

Questo nucleo problematico primario si accompagna, e si salda organicamente, ad una pluralità di altri temi minori, affrontati e per lo più risolti con notevole sensibilità. Il primo, e più significativo, fra essi è certamente il tema della memoria, che è al centro soprattutto dell’opera più recente. Nel proporlo, Piccioni si richiama anzitutto (con una scelta del tutto condivisibile) ad un modello specificamente cinematografico, diventato ormai un classico, quale è Blade Runner. Come accade nel film di Ridley Scott, anche in Luce dei miei occhi la memoria non è trattata come mera tecnica di rimemorazione, come strumento di archiviazione di dati, né come semplice “deposito”, riservato allo stoccaggio delle informazioni, ma è piuttosto concepita in stretta relazione alla questione dell’identità personale, e dunque come fondamentale principio di individuazione.

Il modo infallibile per distinguere gli esseri umani da entità provenienti da altri pianeti, che abbiano abusivamente assunto le sembianze di terrestri, consiste per l’appunto nel verificare se essi conservino dei ricordi; allo stesso modo, in Blade Runner, la differenza saliente fra gli umani e i replicanti - per altri aspetti identici e indistinguibili rispetto ai terrestri - risiede per l’appunto nella memoria, intesa come quel condensato di esperienze e di vita vissuta, senza il quale verrebbe a mancare ciò che peculiarmente rende riconoscibile la condizione umana.

Ebbene, la stretta connessione fra memoria e identità, l’assunzione della prima come tratto caratteristico e imprescindibile della seconda, allude ad un modo di concepire la memoria che risale a Platone, e ancora più oltre, a Empedocle e soprattutto ai Pitagorici. In quanto è Mnemosyne, la memoria consente di accedere ad un passato che non è soltanto l’antecedente del presente, ma è la fonte di esso. Risalendo indietro nel tempo, la memoria permette non già di situare gli avvenimenti in una “cornice” temporale, ma di raggiungere il fondo dell’essere, di scoprire l’originario.

Di qui il fatto che essa si presenta con una precisa valenza ontologica, da un lato in quanto “individua” in maniera inconfondibile gli uomini, rispetto ad ogni altra specie vivente, dall’altro perché funziona come veicolo di una sorta di iniziazione, mediante la quale è possibile entrare in contatto con l’origine, rendendo attingibile il principio. Come “geografia del soprannaturale”, la memoria è dunque davvero - per dirla con Platone - un “dono divino”, una forma di mania simile, nelle sue caratteristiche e nei suoi effetti, a quell’altra forma di divina mania che è l’eros.

Considerato nella prospettiva fin qui abbozzata, Luce dei miei occhi, ancor più nettamente dei due precedenti film del regista romano, si presenta davvero come un conte philosophique, come un tentativo (in larga misura riuscito) di valorizzare la portata in senso lato filosofica del cinema, la sua capacità di funzionare (in analogia con le altre forme dell’arte contemporanea) come strumento di una ricerca intellettuale, di principio non meno rigorosa di quella strettamente “speculativa”. E la “lezione” che esso propone rilancia, nelle forme peculiari del racconto cinematografico, ciò che un filone fondamentale della tradizione speculativa dell’Occidente ha in vario modo ripetutamente affermato: non vi è autentica conoscenza, non vi è speranza, non vi può essere salvezza, se non per chi si collochi fuori dal mondo.

Link:

Il sito ufficiale del film:
http://www.lucedeimieiocchi.it/ 

 

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