Il coraggio
di rimanere essenziali
Paola Casella
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Luce dei miei occhi, diretto da Giuseppe Piccioni, con Sandra
Ceccarelli, Luigi Lo Cascio, Barbara Valente, Silvio Orlando, Toni
Bertorelli.
Perché un film imperfetto, anzi, mal riuscito come Luce dei
miei occhi mi è rimasto così tanto dentro? Credo che la risposta
sia: per identificazione. Non c'è una sola spettatrice, fra quelle
con le quali ho parlato dell'ultimo film di Piccioni, che non si sia
riconosciuta in uno, o tutti, gli aspetti di Maria, il personaggio
interpretato da Sandra Ceccarelli: in primis, nel suo sforzo di
donna costretta a sovrapporre e a confondere i due ruoli di madre e di
lavoratrice - la figlia che invade il posto di lavoro, il posto di
lavoro che divora il tempo da passare con la figlia.
E credo che ancora più che nelle situazioni, buona parte del pubblico
femminile si sia riconosciuto negli stati d'animo di Maria - il senso
di colpa, e la rabbia nel provarlo; la fame di amore, e la difficoltà
nell'accoglierlo; la voglia e la paura di donarsi, o anche solo di
lasciarsi andare, di ritornare ragazzina, quella voglia (e paura) che
Sandra Ceccarelli esprime così bene con i suoi sorrisi improvvisi e
incongruenti, che squarciano la cupezza della sua maschera severa
fatta di occhiaie, zigomi, parentesi.
Quale donna contemporanea non si riconosce nell'ostinazione di Maria a
rivendicare il proprio diritto di sbagliare in amore, e a farlo
perciò voracemente? Magari alternativamente accettando con masochismo
le briciole di una relazione con un uomo sposato, e arraffando senza
scrupoli l'amore generoso di un uomo solo desideroso di dare?
E' soprattutto il dialogo di Maria
a renderla riconoscibile. Se le battute, e soprattutto i monologhi, di
Antonio, il personaggio interpretato da Luigi Lo Cascio, suonano
spesso improbabili, finti, qualche volta addirittura involontariamente
comici, le frecciate di Maria, le sue risposte cattive, le sue frasi
sibilate più che dette, fanno parte del vernacolo quotidiano di
qualunque donna moderna alla quale la fretta, la stanchezza, la paura
fanno dire cose che respingono da sé l'amore che cercano, ma che non
sanno come chiedere.
Al di là dell'identificazione di genere, credo che sia fortissima -
in me, ma anche in molti altri spettatori - l'identificazione con la
solitudine dilatata dell'esistenza urbana contemporanea, con il senso
moderno di perdita della propria identità, destinata a fluttuare in
un liquame amniotico, dove tutti galleggiamo come creature marine
inconsapevoli e abbandonate alla feralità dei nostri istinti: il
tratto stilistico distintivo dei film di Piccioni sono proprio le
inquadrature da acquario, in cui noi spettatori osserviamo i
personaggi della storia come se fossero pesci intrappolati in una
vasca silenziosa (vedi le istantanee mute di Fuori dal mondo,
vedi la scena dell'affissione delle luci di Natale alla finestra in Luce
dei miei occhi).
Che l'isolamento urbano e l'autismo emotivo disegnati da Piccioni
attraverso certe immagini lunari siano un segno dei tempi diventa
istantaneamente evidente non tanto nelle inquadrature di Luigi alla
guida (l'iconografia dell'autista - si noti l'omonimia con il termine
che definisce il malato di autismo - e in particolare dell'autista
urbano, notturno, e a pagamento, è già stata perfettamente
codificata da Martin Scorsese in Taxi Driver), quanto nella
scena che incornicia (incastona?) Luigi nella pizzeria dove consuma il
suo pasto solitario (azzeccatissima, in questo senso, la scelta di un
attore così fisicamente asciutto, per il quale l'atto di mangiare
sembra un'incombenza, una corvèe). Quelle scene, come quadri di
Edward Hopper, sono ritratti di solitudine cittadina così frequenti
oggi che non ci fermiamo neppure a contemplarli, anche quando sono
belli di una bellezza commovente e desolata.
Peccato che l'essenzialità di queste immagini, e di alcuni dialoghi
asciutti (primo fra tutti quello che si svolge in automobile fra Maria
e Luigi - crudo e violento, come abbiamo tutti imparato a diventare)
siano sommersi e soffocati da troppo ingombro acustico e visivo: una
colonna sonora invadente, un'implacabile voce fuori campo che conduce
un commentario parallelo del tutto superfluo (che Luigi sia un alieno
lo capiamo da soli, basta guardarlo in quegli occhi senza luce, dove
l'unico riflesso luminoso diventa il sorriso di Maria, quello che per
l'appunto squarcia il buio), personaggi di contorno mal descritti e
fuorvianti, nel senso che allontanano lo spettatore dal nucleo della
storia (soprattutto quello interpretato da Silvio Orlando, un vero e
proprio errore di casting), eventi affastellati senza capo né coda, e
soprattutto senza scopo narrativo.
Piccioni, in passato accusato di
eccessivo minimalismo, ha questa volta commesso il peccato contrario:
ha sovraccaricato invece di alleggerire, affollato invece di
sfrondare. Peccato, perché la tematica dell'isolamento fisico ed
emotivo è così forte e così attuale che avrebbe potuto
tranquillamente esprimersi (anzi, shine through, cioè
trasparire, com'è proprio della luminosità che tra-passa la materia)
proprio attraverso le immagini laconiche e i dialoghi scarni che
costituiscono la cifra espressiva più originale di Piccioni, come
dimostrato da Fuori dal mondo.
Ha fatto bene, la giuria del Festival di Venezia, a premiare i due
protagonisti, perché incarnano l'isolamento esistenziale come il film
di Piccioni non è riuscito a fare. Ciò che ha reso i toni dei
critici presenti al Festival così accesi e pungenti è stata la
delusione, perché Luce dei miei occhi prometteva bene e invece
si è messo paura da solo - come Maria, la sua protagonista.
Luce dei miei occhi poteva permettersi di essere irrisolto,
straniante, persino inconcludente, perché questo era lo spirito di
una storia che, come la vita, non offre soluzioni definitive, non
comporta punti di svolta e illuminazioni finali; ma non poteva
concedersi di dubitare di sé e, per questo, tradire la sua forza
narrativa, la nitidezza delle sue intenzioni.
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