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Viaggiatori senza bagaglio



Paola Casella




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Un uomo scende da un treno, con uno zaino in spalla. Basta guardarlo in faccia, e si capisce che il suo fardello interiore è molto più pesante di quello che porta sulle spalle. Ha il viso segnato di Johnny Halliday, non più rocker anni Sessanta con un occhio all'America e uno al botteghino francese, ma un uomo, come si suol dire, vissuto. Come li abbia spesi, gli anni che dimostra (anche se li porta con grande fascino), non lo sappiamo: ma siamo certi che sono stati consumati fino all'osso, perché di ogni esperienza porta tracce ben visibili.

Un altro uomo, massiccio e imponente come Halliday, ma dal viso meno logorato, è sceso da un treno alla stazione di Helsinki ed è stato picchiato a sangue, tanto che il suo viso ci viene svelato da sotto uno strato di garze, sovrapposte durante il ricovero in ospedale. M., così verrà chiamato quest'uomo, non ricorda nulla del proprio passato, ma che ne abbia uno è evidente, anche solo cronologicamente: come Halliday, ha superato la metà della vita. E forse proprio questo è il loro problema.

Stiamo parlando dei due protagonisti di due film che, curiosamente, si somigliano: L'uomo del treno del francese Patrice Leconte (del quale abbiamo parlato sul numero 205 di Caffè Europa ) e L'uomo senza passato del finlandese Aki Kaurismaki. In entrambi i film, il personaggio del titolo (titolo quasi uguale, tra l'altro, anche in lingua originale) è un uomo che ha superato la mezza età e che scende da un treno (cioè da un percorso prestabilito) e fa una pausa che innesca in lui una serie di riflessioni sulla vita.

Innanzitutto è interessante osservare che questa pausa esistenziale non riguarda due quarantenni - la tradizionale mezza età, notoriamente corredata da "crisi della", frequente oggetto di indagine cinematografica: basti pensare, nella memoria recente, ad American Beauty. Sicuramente questo è un dettaglio che riflette la realtà socio-demografica: detto banalmente, oggi si vive più a lungo, e dunque di fatto la mezza età si è spostata più avanti. Ma soprattutto si è spostata in avanti la capacità di crescere e di raggiungere una consapevolezza matura.

Prima, durante il proprio viaggio, ci si perde più spesso, si commettono più errori. Se un tempo la vita di un uomo, e ancor di più una donna, adulti era in gran parte preordinata da una serie di scelte obbligate (il matrimonio - uno -; il lavoro - di solito, uno anche quello) che ne incanalavano il corso in modo così rigido che si era costretti a percorrere un solo binario per tutta la vita (ma si era anche deresponsabilizzati riguardo al percorso da seguire, e alle possibilità di sceglierne altri, pena la minaccia di deragliare dal proprio status sociale e dalla propria credibilità personale), oggi le opzioni sono infinite, e infinite le possibilità di ritagliarsi un'identità non dettata dalle regole collettive ma modellata dalle scelte individuali.

Non è un caso dunque che i due protagonisti siano tardo-cinquantenni europei, dunque ex giovani durante il Sessantotto. E non è un caso che entrambi viaggino con un bagaglio minimo (L'uomo del treno) o inesistente (L'uomo senza passato): la generazione dei tardo-cinquantenni europei spesso considera l'acquisizione di beni materiali una zavorra alla propria capacità di autodefinizione, e spesso se ne libera, di solito in tranche che coincidono con successivi divorzi.

Ma non c'è solo un progressivo disfarsi delle masserizie accumulate, e quindi delle sovrastrutture dalle quali ci si sente ingabbiati. I due uomini del titolo non possiedono niente, ma stanno acquisendo una coscienza: nel caso del personaggio interpretato da Halliday, è la coscienza della propria insoddisfazione, percepita attraverso il contrasto con un coetaneo (interpretato dallo straordinario Jean Rochefort) che ha scelto una vita diametralmente opposta: dal punto di vista di Halliday, una vita stanziale, stabile, riposante, in contrasto con quella nomade e irrequieta del rapinatore con la faccia da rocker.

Nel caso di M., la nuova acquisizione è la scoperta di ciò che veramente conta, più facile per lui da identificare che per qualsiasi uomo della sua età perché M. si trova improvvisamente una tabula rasa davanti, e una pietosa voragine di oblio dietro le spalle (di qui le numerose inquadrature proprio di spalle, come se il personaggio cominciasse lì). M., però, non è una tabula rasa, e questo è fondamentale: in qualche modo ha la percezione, per parafrasare il poeta, di ciò che non è e ciò che non vuole, una percezione che purtroppo si acquisisce solo col tempo e il vissuto - qualcuno direbbe che la si riacquisisce, recuperando gradualmente uno stato di natura ottenebrato da successivi strati di obnubilazione.

Al contrario della maggior parte degli uomini (e delle donne) che hanno superato la metà della vita, M. ha il vantaggio di non portare valige pesanti, e quindi di provare l'ebbrezza della levità, il senso di libertà totale che deriva dal poter dimenticare il danno subito, e soprattutto, quello arrecato ad altri.

Per prima, M. recupera la capacità di dare un nome alle cose: non perché abbia dimenticato la sua lingua, ma perché adesso può dare alle cose, e alle persone, il nome giusto, e il giusto valore. Così come può lasciar riaffiorare alla coscienza ciò che davvero è importante per lui, visto che il caso (ma esiste il caso?) l'ha privato dei filtri interposti ai propri desideri più profondi, e gli ha restituito la capacità istintiva e primordiale (non è un caso davvero che l'interprete di M. abbia un viso dai tratti così essenziali da risultare preistorici) di scegliere autonomamente la propria scala di valori.

M. non deve sfrondare la propria esistenza, decalcificarla da decenni di incrostazioni, per riportarla all'essenziale, come dovrebbe fare qualunque suo coetaneo non graziato da una provvidenziale amnesia, e come invece fa Kaurismaki, maestro nel rappresentare l'essenzialità attraverso un processo di rarefazione che, come ha ricordato Serafino Murri, critico attento e puntuale, ricorda il lavoro "a sottrarre" operato sulla parola da Gianni Rodari. Come Rodari, M. e Kaurismaki costruiscono la propria grammatica: quella del linguaggio, ma anche quella dei sentimenti e, in senso ampio, della fantasia, intesa come la capacità di inventarsi nel tempo e nello spazio (di qui la collocazione atemporale dell'intera vicenda).

E M. lo fa semplicemente aggiungendo a poco a poco alla sua vita solo ciò che non stride con la propria verità interiore, sapendo che il suo unico vincolo, e il suo unico dovere, è quello di risuonare autentico a se stesso. La rimozione del passato gli consente, forse per la prima volta in vita sua, di scrivere su una lavagna pulita, invece che di stratificare gesso su una lavagna sporca.

In quest'ottica, un juke-boxe all'interno di un container diventa arredamento più utile, anzi essenziale, di una cucina componibile (più avanti nella storia scopriremo che, in passato, M. viveva circondato da un arredamento su misura, ma certo non a misura sua). Nel suo nuovo mondo orientato al presente, le patate crescono in numero sufficiente alla sopravvivenza di chi le coltiva (del resto, non lo dice il padrenostro che la nostra esigenza dovrebbe limitarsi al pane quotidiano?), consentendo solo quel surplus minimo che mette quotidianamente alla prova la sua capacità di altruismo, il suo tasso di saggezza.

Ciò che resta a M. è ciò che è veramente importante - la musica, la capacità di amare e di distinguere fra malafede e buone intenzioni (di qui la proliferazione di personaggi che sembrano ciò che non sono: il guardiano che sembra cattivo e invece è un pezzo di pane, la moglie efficiente che sembra un'eroina domestica e invece è un'aguzzina, il cane Hannibal che sembra feroce e invece è del tutto innocuo), e di separare gli angeli dagli angeli caduti.

Poco importa se L'uomo senza passato è uno dei film meno credibili della storia recente, con incongruenze e assurdità nella trama che lo rendono (volutamente) risibile, in perfetta sintonia con l'umorismo surreale che permea questo e tutti i film di Kaurismaki. E' una favola ottimista, un Miracolo a Milano in salsa finlandese (quella agrodolce che accompagna le polpette dell'Ikea, se vogliamo mantenere un paragone nordico).

Non altrettanto fortunato è il protagonista de L'uomo del treno, il cui passato incombe come un credito da riscuotere, e prende la forma di guardie carcerarie che lo inseguono per chiedergli il conto dei propri peccati. Tant'è vero che la sua aspirazione massima non è quella di inventarsi una nuova vita, ma di appropriarsi di quella dell'amico, in uno scambio alla pari che comporta anche l'acquisizione del reciproco passato, nella speranza che almeno la noia della propria esistenza venga sostituita dalla novità di calarsi in quella altrui.

Il dettaglio che tuttavia accomuna i due personaggi, e che è un dettaglio di speranza per chiunque cerchi la propria strada e la propria vera identità, è che la loro ricerca non è indirizzata all'indietro, a una giovinezza ormai perduta. Né l'uno né l'altro sono affetti dalla sindrome di Gloria Swanson in Viale del tramonto, o dal cronico infantilismo del triste gruppetto di Amici miei. Entrambi mirano a viaggiare in avanti, non a inseguire a ritroso il passato.

Per questo la loro vita meriterebbe di iniziare in quel momento, e di non essere già in gran parte spesa. E tuttavia è proprio quella fetta di vita mal spesa che dà loro la consapevolezza necessaria per aspirare a un futuro diverso, carico dell'esperienza acquisita, ma non gravato dagli errori commessi.

 

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