Eroi senza luogo
Carlo Violo
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L'uomo senza luogo potrebbe essere il titolo più appropriato del film di Aki Kaurismaki L'uomo senza passato. O, almeno, un suo valido sottotitolo. Il titolo vero sembra infatti troppo prevedibile per un lavoro che riesce a inserire molti strati di poesia universale negli interstizi di un soggetto abbastanza frequentato come quello della perdita della memoria. La sceneggiatura è anche del regista, ad onore della vena d'arte che appartiene a questo autore finlandese, e così anche la produzione, a spiegare il riuscito tentativo di realizzare il massimo dell'originalità con il minimo della spesa.
Certo, l'architrave del film è la memoria e, quindi il tempo. Ma esistono tipologie di memoria umana diverse e con diverse funzioni, e, quindi, anche il senso della smemoratezza non è univoco. Il tempo, come si sa, è l'altra faccia dello spazio e, insieme, costituiscono il mondo. Esiste la perdita del senso di sé, la dimenticanza della sacralità della vita, l'obnubilazione totale del ricordo dell'anima, della dimensione trascendente della coscienza. E, accanto a tutto questo, la perdita della memoria delle strutture della personalità.
In quest'ultimo caso la dimenticanza è auspicabile, negli altri rappresenta il fallimento esistenziale più drammatico. Auspicabile e drammatico, naturalmente, secondo il punto di vista che tende ad assegnare all'umana specie traguardi o scopi ben diversi dai modelli di consumo corrente e una esistenza che travalica la ristrettezza del tempo e della contingenza quotidiana. Nel racconto delle tribolazioni lungo il suo itinerario iniziatico, il celebre monaco Zen del XVIII° secolo, Hakuin Zenji, dice: "Quando ci liberiamo dai sei godimenti e quando ciascuno dei cinque sensi dimentica la sua funzione, allora l'armoniosa energia fondamentale fluttua davanti agli occhi."
Potrebbe essere l'epigrafe del film dove la perdita della memoria e della vecchia identità permetterà al protagonista di trovare in sé stesso qualità sconosciute e fondamentali. In una parola autentiche. Molti dialoghi senza senso del film somigliano in effetti, più che a prosa occidentale di stile beckettiano, a koan del tipo: se due mani producono un suono, qual è il suono di una mano sola? Sarà forse un caso che una delle ultime scene del film, quando il nostro eroe ritorna in treno sui luoghi della sua nuova vita, si concede uno spuntino, assai poco probabile su un vagone ristorante sia pure finlandese, a base di sushi e sake?
Anche la recitazione, distaccata e senza tonalità di colore, persino straniata, che ricorda il cinema di Bresson, di cui Kaurismaki è per altro ammiratore ed epigono, ma con una forte dose di ironia in più, è al servizio dell'intento generale di comunicare attraverso paradossi.
La speranza che la perdita del passato produca benefici effetti liberatori riguarda tutti i luoghi abitati dall'uomo. E' così che l'uomo senza tempo diviene emblema della liberazione filogenetica della nostra specie che abita tutti i luoghi del pianeta. Non mi soffermerei perciò sull'evidente ottimismo del film, dichiarato esplicitamente dal regista nelle interviste, ma sul fatto che ciò che poteva essere raccontato con toni tragici e pesanti giunge a destinazione in modo ancora più efficace attraverso la sottile trama della leggerezza ironica e la maestria dei dettagli ambigui o contraddittori che, proprio per questa loro caratteristica, riescono subliminalmente a creare il non luogo dell'azione.
Una delle possibili analogie letterarie è quella dei racconti dell'oriente derviscio, dove ciò che conta non è la biografia tragica dell'eroe o l'esattezza univoca dell'ambientazione ma l'asciuttezza e l'essenzialità della simbologia. Del resto tanto più alto è il contenuto poetico di un'opera, tanto più si esce dalla sfera delle semplici emozioni, tanto più essa diventa ispiratrice di sentimenti, tanto più i dettagli ne determinano identità e valore. Vediamoli allora questi dettagli che giocano a nascondino con la percezione dello spettatore e costituiscono, per altro verso, la filigrana volutamente ironica del film.
Del sushi ho già detto. Il protagonista sembra più un pellerossa che un finnico. Persino i poliziotti che lo arrestano per un malinteso non credono alla sua nazionalità finlandese (da cui il rinforzo del sospetto che la scelta dell'attore sia stata orientata non tanto alla ripetizione - Markku Peltola è l'interprete preferito da Kaurismaki - quanto al rafforzamento del concetto di non luogo). Il parco e la panchina della scena iniziale dell'aggressione sono ovunque, tanto all'Est quanto all'Ovest, e il protagonista non sembra conoscere bene la ragione precisa per cui si trova lì, quasi che fosse già in atto un inconscio desiderio di liberarsi di un passato. Seduto sulla panchina che sembra per il momento la sua unica meta, il nostro controlla il funzionamento dell'orologio da polso che si è palesemente fermato, premonizione del tempo terreno che sta per giungere al suo destino.
L'aggressione avviene nel sonno, senza possibilità di difesa, e certo addormentarsi su una panchina nel buio non sarebbe giustificabile senza una specie di resa al proprio destino. Tanto è presente l'elemento fatale che il nostro riesce a risvegliarsi, contro tutti i pronostici degli spettatori, persino dalla morte clinica, attingendo evidentemente alle oscure risorse delle molteplici dimensioni della vita, quasi entrasse in un mondo parallelo impossibile da rilevare per le macchine, una dimensione in cui appare possibile raddrizzarsi il naso da soli.
Il risveglio lo porterà sulla riva del mare da dove comincia finalmente, come si conviene a tutti i naufraghi, l'avventura del film. Il costume da Fronte del Porto dei teppisti che aggrediscono il nostro uomo, forse affittato direttamente alla Columbia Pictures, fa il paio con le musiche da jukebox anni '60 per dare l'impressione, poi contraddetta come vedremo da altri elementi, di una ambientazione in quegli anni. Il jukebox c'è veramente, così come i suonatori dell'Esercito della Salvezza che, come nei Paesi d'oltre Cortina in piena Guerra Fredda, non hanno mai sentito il rock.
Il naufragio non è sulle spiagge di qualche isola esotica ma sulla riva di un ghetto portuale che si fa fatica ad identificare con la Finlandia, o con qualsiasi altro Paese nordico bene organizzato e attento alle necessità sociali. Sembra piuttosto una Budapest sull'orlo della rivolta del '56 o, meglio, una Varsavia ai tempi di Solidarnosc. Qualcosa oltre Cortina comunque, come la storia del rock sembra rinforzare. Salvo poi farci scoprire che a poca distanza dal ghetto portuale c'è un grande cantiere navale dove un gigantesco transatlantico moderno fa bella mostra di sé.
Il guardiano despota che specula sui container-alloggi sembra un piccolo funzionario corrotto dei soviet o anche un burocrate da lagher, dati i molteplici mazzi di chiavi che porta alla cintura. Il suo presunto ferocissimo cane, divoratore di inquilini morosi, di feroce ha solo la citazione cinematografica del nome: Hannibal, giusto se qualcuno avesse ancora dubbi sul tono del film di Kaurismaki. Il ritmo dei particolari surreali è cadenzato in modo da non permettere mai allo spettatore di cedere alla tentazione di prendere tutto troppo sul serio, come l'improbabile campetto di patate che il protagonista si mette improvvisamente di buona lena a coltivare. O la rapina in banca in cui il protagonista si trova coinvolto, che della rapina ha solo il fucile a canne mozze.
Naturalmente la banca è quanto di più vicino si possa immaginare a qualche agenzia dai dubbi affari di una repubblica delle banane. Si scopre ben presto che il rapinatore è un galantuomo che era andato a riprendersi i soldi ingiustamente sottrattigli dalla banca, al solo scopo di renderli ai dipendenti che aveva dovuto licenziare. La scena del bar in cui il neo rapinatore spiega le sue ragioni al protagonista è fatta solo di un bicchiere di birra e di una foto appesa alla parete. Il ritratto sembra quello dello stesso rapinatore da giovane, come se in questa vicenda parallela si riverberasse e si concludesse la sintesi del tempo che attanaglia, in una continua metamorfosi senza scampo, la vita di tutti gli uomini; una specie di labirinto di Arianna del tempo, dove il protagonista si trova ad aggirarsi per riuscire a capire la sua meta.
Dopo aver messo a posto i suoi conti l'imprenditore si suicida. Lui non ha potuto salvarsi dal passato con la perdita della memoria ma è rimasto ancorato alla traccia del suo destino preconfezionato dai meccanismi dei quali è stato vittima. Ma la trovata più efficace nella sua originalità, ai fini della surrealità, ma non troppo, del film, sta nell'uso sapiente delle icone cinematografiche più accreditate per l'ambientazione delle scene: le automobili. Il modello che fa da protagonista a quattro ruote, di un bel colore blu elettrico, sembra preso in prestito dai film di Philip Marlowe. Fuori dell'ufficio del rapinatore-imprenditore, campeggia il bel posteriore di una Pontiac Bonneville della fine degli anni '50, a riprova che forse non siamo oltre Cortina ma la già citata repubblica delle banane. Però la macchina della polizia somiglia stranamente a quella dell'ispettore Derrick e, faccenda ancora più strana, il tassì che conduce il nostro eroe a un ultimo contatto con la ex moglie, cioè con la sua vita precedente, è un ultimissimo modello Volvo V 70, perfettamente in linea con l'ambientazione scandinava che tutti si aspetterebbero da un film finlandese contemporaneo.
L'identità è quindi connessa con la cronologia del tempo, che è ciò che struttura la visione del mondo in cui si vive. Il contatto con l'ex mondo è completamente privo della poesia surrealista del non luogo di quello nuovo, tutto appare più che prevedibile e banale, come l'idea di battersi col nuovo compagno per il possesso della ex moglie. E' giusto così. Come potrebbe esserci un barlume di poesia in un mondo artefatto e conformista? La conquista dell'autenticità appare quindi l'altra faccia della scoperta della propria poesia interiore. Si tratta di una realtà il cui valore non è comunicabile a parole o secondo schemi conosciuti dalla logica. I paradossi dello Zen, e del film, partono da questa stessa considerazione.
L'amore è presente ma quello che sboccia subito tra i due protagonisti non viene mai nominato, mai dichiarato, perché anche l'amore appartiene alla sfera del non comunicabile al di fuori di chi lo vive. Del resto l'amore non è il protagonista del film costituendo piuttosto il corollario del risveglio del nostro eroe. Dimenticando la propria identità precostituita, anche l'amore, come altre manifestazioni creative, si manifesta. Semplicemente perché sgombrando il campo dagli schemi della memoria (che contemplavano un matrimonio non riuscito e una vita dissipata) le facoltà più autentiche non possono fare a meno di emergere.
E se all'inizio l'eroe si era semplicemente arreso al proprio destino, permettendone quindi la dolorosa realizzazione in completa solitudine, nella scena finale in cui la serie degli eventi gli pone davanti di nuovo i teppisti in azione, la sua reazione ha il coraggio di chi ha preso coscienza della propria natura, e ha il potere di evocare immediatamente la corte dei miracoli del popolo senza luogo del ghetto portuale che, inseguendo i teppisti per una esemplare punizione, danno il sigillo del 'tutto si è compiuto'. A quel punto ricompare il guardiano che dichiara:" Quei teppisti ne hanno picchiati tanti dei nostri."
"Dei nostri?" Ripete il protagonista che scopre così di aver fatto parte senza saperlo di una comunità dai significati più ampi di quello che aveva potuto riconoscere. Il guardiano si offre di accompagnarlo: "Dove?" Chiede il protagonista. "Dove stavi andando," è la risposta. Vuoi vedere, nasce il sospetto, che la messinscena recitata dal guardiano e soci serviva solo per permettere al protagonista, e ad altri come lui, di mettere se stessi alla prova dell'accettazione e del coraggio? Il sospetto di una ispirazione alla maestria Zen appare ancora più legittimo. Uno dei più famosi detti dall'Oriente non recita forse: "Nulla è ciò che sembra?"
Che il finale del film sia da 'vissero felici e contenti' a questo punto conta ben poco. Sappiate liberarvi dagli schemi custoditi gelosamente dalla memoria e sarete liberi è il messaggio ma, ancora di più, sappiate che tutta la Terra non è ciò che sembra ma il supporto realizzativo degli eventi utili alla coscienza. Qualcosa, insomma, da prendere con la dovuta leggerezza e il necessario coraggio.
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